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Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto

Monetizziamo il nostro grande amore: le relazioni nel XXI secolo

Monetizziamo il nostro grande amore: le relazioni nel XXI secolo

Tinder monetizza! Non è uno slogan, né un'accusa particolare, ma soltanto l'ultima notizia che riguarda quella che è la più celebre – ci sembra – app di incontri. Tinder monetizza, dicevamo, ovvero: la piattaforma introdurrà una moneta virtuale per consentire agli utenti di comprare una maggiore visibilità del proprio profilo, aumentando di conseguenza le possibilità di incontrare altre persone. Il funzionamento è abbastanza semplice, e lo ha raccontato recentemente Daniele Monaco in un pezzo per Wired: «Lo strumento ideato dall’app di appuntamenti romantici per favorire la propensione degli utenti a spendere è una nuova moneta virtuale che sarà utilizzabile solo all’interno dell’applicazione stessa. Il principio è semplice: i gettoni digitali potranno essere acquisiti nella misura in cui gli utenti restano attivi sulla piattaforma o mantengono aggiornato il profilo, ma potranno anche essere scambiati con il denaro reale». Una sorta di economia interna all'app, dunque, che dipende molto dalla frequenza con cui la si usa e che permette una serie di funzioni avanzate, dal Super like, che consente di far conoscere all'altra persona il proprio interesse, al boost, che comporta una maggiore visibilità del proprio profilo, appunto. Di per sé, che Tinder cominci a monetizzare non stupisce più di tanto (chi non lo fa, oggi?); piuttosto la notizia si porta appresso una serie di implicazioni morali, o etiche, destinate a far discutere. L'amore, già offeso dalla sua controparte tecnologica – l'app d'incontri – si vede ora totalmente snaturato dalla sua commercializzazione. In parole povere: pagando, hai più possibilità di trovare la persona giusta. Il dilemma etico è facile da intendere anche per i più progressisti: non è forse meglio cercare l'amore in maniera tradizionale, come i nostri padri e i loro padri prima ancora? Forse. Forse no. Insomma, non c'è una risposta – e anche ci fosse, noi non la conosciamo. Il discorso, però, è un altro, molto più pratico: Tinder comincia a monetizzare perché Tinder è usato. E parecchio anche. Durante i mesi della pandemia la piattaforma ha visto crescere a dismisura i propri utenti, e anche ora le cifre non sembrano calare più di tanto. Le persone alla ricerca di un partner, di un'avventura o anche solo mosse dalla curiosità entrano a far parte di quel sistema digitale che sempre più fa parte della nostra quotidianità. E pensare che fino a qualche anno fa i siti di incontri – ricorderete forse il tanto pubblicizzato Meetic – non erano visti altro che come l'ultima speranza di uomini e donne già senza speranza. Oggi le cose sono diverse, anche se non del tutto. La popolarità delle app di incontri – di Tinder, certo, ma anche di servizi come Grindr – ha condotto queste ultime sotto un'ottima luce. Godono di una buona reputazione, insomma. Ma solo se – e questo è il nodo – solo se usate per avere rapporti occasionali. Chiunque di noi ha già sentito millantare da qualche bocca orgogliosa l'innominabile tipa di Tinder. Che poi sarebbe la ragazza con cui si è usciti dopo il match sull'app e con cui, una cosa tira l'altra, si è combinato qualcosa. Bene. Meno orgoglio si prova, invece, quando con la persona conosciuta online comincia una relazione seria. E capita. Sempre di più. Eppure c'è una certa premura ad annunciare ad amici e parenti (soprattutto parenti) il non-luogo dove si è conosciut* l'altr*. Si cerca una giustificazione, oppure si ridacchia e si dice qualcosa del tipo: «Eh, su Tinder... ma non so come sia successo!». Tendiamo a mettere le mani avanti, a scusarci con l'altro per aver trovato l'amore su una piattaforma il cui unico utilizzo accettabile è quello degli incontri occasionali. D'altra parte, non sono certo clementi i bisbiglii divertiti di certe persone quando scoprono che un* loro vecchi* amic* ha iniziato una relazione in quel modo. Ma insomma, perché? Pare – pare – che inconsciamente concediamo una maggiore libertà, un più ampio progressismo, al sesso occasionale che non alla relazione amorosa. Questa, nonostante i tempi che viviamo e le battaglie che abbiamo combattuto, resta come inevitabilmente ancorato al passato. Non si vuole, dicendo ciò, sconfessare la tradizione in nome di un progresso a tutti i costi, naturalmente. Soltanto, ci sembra opportuno scrollarci di dosso anche questo pregiudizio. L'amore è amore, insomma, che lo si trovi su Tinder o al parco, ciò che conta è la relazione che si costruisce insieme. L'inizio di questa, in fondo, non è altro che un bell'aneddoto da ricordare ogni tanto con un sorriso. Senza pregiudizi o stigmi di sorta. ENRICO PONZIO

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UN "PELO" IMBARAZZANTE

UN "PELO" IMBARAZZANTE

A quantə di voi è stato fatto notare di avere avuto, in giornate particolari, i peli sotto le ascelle, oppure baffetti e sopracciglia incolte? A me sì, ben prima che si diffondesse il movimento no wax (= no cera!), ad alimentare insicurezze che poi, a ben analizzare risultano prive di fondamenta se si raggiunge la consapevolezza di valere molto più di un pelo. Negli ultimi periodi si assiste a una diffusione maggiore della consapevolezza di sé, specie nelle generazioni più giovani che le porta ad attribuire il giusto peso all’innominabile pelo. A lungo, infatti, sono stati vissuti e considerati come un vero e proprio tabù, a causa della pressione esercitata dal canone della donna depilata sempre e ovunque, dotatə di un kit di sopravvivenza irrinunciabile in caso di trasferte di più o meno lunga durata. Mostrare un pelo di troppo poteva mettere in discussione l’intero paradigma della femminilità. Il mantra che a lungo ha dominato lo scenario era che i peli non si dovevano vedere MAI: di qui spot pubblicitari di rasoi e creme depilatorie che scorrevano sulla pelle già perfettamente liscia della modella. E noi, poverə comuni mortali, sempre in perenne lotta coi peli e faticose sedute dall’estetista? È stato bello confrontarci con voi qualche tempo fa, sul nostro canale Instragram, proprio su questo argomento: ci commuove sempre quando qualcunə di voi condivide la sua esperienza o un pensiero con noi, e le risposte alle storie specifiche sui peli e la depilazione sono state tantissime. Siamo contentə di aver ascoltato le vostre storie e felicə perché abbiamo capito che il fatto di eliminare o no i peli dal proprio corpo si sta trasformando in una scelta personale, libera dai preconcetti di genere. Non c’è una risposta a cosa sia più giusto, ma è bello vedere che, dopo anni, ciascunə scelga in base a sé stessa, depilandosi per sentirsi meglio o non facendolo, senza correre il rischio di essere giudicatə per questo. Pensiamo che questa sia una nuova pagina nella definizione di un concetto di bello più libero e inclusivo, all’interno del quale ognunə si possa sentire rappresentatə a prescindere dai peli.   ALICE CARBONARA

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PENSARE ALL'ALTRO

PENSARE ALL'ALTRO

Il mondo moderno – diciamo, a grandi linee, dagli anni Sessanta in avanti – ha avuto la capacità e il pregio di parlare di sessualità. Di parlarne, dicevamo. Non sempre di saperne parlare. Se da una parte, infatti, il Sessantotto e i suoi protagonisti hanno saputo in qualche modo svincolare il sesso da quei retrogradi e tanto fastidiosi taboo, mostrando in piazza la nudità – tra bellezza e imperfezioni – e parlando esplicitamente di sessualità (dall’atto in sé a tutto ciò che la riguarda); dall’altra sdoganare l’argomento ne ha comportato una visione distorta e a tratti pericolosa. L’obiettivo delle battaglie sessantottine era, infatti, l’emancipazione del corpo – maschile o femminile che fosse – e la libertà di come usarlo; eppure il messaggio recepito nei decenni successivi pareva il seguente: oggettivare il corpo femminile (ma solo di un certo tipo, sia chiaro) in nome della libertà. Le televisioni hanno contribuito spietatamente a quest’idea: l’obiettivo era mettere in mostra una donna perfetta, quasi nuda, che non parlasse e non smettesse di sorridere, costretta a ridere di qualsiasi battuta becera del conduttore. Becera, perché quasi sempre riguardava l’ingenuità di lei o la bellezza del suo corpo. Il tutto per soddisfare le pulsioni del popolo maschile comodo sul proprio divano di casa, mentre le poche e silenziose proteste di alcunə venivano spente tra risate e prese in giro. L’industria porno, in questo, non ha aiutato. Non perché sia immorale di per sé (evviva il porno!, ci verrebbe da dire), ma per l’idea che offre del sesso, a dir poco androcentrica. Il piacere riguarda l’uomo, il video termina nel momento in cui lui conclude la sua prestazione, tutta la scena sembra gestirla l’attore in base alle voglie del momento. C’è poco altro, e ben poche eccezioni.   Tutto ciò si riflette in una conoscenza distorta della sessualità da parte dei più, soprattutto quando si è giovani. Insomma, spesso cresciamo con l’idea che nel sesso, il piacere è il piacere del maschio. Non è tanto colpa del porno, e in fin dei conti nemmeno (non totalmente) delle televisioni, quanto di una mancata educazione sessuale. Anche perché nel campo dell’intrattenimento visivo le cose sembrano stare cambiando. Le serie TV, sempre più in streaming e sempre meno in TV, cominciano a guardare alla sessualità come a una materia inclusiva, per tuttə. Due, in particolare, insistono sull’argomento: Big Mouth e Sex Education, entrambe prodotte da Netflix. In modo nuovo e senza filtri, soprattutto per la prima citata, si mette a nudo la sessualità, emergono le problematiche che la riguardano e si forniscono soluzioni a problemi che tuttə, soprattutto nell’adolescenza, affrontano. Ciò su cui si insiste in particolar modo è l’importanza del dialogo. Crescere con l’idea che il piacere è innanzitutto maschile – e che comunque il maschio è sempre e inevitabilmente capace di soddisfare la sua femmina, se vuole – ha provocato un singolare pregiudizio: non ci sono problemi se la donna non raggiunge l’orgasmo, ce ne sono se non ce la fa l’uomo. Perché per le donne è più complicato, si sa. Questo, forse, può anche essere vero. Ma impegnarsi entrambi, come coppia, alla soddisfazione reciproca è al contrario quanto di più sano si possa fare. Spesso le esigenze di ognuno sono diverse, e ciò che piace in quel momento al maschietto può non essere la cosa migliore per lei, o viceversa. Inspiegabilmente, temiamo di chiedere cosa preferisce l’altr*. Abbiamo messo l’asterisco, ma in verità è un problema, come dicevamo, che riguarda più gli uomini. Il piacere femminile è messo in secondo piano, è ritenuto sacrificabile: non per forza per egoismo o maschilismo, ma perché abbiamo imparato così. Perché una volta che l’uomo finisce, è finito il rapporto, e al massimo si riprende più avanti, con lo stesso risultato. Parlarsi, invece, aiuterebbe entrambi. Chiedere alə propriə partner cosa preferisce, fare gioco di squadra perché provi il massimo del piacere, impegnarsi a fondo non solo per noi stessə, ma per l’altrə, comporta un piacere di coppia di gran lunga migliore di quello individuale. Dal momento in cui abbiamo l’intimità, non necessariamente frutto di una relazione, sufficiente per un rapporto sessuale, possiamo anche averla per dialogare, confidarci, parlare.Perché è piacevole. Perché ci fa bene. ENRICO PONZIO

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QUANDO IL MODELLO MASCHILE DOMINA, ANCHE SULLA SALUTE!

QUANDO IL MODELLO MASCHILE DOMINA, ANCHE SULLA SALUTE!

La medicina, teorizzata per secoli da uomini e per uomini, tende ancora oggi a equiparare la donna all’uomo. Si parla di medicina neutrale o medicina indifferente, ma quando si tratta di sintomi, diagnosi ed efficacia dei trattamenti le differenze ci sono eccome!Il dosaggio dei farmaci, così come lo sviluppo e l’utilizzo di dispostivi medici (fatte salve alcune particolari esigenze), vengono in genere studiati su un modello di uomo giovane, di circa 70kg.   La sottorappresentazione del genere femminile nel sistema medico ha radici profonde. La quasi totalità dei programmi scolastici di medicina continua a sostenere che i corpi maschili e femminili sono generalmente gli stessi ad eccezione degli organi sessuali, una convinzione nota come “bikini-medicine”. Negli studi in vitro frequentemente non si tiene conto se le cellule contengano i cromosomi XX o XY. Quando si passa in vivo, su modelli animali, viene preferito l’utilizzo di animali di sesso maschile per ridurre al minimo le differenze causate dalle fluttuazioni ormonali. Nei trial clinici le donne vengono spesso escluse dalle fasi I e II, necessarie a determinare dosaggio, effetti collaterali e sicurezza di un farmaco ed entrano nella sperimentazione direttamente nella fase III, quella in cui si stabilisce l’efficacia del farmaco su una grossa fetta di popolazione.La donna viene quindi considerata come una variazione del modello maschile, ma le differenze morfologiche e fisiologiche determinano una considerevole differenza nella risposta dell’organismo, così come nel modo in cui il farmaco viene assorbito, distribuito e metabolizzato.   A causa del numero ridotto di rappresentanti del genere femminile nei trial clinici, ma anche della mancanza di analisi statistiche che tengano conto delle differenze di genere, le donne sono maggiormente esposte a reazioni avverse ai farmaci dovute a sovradosaggio, ad una riduzione di efficacia e ad effetti indesiderati maggiori o più gravi rispetto agli uomini.Nonostante questa consapevolezza sia maturata e gli organismi regolatori nazionali ed internazionali abbiano creato appositi programmi per monitorare la salute delle donne e la loro partecipazione ai trial clinici, e nonostante il fatto che si sta iniziando a parlare di farmacologia di genere, i protocolli di sperimentazione non sono cambiati e la maggior parte degli studi non prevede una differenza tra maschi e femmine al momento dell’arruolamento e dell’analisi dei dati.   L’inferiorità numerica della partecipazione femminile agli studi sperimentali è imputabile a numerose e diverse ragioni. Ragioni economiche in primis: per stratificare i dati in base al sesso è necessario arruolare uomini e donne, raddoppiando la partecipazione alla ricerca con conseguente aumento di tempi e costi della sperimentazione. Ragioni biologiche: le donne sono considerate soggetti “difficili” per la sperimentazione clinica, a causa delle fluttuazioni ormonali sia cicliche che non (ciclo mestruale, gravidanza, allattamento e menopausa). Questa variabilità crea la necessità di avere un gran numero di partecipanti alla sperimentazione per poter valutare effetti significativi, e non è detto poi che questo accada. Inoltre, molto spesso in caso di partecipazione ad un trial clinico da parte di una donna fertile, per evitare che il farmaco sotto esame possa potenzialmente avere effetti negativi sul feto la casa farmaceutica impone l’utilizzo di contraccettivi ormonali.Mancanza di tempo, dovuta principalmente alla difficoltà di ritagliare del tempo tra lavoro e impegno domestico-familiare, e scarsa attenzione dei reclutatorə alle necessità pratiche e psicologiche femminili. Il comitato bioetico italiano afferma che la mancanza di studi specifici sulle donne, soprattutto nelle prime fasi della ricerca, non consente di misurare la reale efficacia dei farmaci sull’organismo femminile oltre a limitare l’identificazione di farmaci appositamente studiati per le donne.Un’analisi stratificata per sesso può fornire indicazioni utili su quale sia la scelta terapeutica migliore per ciascun individuo e dare informazioni che consentano di approfondire lo studio delle malattie che colpiscono sia uomini che donne, permettendo di capire meglio se possono esserci differenze nell’incidenza o/e nel decorso ascrivibili al sesso.   Un aspetto che potrebbe aiutare ad invertire questa tendenza e spingere verso l’utilizzo diffuso della farmacologia di genere potrebbe essere la presenza di un maggior numero di donne impegnate nella ricerca e nella pratica clinica. La loro presenza, nelle equipe che progettano e gestiscono gli studi e all’interno dei comitati regolatori contribuirebbe ad aumentare l’attenzione nei confronti della necessità di garantire un’uguale rappresentazione femminile e maschile all’interno delle sperimentazioni. La ridotta presenza femminile nel mondo della ricerca, medica ma non solo – pensiamo ad ambiti come ingegneria, matematica, informatica – in cui la scienza viene fatta da uomini, che vivono e percepiscono il mondo a loro immagine, in cui le donne sono solo una variazione sul tema, ha contribuito a creare e ad alimentare una società basata su un modello patriarcale ricco di stereotipi e atteggiamenti machisti, che è giunto il momento di superare. Beatrice Uguagliati

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PILLOL*

PILLOL*

Condividere le responsabilità, alla fine è proprio di questo che si tratta.   Per quale motivo invece si dà comunemente per scontato che sia la donna a doversi preoccupare della contraccezione? ll profilattico smorza la sensibilità, il coito interrotto è poco sicuro e lesivo del piacere, vuoi mettere quanto è più comodo se lei prende la pillola? A partire dagli anni ’60 le donne hanno combattuto, scontrandosi con i pregiudizi della società e gli attacchi da parte di ogni fede religiosa, per ottenere il diritto di assumere contraccettivi, facendosi carico di tutti i loro effetti collaterali, per poter vivere la sessualità non solo più come atto principalmente procreativo ma anche ludico, sottraendosi a gravidanze indesiderate senza dover ricorrere all’aborto.   Di contraccezione maschile si parla molto poco, eppure già Ippocarte aveva studiato un metodo per rendere gli uomini temporaneamente sterili. Il medico greco infatti aveva osservato che, immergendo i testicoli in acqua molto calda, l’efficacia riproduttiva dell’uomo si riduceva. La moderna ricerca sugli anticoncezionali maschili è iniziata nello stesso periodo di quelli femminili, negli anni ’30 del secolo scorso, ma i progressi fatti sono stati nettamente inferiori. Nel 1997 si pensava di essere finalmente arrivati ad una soluzione grazie a una pillola a base di progesterone da associare a iniezioni di testosterone, un progetto che però fu abbandonato nelle ultime fasi dei test per mancanza di fondi (e forse di interesse). Un altro grosso studio basato su l’inibizione ormonale aveva iniziato a fornire delle speranze qualche anno fa, dimostrando un’efficacia paragonabile a quella delle pillole contraccettive in commercio. Purtroppo, però, il numero di effetti indesiderati riscontarti durante il trial sperimentale è stato molto alto, portando alla sospensione dello studio. Oggi la ricerca si sta aprendo anche verso metodi contraccettivi non ormonali: è al momento in fase di sperimentazione una sostanza gelatinosa che viene iniettata nei dotti deferenti dell’apparato genitale maschile impedendo che gli spermatozoi si aggiungano al liquido seminale prodotto dalla prostata e dalle vescicole seminali. In Francia, un metodo sperimentale simile a quello proposto da Ippocrate è stato adottato da numerosi collettivi di uomini: attraverso l’utilizzo di indumenti intimi appositamente pensati si aumenta leggermente la temperatura dei testicoli e dopo tre mesi di utilizzo per quindici ore al giorno, la produzione di spermatozoi diminuisce senza impedire né l'erezione né l’eiaculazione.   Da un’indagine della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia del 2016 è emerso che il 62% degli uomini intervistati sostiene che la contraccezione sia compito della donna. Fortunatamente però non tutti la pensano così: molti uomini, soprattutto dopo aver fatto parte di un gruppo di sperimentazione di contraccezione maschile, si dicono disponibili se non anche desiderosi di alleviare la propria partner dal carico mentale di una possibile gravidanza indesiderata e dagli effetti collaterali della pillola anticoncezionale, assumendosi la propria parte di responsabilità. Ci auguriamo che grazie all’esempio, alla partecipazione e alla condivisione di queste esperienze, il pregiudizio che pone la contraccezione maschile in antitesi alla virilità, ancora saldamente radicato all’interno della nostra società, possa essere finalmente eliminato.   BEATRICE UGUAGLIATI                     

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LA GABBIA DEL CORPO PERFETTO

LA GABBIA DEL CORPO PERFETTO

Lungi dalla spensieratezza che tutti attribuiamo più o meno inconsciamente all’estate, l’arrivo di questa stagione comporta ben più di una perplessità. In primis quella legata al corpo: indossare un costume, un abitino, o un bermuda ci mette davanti al quesito principe della nostra società. Sarò abbastanza adeguatə? Di recente, vi abbiamo chiesto la vostra opinione rispetto a questo argomento in una serie di storie pubblicate sulla nostra pagina Instagram e le vostre risposte ci hanno confermato quanto tuttə siamo soggettə all’influenza di modelli dai quali veniamo costantemente bombardatə e che ci riducono a pensare a noi stessə come a degli esseri inadeguatə al contesto che vivono. Se è vero infatti che negli ultimi anni i media stanno tentando di veicolare l’idea che tuttə possiamo essere chi scegliamo di essere, è anche impossibile non notare un dato in piena contraddizione con questo assunto: la predominanza di figure snelle, giovani, possibilmente sexy, tutti attributi che devono essere mantenuti nel tempo, rievocando il mito irraggiungibile dell’eterna giovinezza. È questo il corpo che siamo abituatə a considerare come vincente, limitando diverse possibilità di espressione di sé, categorizzate come implicitamente sbagliate in quanto difformi dal modello dominante.Quanto sia diffusa questa idea lo dimostrano i numerosi episodi di body shaming, denunciati o meno, che le persone subiscono: da una recente indagine svolta da Nutrimente Onlus, pare che una donna su due abbia vissuto esperienze di questa forma di bullismo, per la quale si viene giudicati per la propria forma fisica. Le parti del corpo più prese di mira sarebbero gambe, pancia, glutei e fianchi; questo per quanto riguarda le donne. Per quanto riguarda gli uomini, il 65% dei ragazzi intervistati ha riferito di aver subito critiche umilianti in relazione al proprio aspetto fisico. Anche se a lungo sono stati sottovalutati, questo genere di commenti ha una ripercussione diretta sull’autostima, alimentando quel senso di inadeguatezza che purtroppo tuttə noi abbiamo sperimentato in qualche episodio della vita. Spintə dal pensiero che il corpo è il nostro biglietto da visita, prima ancora dell’abbigliamento, dell’acconciatura, del livello di istruzione che abbiamo raggiunto, veniamo avvoltə da un mare di pensieri e forse, a volte, insicurezze. Immancabilmente ci sforziamo di appartenere alla nostra epoca storica, ricostruendo il nostro aspetto seguendo i canoni dell’ideologia dominante, anche quando questa è tossica e strumentalizza, come ai nostri tempi, i corpi, e per antonomasia quello femminile. Questa smagliatura? Il seno troppo grosso? E le gambe gonfie? Quesiti che diventano sempre più pressanti quando l’arrivo della bella stagione ci invoglierebbe a scoprire la nostra figura. Ma di fronte allo status symbol dei nostri tempi, quello del corpo perfetto, non possiamo che cadere unə dopo l’altrə: a poco vale l’accavallarsi di diete o intense sessioni di allenamento. Anche questo è strumentalizzare se stessə e il proprio aspetto se non ci si muove da un principio più sano: ad esempio, allenarsi o curare la propria alimentazione per volersi bene e non per essere maggiormente conformi all’immagine che la società ha deciso che dobbiamo rivestire. Solo così, in attesa che alle nostre latitudini decadano stereotipi di questo tipo, potremo dare il nostro contributo: accettando un chilo di troppo, una ceretta in ritardo, una ruga. Non c’è niente di più bello di una persona che si ama per quello che è, anche d’estate.   ALICE CARBONARA

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L'ANSIA PEGGIORE

L'ANSIA PEGGIORE

Una volta ho fatto cilecca! Che pesantezza, che tremendo imbarazzo nell'ammettere una verità così comune e, al contempo, così nascosta, repressa, inaccettabile. Eppure, è così, è successo. E si sa, in questi casi, un capro espiatorio lo si trova ad ogni costo, per quanto poco verosimile esso sia: «Ho bevuto troppo», dice qualcuno; «Sono stanco», qualcun altro; «Eh, le radiazioni del cellulare...». Recentemente Tommaso Ghezzi, per «Il Tascabile», ha raccontato in un articolo quella che, ai tempi, fu una vicenda televisiva celeberrima: la cilecca di Pietro Taricone davanti alle telecamere del Grande Fratello 1. Insomma, il concorrente sex symbol e super-macho non aveva raggiunto l’erezione durante un rapporto con Cristina Plevani. e Ghezzi racconta di come agì il megafono mediatico di Antonio Ricci: essendo stati tutti presi alla sprovvista e dunque smaniosi di una motivazione, ai microfoni si dichiarò che quella défaillance fosse «dovuta al bombardamento delle onde elettromagnetiche irradiate dalle batterie dei microfoni, che i ragazzi tengono fissate sui pantaloni all’altezza dell’inguine». Come poteva, infatti, il maschio per eccellenza fallire proprio nella sua più grande peculiarità? Certo, quella era l’Italia dei primi anni duemila, e il faro berlusconiano Mediaset brillava più che mai: si sguazzava tra il sessismo e il machismo senza che le poche e flebili grida di protesta potessero essere ascoltate da alcuno. Eppure, sulla questione in sé, anche oggi le reazioni sono simili. Capita di fare cilecca, bene. Pare che sia sempre necessario trovare una spiegazione al di fuori di noi stessi, scaricare la responsabilità della cosa su un fattore esterno – possibilmente plausibile – di modo da poterci giustificare agli occhi del mondo. Il fattore psicologico non può essere una scusante: il maschio non fallisce durante il sesso, non prova ansia. È una macchina perfetta, oliata a dovere, che una volta attivata lavora fino a soddisfare (ne siamo poi così sicuri?) le esigenze della femmina. E nel frattempo noi maschi, cresciuti con questa convinzione fin dai primi giorni dell’adolescenza, coltiviamo a poco a poco una paranoia silenziosa, non condivisa con nessuno: la possibilità di fallire. È così silenziosa, appunto, così adagiata in profondità nel nostro inconscio da farci dimenticare della sua esistenza finché un giorno, inspiegabilmente, falliamo. Facciamo cilecca. Il mondo ci è crollato addosso: è successo. Si comincia a sudare, ci si infuria e ci si arrovella sul motivo di quella tragedia. Ci convinciamo di essere gli unici, perché è una cosa che non dovrebbe succedere, perché abbiamo stampata in testa l’idea del sesso come l’animalesco esercizio funambolico del porno-attore palestrato e invincibile. Non si vuole, certo, scaricare la responsabilità di un problema sull’industria pornografica, quanto piuttosto evidenziare l’immagine distorta che si ha, comunemente, della virilità. La vergogna della non-erezione non è altro che l’ennesima delle tantissime rappresentazioni di ciò che non deve essere o fare l’uomo: non deve piangere, non deve assumere atteggiamenti tipici femminili, non deve fallire durante il sesso. Eccetera. Nell’ideale di maschio comune con cui siamo cresciuti non c’è posto per l’emotività, né tanto meno per ogni fragilità di sorta: la virilità è fisicità, a qualunque costo. Succede allora che la pressione sessuale diventa altissima, per alcuni insostenibile, e capita che un evento comune e di poco peso come il mancato raggiungimento dell’erezione si trasformi in vera e propria ansia da prestazione, talvolta in impotenza. Perché ognuno di noi, chiuso nel proprio guscio di convinzioni, è terrorizzato di essere l’unico, di rappresentare un problema. Se cominciassimo a dialogare tra noi, ad ammettere le nostre quotidiane incertezze, le nostre umane fragilità, ci accorgeremmo (rincuorandoci) di una cosa: capita a tutti, o quasi. Questa è la (triste? amara? banale?) verità.  Tralasciando i casi di impotenza, i cui numeri sono ben più bassi, secondo le stime ben un uomo su due ha avuto difficoltà di erezione almeno una volta nella vita. Forse si tratta di un esercito di ubriachi, o di persone costantemente colpite dalle radiazioni nell’area genitale. Oppure, più semplicemente, si tratta di uomini comuni, definiti come chiunque da una complicatissima gamma di emozioni, da uno spettro psicologico irriducibile allo status di automa. Uomini, insomma, di tutti i giorni, senza ombra di dubbio non infallibili.  ENRICO PONZIO

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GUIDA ALL'USO DEGLI ASSORBENTI INTERNI

GUIDA ALL'USO DEGLI ASSORBENTI INTERNI

 Tutto quello che ti farà comodo sapere sugli assorbenti interni... Con l’arrivo dell’estate, spesso si preferisce più comunemente utilizzare i tamponi interni, al posto degli assorbenti esterni. Eppure, il loro utilizzo rimane circoscritto ad alcune situazioni, come ad esempio la spiaggia oppure lo sport: un’abitudine sulla quale può aver gravato l’alone di miti e dubbi legati al loro utilizzo. Sono tante, infatti, le domande che vengono generalmente poste, sintomo di una disinformazione che si è annidata nelle percezioni comuni e che sono state affrontate ancora molto poco e dalle quali è disceso un certo grado di diffidenza nei confronti dei tamponi. Come inserirli? Quanto spesso cambiarli? Il tampone può girovagare per il mio corpo? Per provare a dirimere queste domande, abbiamo chiesto a Francesca, psicologa ed esperta in educazione sessuale, di raccontarci tutto quello che c’è da sapere sugli assorbenti interni, tra suggerimenti pratici e risposte scientifiche a falsi miti radicati nella nostra società. “Come sono fatti?” Gli assorbenti interni sono tamponi di forma cilindrica e punta arrotondata, con un cordone pendulo che va mantenuto all’esterno della vagina e che facilita la rimozione. Alcuni tipi di assorbenti interni sono provvisti di un apposito applicatore monouso. “Perché usarli?” Possono essere utilizzati fin dal primo giorno del ciclo. Discreti, perché invisibili, offrono alle donne il vantaggio di sentirsi più disinvolte e sicure anche al mare, durante lo sport o con un abbigliamento chiaro o aderente. Impediscono la sensazione di umidità delle parti intime e il disagio del caratteristico odore mestruale.   “Ma se un flusso abbondante, quale scelgo?” In commercio esistono vari tipi di assorbenti interni di diverse misure per adattarsi al tipo di flusso, basterà leggere sulla confezione.   “Come si inserisce?”Se le prime volte avrete qualche difficoltà, non scoraggiatevi: sarà sempre più semplice e, alla fine, vi sembrerà del tutto naturale, come usare gli assorbenti esterni!Per prima cosa lavare le mani prima e dopo l’inserimento. È consigliato assumere una posizione comoda che vi permetta di rilassare le pareti vaginali e la muscolatura del pavimento pelvico. Soprattutto non abbiate fretta, prendetevi tutto il tempo che vi serve. Potete stare sedute sul bidet, sul water o in piedi con le gambe divaricate, come meglio credete. È importante inserire il tampone lasciando il cordino fuori dalla vagina per favorire la rimozione. Alcuni assorbenti sono dotati di un applicatore per facilitarne l’inserimento. Una volta inserito fino al punto indicato sull’applicatore, si spinge con delicatezza, si rimuove l’applicatore e il gioco è fatto!Se è ben indossato non si avverte la sua presenza.   “Quanto tempo lo possono tenere?” È importante NON tenere l’assorbente per troppo tempo in vagina poiché potrebbe causare fastidi e infezioni. Perciò ogni 2/4 ore è bene cambiarlo, anche se il tempo dipende dalla quantità di flusso. È sconsigliato tenere l’assorbente per più di 6/8 ore consecutive. C’è chi utilizza i tamponi anche di notte, tuttavia il consiglio è quello di alternare l’uso di assorbenti interni con quelli esterni. Inoltre, per una scelta ecologica non buttare il tampone nel wc (che potrebbe intasarsi), ma avvolgilo e buttalo nel cestino!   “Se uso l’assorbente interno perderò la verginità?” La verginità è un concetto culturale e sociale, non fisiologico. Comunemente si associa la perdita della verginità alla rottura dell’imene. In realtà si tratta di due concetti distinti. Infatti l’imene, è una membrana più o meno elastica che copre parzialmente l’apertura vaginale lasciando libero il passaggio al sangue mestruale. Esso potrebbe essersi già rotto oppure essere talmente elastico da non rompersi mai.   Altre domande...Non esistono controindicazioni sull’uso del tampone durante il bagno o la doccia, né durante l’evacuazione (meato uretrale e apertura vaginale sono due fori diversi).   N.B.: l’assorbente non può perdersi in vagina, in quanto essa è un canale lungo dai 7 ai 9 cm (a differenza dell’intestino che tende a “risucchiare” tutto ciò che vi viene inserito).N.B.: se dovesse rompersi il cordino (altamente improbabile) sarà comunque possibile rimuovere il tampone usando le dita o chiedendo l’aiuto di un medico. L’uso corretto dei tamponi permetterà di non correre alcun rischio e di sfruttare al massimo i suoi vantaggi. È comunque sempre opportuno consultare un ginecologo in caso di dolori, infiammazioni già presenti o sviluppate a seguito dell’uso di tamponi, alterazioni anatomiche o allergie alle componenti dell’assorbente. FRANCESCA INGHIRAMI Introduzione a cura di Alice Carbonara    

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POTRAI ESSERE TUTTO CIÒ CHE VUOI

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Di donne e di STEM Non molto tempo fa una dichiarazione che non avrebbe stonato durante il buio medioevo ha trovato spazio nelle prime pagine dei quotidiani italiani: “è naturale che i maschi siano più portati verso discipline tecniche“…”mentre le femmine abbiano una maggior propensione per l’accudimento”. Da molti anni ormai le neuroscienze hanno smentito questo assurdo stereotipo e le ragazze stanno sgomitando per farsi spazio nelle discipline STEM (acronimo inglese che sta ad indicare scienza, tecnologia, ingegneria e matematica).  La strada da fare è però ancora molto lunga: secondo i dati UNESCO riferiti al 2017 meno del 30% dei ricercatorə nel mondo è donna. In Italia gli scienziati o ingegneri uomini sono il 68% contro il 32% delle donne. Se entriamo nelle Università italiane negli ultimi 40 anni il numero di ragazze iscritte è aumentato esponenzialmente, ma nei corsi STEM la rappresentanza femminile è ancora piuttosto bassa e se si chiede alle adolescenti italiane solo il 5% di loro afferma di voler intraprendere una carriera nel mondo STEM, contro il 20% dei coetanei maschi. Riuscire a farsi spazio nel mondo scientifico è stata una vera e propria battaglia per molte donne, che hanno dovuto affrontare innumerevoli ostacoli, umiliazioni e mancati riconoscimenti. Nel 1993 la storica della scienza Margaret W. Rossiter descrisse il triste ”Effetto Matilda”: il fenomeno per il quale i contributi delle donne alla ricerca scientifica vengono sminuiti, attribuendoli in parte o in toto a uomini. Un esempio su tutti è la storia di Rosalind Franklin, scienziata che assieme a Francis Crick, Maurice Wilkins e James Dewey Watson scoprì la struttura del DNA. Franklin però, al contrario dei colleghi che vinsero il Nobel per la medicina, non ottenne alcun riconoscimento. Questa disparità di genere nelle cosiddette scienze dure ha anche un importante impatto nella società. Ad esempio nell’intelligenza artificiale in cui i maggiori centri di ricerca sono dislocati nel mondo occidentale e popolati da uomini stiamo assistendo alla creazione di intelligenze artificiali a misura di maschio bianco, macchine insomma che pensano come gli uomini che le hanno create.    Ma, come dicevamo prima, qualcosa si sta muovendo spinto dalla forza e dalla determinazione di moltissime donne e ragazze che stanno lottando per farsi spazio nel mondo STEM. Uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU è il raggiungimento dell’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne e le ragazze. Numerose iniziative stanno portando nelle scuole di ogni ordine e grado esempi di donne impegnate nelle discipline STEM. Si stanno moltiplicando i laboratori per avvicinare le bambine al coding, all’ingegneria e alle scienze. In questo modo, ampliando gli orizzonti e creando dei modelli di riferimento tutte le bambine si sentiranno libere di scegliere cosa vorranno fare da grandi e nessuno dovrà permettersi di dire loro che è un lavoro da uomini. Allo stesso modo qualsiasi bambino potrà intraprendere qualunque carriera esso voglia: sarà libero di insegnare, ballare, accudire, viaggiare nello spazio, perché anche da quest’altro lato della medaglia è giusto accettare che ad un maschietto le STEM proprio non interessino! BEATRICE UGUAGLIATI

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