Salta al contenuto

Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto

INCLUSIVITÀ E PRONOMI

INCLUSIVITÀ E PRONOMI

Singular they, pronomi di genere e altre incomprensioni  «Je est un autre», «Io è un altro», esordiva il giovane Rimbaud nella sua celebre Lettera del veggente, confondendo fin da subito il lettore con una stonata deformazione grammaticale. Recentemente, Demi Lovato, cantautrice e attrice statunitense, dichiarando la propria identità non-binaria, ha chiesto che non ci si riferisca più alla sua persona con i pronomi (femminili e singolari) she/her, ma con la terza persona plurale they/them. Insomma, una stonatura, all’orecchio, simile a quella di Rimbaud. Se però il poeta vedeva nella mancata concordanza una fuga dal soggettivismo e dalla propria identità, Demi Lovato trova in questa operazione un mezzo per esaltarla. Per mettere in chiaro le cose, verrebbe da dire in poche parole. È bene procedere con ordine. Traducendo letteralmente dall’inglese è facile, per noi italiani, fare confusione. Se il corrispondente italiano loro è corretto da un punto di vista grammaticale, infatti, l’uso che ne fa Demi Lovato è un altro, quello che in inglese è indicato come singular they, il they singolare, e ha la funzione di pronome singolare neutro. Qualche grido di protesta si alza dal mondo di internet: esiste già it! È vero, è sacrosanto, ma viene utilizzato in riferimento alle cose o agli animali! Perché mai, ci chiediamo, qualcunə che non si identifica né nel maschile né nel femminile dovrebbe svilire sé stessə con il pronome it? La forma del singular they, allora, consente alla lingua inglese di ampliare il proprio spettro linguistico andando a includere coloro che non possono (e non vogliono) identificarsi nella polarizzazione canonica she/her – he/him. Ma non si tratta, tuttavia, di una forma nuova. Il blog Terminologia, curato dalla linguista Licia Corbolante, dimostra infatti la sua attestazione già seicento anni fa, per quanto il suo uso fosse destinato soltanto nel caso di soggetto indefinito (anyone, nobody...) o quando non si conosca il genere (per esempio il generico friend). Ora, alla luce delle rivendicazioni di genere, si sta cominciando a estendere tale forma, sfruttando il suo potenziale inclusivo implicito a favore di un’inclusività linguistica. E si tratta di un’estensione piuttosto rapida e capillare, se si considera che Instagram (per il momento nel Regno Unito e negli USA) ha recentemente annunciato l'introduzione dei pronomi di genere nella biografia del profilo. L’italiano, naturalmente, si comporta in maniera diversa. Per quanto riguarda i plurali e i soggetti indefiniti (qualcuno,nessuno...) grammaticalmente ci si avvale del cosiddetto maschile sovraesteso, che include in sé generi diversi. In più, nella nostra lingua sostantivi, aggettivi e verbi hanno desinenze che indicano il genere (amic-o / amic-a...), distinguendo in maniera più categorica rispetto all'inglese. Per questo motivo, non esiste la possibilità di un pronome che vada a includere un neutro, proprio perché è un genere non previsto dalla nostra grammatica: they/them, pertanto, è intraducibile. Per cui, no, Demi Lovato non pretende che ci riferisca alla sua persona come loro, bensì in una forma che, per ora, non esiste nella nostra lingua. Eppure, ne esiste la necessità. Perché identità non-binarie, per forza di cose, esistono anche in Italia, e forse sarebbe il momento di trovare una soluzione pronominale che soddisfi le loro esigenze. L’introduzione di un pronome neutro in quelle lingue che non lo prevedono, fa parte di un più ampio meccanismo di evoluzione sociolinguistica che non fa altro che riflettere le necessità, le pretese e le battaglie sociali che al giorno d'oggi governano la scena pubblica. Tutto ciò non deve essere percepito come un'aggressione nei confronti della nostra lingua, o una strana forma di terrorismo sintattico-grammaticale, ma come uno dei tanti simboli di una lotta legittima, che ha bisogno di farsi sentire su più fronti. La lingua è un fattore sociale, e in quanto tale risente della fluidità sociale: l’uso della forma “tutt*” / “tuttə”, per esempio, richiama a una problematica, ahimé extralinguistica, di esclusività e discriminazione di genere. Fare uso di tali forme, pertanto, è in primo luogo una presa di posizione: non necessaria da un punto di vista grammaticale, ma sociale sì. Significa accorgersi che tra il pubblico a cui si sta facendo riferimento con quel  “tutt*” (o “tuttə”) esistono realtà e identità diversissime, tutte da porre sullo stesso piano. Non si tratta, allora, di una rivoluzione grammaticale o linguistica in senso stretto; la lingua in questo caso è piuttosto un mezzo per un fine: l'inclusività di genere.   Sui pronomi personali, il dibattito è oggi aperto più che mai, e capita che paladini della lingua o della società, da entrambi i fronti, si espongano e si indignino senza avere ben presente i complicati meccanismi linguistici. Questo, forse, importa poco. Ciò che è importante, crediamo, è la portata che le battaglie sociali e di genere (in tutte le loro sfaccettature) abbiano sulla scena pubblica; anche se tra varie incomprensioni, traduzioni errate e strafalcioni, l’inclusività è un problema di cui si parla. Dopo anni di silenzio, di soprusi e di ingiustizie, stiamo vivendo un momento di lotta in qualche modo rivoluzionario, che obbliga anche i più restii a riflettere sulla diversificazione (bellissima) della società, obbliga a rendersi conto che alcuni individui sono più discriminati di altri, o addirittura nemmeno tenuti in considerazione. Ora sentiamo la loro voce. Ora ne parliamo. Finalmente.   ENRICO PONZIO  

Saperne di più
Il ripristino degli ecosistemi

Il ripristino degli ecosistemi

“Reimagine, recreate, restore”: una realtà che può essere realizzata solo dalle nuove generazioni. Questo è quanto auspica la giornata mondiale di ieri dedicata all’ambiente e che si celebra ogni anno il 5 giugno.  Certamente, lo stile di vita adattato per decenni dal mondo occidentale ci potrebbe far pensare due cose: che si tratti di una grande utopia e che preveda un cambiamento radicale che mette in discussione un gran numero di abitudini a cui è abituata la nostra civiltà. È da qui che vogliamo partire: cosa vuol dire essere parte di questa civiltà? Basandosi su giudizi di valore e adottando come riferimento un principio di innovazione, giorno dopo giorno la civiltà ha facilitato gli aspetti più piccoli del vivere come individui, ma siamo sicuri che l’ambiente naturale, come principale attore del nostro ecosistema, resti indifferente alle nostre scelte? L’esperienza e la scienza ci insegnano che le risorse non sono infinite e che il nostro stile di vita deve cambiare, passando da una categoria di pensiero individualista a una collettiva, rispetto alla quale ogni singolo elemento presente nei diversi ecosistemi e la loro biodiversità siano rispettati. Eradicare il concetto di civiltà euro-centrista e ricostruire una cultura basata sul rispetto del sociale e soprattutto dell’ambiente, è il ruolo che dobbiamo rivestire, come attori, in questo mondo. Forse si può ripartire dai concetti basilari su cui erano fondate le culture indigene, un modello a lungo considerato arcaico e arretrato da parte dei colonizzatori: eppure proprio quel 5% di popolazione mondiale costituita dalle culture indigene si trova a essere amministratrice essenziale dell’ambiente. I popoli indigeni hanno costruito stili di vita che si adattassero e rispettassero il loro ambiente. In montagna, i sistemi creati dalle popolazioni indigene conservano il suolo, riducono l'erosione, conservano l’acqua, riducendo il rischio di disastri ambientali. Nelle praterie, le comunità pastorali indigene gestiscono il bestiame e la coltivazione in modo sostenibile, affinché le praterie conservino la loro biodiversità. In Amazzonia, ci sono prove che dimostrano quanto gli ecosistemi migliorano quando nelle zone abitate dagli indigeni. Queste culture ancestrali potrebbero essere una guida per la nostra generazione e quelle a venire, insegnandoci con il loro pensiero il rispetto e collaborazione tra noi essere viventi in questo pianeta che ci ha colto. Può essere un primo spunto perché la nostra generazione possa essere ristoratrice di questo pianeta che sempre, amorevolmente, ci ha accolti. LAURA HERRERA

Saperne di più
#PINKYGATE, EPILOGO DI UNO SCANDALO

#PINKYGATE, EPILOGO DI UNO SCANDALO

Se hai il ciclo ti prego di non toccare i miei fiori, non vorrai farli appassire!? Se puoi evita di farti la doccia e per carità, signora mia, la tinta anche no durante quei giorni…Perfetto, quindi che faccio, mi verrebbe da chiedere? Mi metto seduta e aspetto in solitaria che tra quattro o cinque giorni le mie mestruazioni siano finite?Tuttə conosciamo le stravaganti leggende che circolano nei dintorni di ciclo-dotatə e, vista la frequenza delle occorrenze e il vasto campionario di miti, ci sorge il dubbione: qualcuno ancora ci crede? Forse sì! Più di una volta mi è successo di abbozzare un sorriso, convinta della battuta, che però lasciava l’interlocutorə sbigottitə, e forse persino infastiditə dei miei apprezzamenti al vaso di peonie di sua proprietà.Sappiamo, senza entrare nel merito di intricate questioni antropologiche, che tutte queste credenze possano essere ricondotte ad un ancestrale terrore legato al sangue mestruale che affonda le sue radici nel passato. A lungo diverse culture hanno considerato le mestruazioni come un’impurità dal potere di contaminare qualunque cosa o persona ne entrasse in contatto.   Il potere di questa eco primordiale, che credevo quantomeno assopita alle nostre latitudini, è venuta a galla circa un mesetto fa, legata a una notizia che ha fatto il giro del mondo. In Germania era stato lanciato un progetto che ha del bizzarro: si tratta di Pinky Gloves, un’idea partorita da due imprenditori tedeschi che pensavano di avere avuto l’idea del secolo. La produzione di guanti usa e getta (ovviamente rosa!) per rimuovere assorbenti e tamponi usati.Un’idea che, più che risolverli, i problemi li ha creati: intanto informiamo il pubblico che cambiare un assorbente o un tampone che sia non è una scena splatter da film dell’orrore e che, tendenzialmente, anche se una goccia dovesse sporcare un dito, il sangue non è acido muriatico, quindi tutti tranquilli. Tralasciamo il fatto che i guanti, poi, erano pure usa e getta, andando a impattare sull’ambiente e tralasciamo pure il colore che era stato pensato per loro: il rosa. Pinky Gloves le aveva proprio tutte e infatti ha avuto una risonanza tale sui social che ne è disceso un vero e proprio scandalo, accompagnato dall’hashtag #pinkygate. La polemica, che accusava gli ideatori del progetto di sessismo, ha determinato la serrata del progetto e le contestuali scuse dei due imprenditori. Questa volta, almeno, alle principesse in rosa sono caduti i guanti e sono prontə a sporcarsi ancora le mani.   ALICE CARBONARA

Saperne di più
PER LA LIBERTÀ

PER LA LIBERTÀ

Secondo una statistica di Gay Help dello scorso anno, riportata su La Repubblica del 16/05/2020, il 27% degli adolescenti non vorrebbe condividere il banco di scuola con un compagno omosessuale. Pensando all’omofobia, tendenzialmente, si escludono i giovani, relegandola a un pensiero retrogrado e vagamente bigotto che persiste soltanto da una certa età in su. Pare che non sia così, o almeno non del tutto. L’indagine di Gay Help dimostra che la tendenza giovanile alla discriminazione, più o meno violenta, è decisamente troppo elevata. Tutto ciò preoccupa maggiormente se si considera che le vittime di omofobia, bifobia e transfobia in Italia siano state 187 tra il 2018 e il 2019 e 134 l’anno successivo. Vanno aggiunti, a questi dati, le discriminazioni minori, gli insulti e via dicendo. La questione, negli ultimi giorni, è stata particolarmente animata per via delle vicissitudini del celeberrimo DDL Zan e della presa di posizione del cantante Fedez sul palco del Primo Maggio. Che si condividano o meno le modalità e i toni utilizzati dall’artista, è chiaro che, tra statistiche e tendenze, il dibattito è accesissimo. Insomma: uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro della lotta contro l’omofobia. E meno male. Tralasciando i numeri, fondamentali quando si combatte contro certe discriminazioni, l’oggetto della discussione è il pensiero, l’etica del singolo. Perché di per sé, omofobia significherebbe la paura irrazionale nei confronti di un individuo omosessuale, ma gli episodi di violenza e discriminazione poco hanno a che vedere con la sfera della paura. È, al contrario, una vera e propria ostilità nei confronti di un fatto reale, tangibile, e soprattutto estremamente privato. Discriminare, aggredire o anche solo negare la possibilità di affetto, amore o sessualità tra due persone dello stesso sesso (o genere) implica entrare in un campo che non ci riguarda. La stessa convinzione di poter giudicare la sessualità dell’altro è sinonimo di presunzione morale, come un giudice etico che con il suo lungo indice stabilisce il giusto e lo sbagliato. Che sia irrazionale come tendenza, dunque, non c’è dubbio, ma non confondiamola con la paura: si tratta di odio, di rabbia. E dunque di violenza. La battaglia contro l’omofobia, da alcuni anni, si è intensificata, prima altrove e ora anche da noi. Oggi è uno di quei giorni in cui maggiormente si discute di ciò, si scrivono articoli, ci si schiera; perché il 17 maggio è la giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Generalmente, giorni come questo generano polemiche, opposte e simili. Da un lato c’è chi controbatte domandando, retoricamente, perché non esista, per esempio, una controparte: insomma, perché non esiste la giornata mondiale contro l’eterofobia? (Polemica simile a quella che vorrebbe l’istituzione della Festa dell’uomo). Costoro sono solitamente quelli che non si dichiarano contro l’omosessaulità in sé, ma non sono disposti a concederle il diritto alla famiglia, e ai quali si drizzano i capelli sentendo parlare di Pride. Superfluo, crediamo, discutere dell'assurdità di tali obiezioni. Dall’altra, c’è un’esagerazione del senso di giustizia, che vorrebbe che la lotta contro l’omofobia si combattesse tutti i giorni, che la festa della donna fosse tutto l’anno eccetera. Sacrosanto, ma si perderebbe il focus del problema: la violenza omotransfobica (o di genere). Istituire giornate mondiali, in casi come questi, non è una formalità, né un’occasione per celebrare la diversità (quale diversità, poi?); significa piuttosto una presa di posizione, un grido che denunci alla luce del sole le angherie quotidiane che la popolazione non eterosessuale subisce quotidianamente, i pregiudizi, le stigmatizzazioni, e anche le caricature carnevalesche dell’omosessuale, specie se maschio (è ben presente nell’immaginario collettivo l’uomo effemminato e superemotivo che dovrebbe incarnare in sé ogni gay). L’omofobia, in Italia come in gran parte del mondo, è un modello così radicato da poter essere estirpato solo con una lotta a gran voce, solo con leggi che limitino le aggressioni, solo gesti eclatanti e spudorati. La giornata mondiale, in questo senso, così come la parata del Gay Pride, sono non soltanto giuste, ma inevitabili nel processo di cambiamento che, dobbiamo dircelo con un pizzico di orgoglio, sta avvenenendo. Giorno dopo giorno, sembrerebbe che si compia un passo in più verso il raggiungimento della parità dei diritti: non perché avvengano meno violenze o non ci sia più discriminazione, ma perché finalmente se ne parla a dovere, perché si scrivono leggi, perché si prende posizione su un palco in diretta nazionale. Oggi più che mai, proprio in base al fatto che la nostra voce arriva a un grande pubblico, bisogna resisistere e lottare. È necessario, perché non si tratta di ideologia, o di politica, ma di mera giustizia. ENRICO PONZIO

Saperne di più
PERCHÉ FEMMINILITÀ NON È PER FORZA MATERNITÀ

PERCHÉ FEMMINILITÀ NON È PER FORZA MATERNITÀ

La Festa della Mamma. C’è chi la seconda domenica di maggio la attende con trepidazione, chi con aspettativa, chi con malinconia, chi con tristezza e c’è anche a chi non interessa. Troppo spesso però siamo abituatǝ a credere che una donna senza figli, una non madre, non sfrutti fino in fondo le potenzialità dell’essere donna, che, in qualche modo, le manchi qualcosa. Pensiamo che le parole femminilità e maternità siano profondamente e indissolubilmente legate. A quale bambina non è mai stata regalata una bambola, non le è mai stato chiesto di badare ai cuginetti in spiaggia, non le è mai stato proposto di giocare a “mamma casetta”?E ora, adulta, e magari verso i 30 anni si sente chiedere: “Quand’è che fai un figlio?”. Come se le venisse messo in mano un orologio ticchettante, colmo di aspettative. Come se diventare madre, desiderare di esserlo, fosse il destino già scritto di ogni donna. Come se il valore di una donna fosse legato all’essere madre. Si è donne, a prescindere dal fatto di essere madri o meno. Si è donne a prescindere dal fatto che ci piacciano i bambini oppure no. Siamo liberǝ di scegliere e di non sentirci giudicatǝ per questo. L’idea che una donna non possa essere felice o sentirsi realizzata senza figli, però, è ancora molto radicata nella nostra società. Chi, alla frequente e sopracitata domanda risponde di non poterli avere viene vista con compassione, commiserazione. Alimentando il senso di inadeguatezza e frustrazione. E chi, dall’altro lato, risponde di non volerli avere viene vista come un essere che spregiudicatamente pensa ai suoi interessi prima di quelli di qualcun altro. Si è donne, in una società che ci divide in madri e non madri. Lì, proprio nella divisione, sarebbe bello creare una rete pronta a sostenere senza giudicare le scelte diverse dalla nostra. Una donna che ha figli non è solo madre, così come una donna che non ha figli non è meno madre e, in fondo, non è l’essere madri che ci rende più donne.Essere madri è dare la vita, prendersi cura, ma non solo e non necessariamente di un figlio. Esistono molti modi di essere madre: di figli propri o di figli altrui, di nipoti, di figli acquisiti, di progetti e di idee; si può essere madre dedicando la vita ad aiutare il prossimo, prendendosi cura dell’ambiente che lasceremo alle prossime generazioni, trovando se stesse e la propria realizzazione. E quindi, in questa seconda domenica di maggio, ricordiamo di festeggiare le mamme, le mamme per scelta, le mamme di figli propri o di figli altrui. Festeggiamo tuttǝ coloro che si sentono mamma nell’anima. BEATRICE UGUAGLIATI

Saperne di più
IL LAVORO NOBILITA L'UOMO... E LE DONNE?

IL LAVORO NOBILITA L'UOMO... E LE DONNE?

Il 1 maggio si celebra la Festa dei Lavoratori, una ricorrenza internazionale nata nel 1866, a seguito della prima manifestazione per la difesa dei diritti dei lavoratori. Da allora ne è passato di tempo e il Diritto del Lavoro è diventato un elemento fondamentale per la nostra società. Ma ciò che non ha subito miglioramenti invece è l’eguaglianza nel diritto del lavoro ed il divario occupazionale di genere. Il 2020 è stato un anno difficile per il mondo del lavoro, e soprattutto per le donne. Solo in Italia, dei 444 mila posti di lavoro andati persi nell’ultimo anno, il 70% ha coinvolto il genere femminile. Una situazione drammatica che ha toccato il fondo nel mese di dicembre, con la perdita di 101 mila posti di lavoro, di cui ben 99 mila riguardavano le donne. Il divario di genere purtroppo, però, non si limita a questo: nell’ultimo periodo, infatti, si parla sempre più spesso di gender pay gap.Citato anche dal Presidente Draghi qualche giorno fa, il divario salariale di genere rappresenta un’altra problematica importante per il ruolo della donna nella società moderna. Secondo le stime, i redditi femminili sono del 42,8% più bassi rispetto a quelli maschili, con un gap a parità di mansioni del 46,7%. Leggendo questi dati vi verrà spontaneo chiedervi quale siano le fonti di tali diseguaglianze e, in realtà, sono varie. Prima tra tutte troviamo la sectoral segregation per cui le donne risultano sovra rappresentate in settori relativamente poco retribuiti; e non parliamo del work-life balance che porta le donne a dedicare la maggior parte del proprio tempo a mansioni legate alla famiglia, ai figli e alla casa, svolgendo a tutti gli effetti un lavoro non retribuito (il New York Times stima che nel 2020 il lavoro non retribuito svolto dalle donne nel mondo superi i 10.9 trilioni di dollari); infine, il glass ceiling, per cui meno del 10% dei CEO nelle Fortune500 è donna. In generale, non si parla più di un problema solamente femminile, ma di un problema sistemico e di efficienza economica: pensate che, se tutte le donne italiane lavorassero, il PIL aumenterebbe del 7%. Purtroppo, proseguendo a questo ritmo, secondo il World Economic Forum, passerà un altro secolo prima di poter raggiungere la parità di genere sul mondo del lavoro. CAMILLA DOMINISSINI

Saperne di più
UN CICLO PER LA SALVAGUARDIA DEL PIANETA

UN CICLO PER LA SALVAGUARDIA DEL PIANETA

Come la gran parte delle giornate celebrative, anche quella dedicata alla salvaguardia del nostro Pianeta ha un’origine caliginosa che non può che offuscare l’espressione di tutti coloro che hanno a cuore l’ambiente. Il giorno della Terra è legato, infatti, a una vera e propria catastrofe ambientale, avvenuta nel 1969 al largo delle coste di Santa Barbara, in California, dove si rovesciarono ben 100.000 barili di petrolio greggio. Tutti sappiamo quanti episodi simili si siano verificati nel corso del tempo che hanno inquinato risorse che, per essere reintegrate, avrebbero bisogno di milioni di anni. Basta spostarsi con la memoria indietro di poco più di un anno per ricordare, ad esempio, la serie sconvolgente di incendi dolosi che interessò l’amazzonia, per racimolare spazio da destinare ai terreni agricoli. Mentre la Terra, intanto, sta a guardare, mandando chiari segnali: i più evidenti, sotto gli occhi di tutti, sono quelli legati agli eventi metereologici estremi quali tempeste da un lato, e ondate di calore dall’altro. Più che mai è necessario che ciascunə contribuisca, adottando stili di vita sostenibili. Tuttə sappiamo che è difficile rinunciare a una serie di convenzioni che riguardano gli ambiti più svariati della vita, dall’alimentazione, ai trasporti, alle scelte di consumo.  L’idea di This Unique è partita da qui: non è accettabile che tuttə coloro che hanno il ciclo mestruale, a lungo, abbiano avuto come soluzione principale quella di usare assorbenti e tamponi farciti di plastiche micro e macro. Secondo alcuni studi, un singolo pacchetto di assorbenti tradizionali (che quasi di sicuro tuttə abbiamo usato per un periodo più o meno lungo della vita) conterrebbe 2,4 g di plastica, equivalenti, per essere chiari, a circa 4 buste della spesa. Per quanti anni mediamente le mestruazioni accompagnano ciascunə di noi? 30. Solo in Italia, quanti milioni di persone hanno le mestruazioni? 21 milioni, per circa 4 giorni al mese. I numeri sono strabilianti, perfino spaventosi se consideriamo che ogni assorbente che contiene plastiche impiega più di 400 anni a decomporsi. Per fortuna, si stanno diffondendo nuovi metodi per vivere il ciclo in maniera green, dagli assorbenti lavabili alle coppette mestruali: ma non tuttə si sentono a proprio agio con questi strumenti ed è necessario che, per vivere un’esperienza ricorrente come le mestruazioni, ciascunə possa scegliere l’accessorio con cui più si sente a suo agio. Non potevamo stare a guardare: questo è uno dei motivi che ci ha convintə a credere nell’avventura di This Unique per proporre un prodotto compostabile come scelta di consumo sostenibile nei confronti, in primis, della Terra. Vediamo la sostenibilità come un percorso e siamo fierə di muovere i nostri passi in quella direzione, con voi.

Saperne di più
ddl Zan

ZAN ZAN! ODISSEA DI UN DDL

A tutti piace fantasticare, arrovellarsi, smarrirsi tra le proprie allucinazioni fino a trasformarle in incubi, un po’ come il protagonista di Auto da fé, così convinto della morte della moglie che, pur vedendola di fronte a sé in carne e ossa, la credeva un fantasma. Di recente, alcuni hanno affermato, attanagliati appunto da fantasticherie, che il vero obiettivo del ddl Zan sia non tanto lo sradicamento dell’omotransfobia e della misoginia, quanto lo sdoganamento della pratica della maternità surrogata (spesso chiamata, brutalmente, «utero in affitto»). Magari!, ci verrebbe da dire. Il fatto è che questa eventualità è un’allucinazione, appunto, una fantasticheria non prevista, purtroppo, in alcun punto del decreto legge. Ma andiamo con ordine. La discussione generale alla Camera era iniziata il 3 agosto 2020, insomma in tempi non sospetti, e, dopo una serie di ritardi legati all’ostruzionismo di Lega e Fratelli d’Italia, che avevano presentato l’eccezione di costituzionalità, il disegno di legge di Alessandro Zan era stato infine approvato il 4 novembre, con una maggioranza di 265 deputati a favore, contro i 193 contrari – e un astenuto. Tuttavia, la discussione in Senato non è ancora iniziata, e questo perché prima è necessario che si superi l’esame della Commissione Giustizia, che ritarda la calendarizzazione. Andrea Ostellari, presidente della Commissione, ha infatti annullato la riunione dell’Ufficio di presidenza prevista per il 30 marzo, che avrebbe dovuto, appunto, fissare una data. Questione di «merito e regolamento», sostengono alcuni, e non di ostruzionismo: le priorità sono altre, affermano, come la riforma del processo civile, la magistratura onoraria e il disegno di legge contro le violenze sugli animali. Insomma: c’è ben altro di cui occuparci, perché non parliamo di...? Certo, le priorità sono molte, le problematiche ancora di più; ma siamo sicuri che la salvaguardia dell’uomo e della donna dai crimini d’odio sia una questione da accantonare come «non urgente»? Perché è questo il fulcro della legge, il cui titolo recita: «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità». Se i primi articoli della legge chiariscono e distinguono i concetti di sesso, orientamento sessuale e identità di genere, introducendo tali diciture, insieme alla disabilità, tra le categorie tutelate dal codice penale, il quinto, forse il più importante, modifica la legge Mancino. Ovvero estende ai reati basati sul sesso, sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale o sull’abilismo la pena carceraria, già prevista per «chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» (art. 1 legge Mancino). Fino a qui tutto bene, viene da dire. I crimini d’odio in Italia sono così tanti – e così aumentati durante la pandemia, come testimoniano l’Osservatorio Vox e l’OSCAD – che una legge che li prevenga e li punisca pare indispensabile. Ma a quanto pare, molti preferiscono tirarsi indietro, pur concordando apparentemente sul rispetto delle persone, indipendentemente dall’orientamento sessuale. Ma? Perché, in questi casi, sembra che ci sia sempre un «ma». L’identità di genere? Che cos’è? Alcuni esponenti delle istituzioni pretendono che il sesso biologico coincida con l’identità di genere. E questa non è l’ennesima violazione? In poche parole sostengono: sì all’omosessualità (a patto che non si adottino figli), no al trans (gender o sex che sia). Sulla pena riguardo alle violenze – è solo di poche settimane fa l’aggressione omofoba nella metro di Roma – tutti d’accordo. Solo non si concepisce il fatto che alcune categorie siano più salvaguardate di altre: «Le vittime vanno tutte tutelate», recitano gli incalliti, una sentenza che suona tanto come l’all lives matter, in risposta al celebre movimento black lives matter. La verità è che alcune categorie, invece, vanno più tutelate perché più colpite, perché discriminate quotidianamente, aggredite, picchiate, insultate e talvolta neanche riconosciute. Il problema è che la legge proposta da Alessandro Zan non dovrebbe essere qualcosa contro cui muovere una crociata, perché non si tratta di politica, ma di buon senso. In Europa tutti gli stati possiedono un decreto analogo, fatta eccezione per la Polonia e l’Ungheria (certo, non una gran sorpresa); crediamo che sia giunto il momento anche per l’Italia, perché si superino certi orrori, perché si intraprenda un processo di crescita sociale equo e indispensabile. Senza allucinazioni o incubi. ENRICO PONZIO 

Saperne di più
«LIBRES», LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA

«LIBRES», LA RAPPRESENTAZIONE DELLA DONNA

TRA TABÙ E STEREOTIPI C’è quello che le donne non dicono e poi quello che viene detto sulle donne. Il risultato è semplice: una rappresentazione falsata che ha invaso e invade l’immaginario collettivo.  È da poco che ho scoperto una mini-serie tv francese che, mentre mi faceva innamorare, mi faceva riflettere. Il suo titolo è «Libres» e non ringrazieremo mai abbastanza le sue autrici, la regista francese Ovidie e la giornalista Sophie-Marie Larrouy: sono in tutto 10 episodi cortissimi, di circa 4 minuti l’uno – che vi invito a guardare – , ognuno dedicato a un luogo comune, a un canone estetico, sociale e sessuale che investe il ruolo della donna. Il tutto condito da un’ironia pungente che costringe a pensare.  Spaziando dalle riflessioni sulle dick-pic alla penetrazione anale, su ciascun tema si stende un consiglio, quello della libertà, il vero filo conduttore della serie, celebrata sin dal titolo.  Non sarà il caso di dirvi che un episodio è dedicato alle mestruazioni, riconosciute come uno dei grandi tabù della nostra società, che ancora oggi suscita sgomento in molte persone. La rappresentazione del sangue mestruale, come sappiamo, viene bannata in Francia come in Italia, contribuendo a favorire un sentimento di repressione che ci porta a nascondere, ancora, gli assorbenti e i tamponi.  Ma alcuni canoni, ci ricordano le autrici di «Libres», possono essere anche più pericolosi: l’ossessione per l’invecchiamento, ad esempio, o quella per le calorie, derivate da una società che promuove come modelli di riferimento corpi giovani e perfettamente modellati, o che trasmette, martellante, pubblicità di creme antirughe o contro gli inestetismi prodotti dalla cellulite.  Il punto è che la gran parte di noi – per non dire tutt* – ha il segno di una smagliatura da qualche parte del corpo, che tutt* siamo destinat* a invecchiare, e a tutt* piace concedersi un dolce, un drink, una pizza. Ma ce ne vergogniamo, ci sentiamo in colpa perché siamo costantemente paragonat* a modelli, è il caso di ammetterlo, sbagliati.  Per sbarazzarcene, l’espediente è uno solo: capire quello che è meglio per noi, qui e ora. Mettiamoci a dieta, compriamo creme anti-age, viviamo liber* da stereotipi la nostra sessualità, perfino depiliamoci se è qualcosa che fa stare bene noi, lontan* dai condizionamenti che ci impone la società.

Saperne di più