Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto
FEMEN, IL SUPPORTO DEL MOVIMENTO DI PROTESTA ALLA RESISTENZA UCRAINA
FEMEN (in ucraino: Фемен) è un movimento femminista di protesta ucraino fondato a Kiev nel 2008 da Oksana Šačko, Hanna Hutsol e Inna Shevchenko, tre giovani ragazze: il loro obiettivo era quello sovvertire la società maschilista e il ruolo passivo delle donne ucraine, fondando un movimento di attivismo organizzato, assente fino a quel momento.Il movimento ha avuto amplissima risonanza, su scala internazionale, per la pratica di manifestare mostrando i seni, utilizzati metaforicamente contro il turismo sessuale, il sessismo e altre discriminazioni sociali. Alcuni degli obiettivi del movimento sono "incrementare le capacità intellettuali e morali delle giovani donne in Ucraina", "ricostruire l'immagine dell’Ucraina, un paese dalle ricche opportunità per le donne" e modificare l'immagine dell’Ucraina all’estero, spesso considerata prettamente come meta di turismo sessuale. Già dall'aprile del 2010 il movimento stava considerando l’idea di costituirsi in un partito politico per avere un ruolo attivo alle elezioni parlamentari. Le attiviste sono riconosciute e apprezzate in tutto il mondo per i loro metodi provocatori e sono sempre riuscite a catalizzare l’attenzione dei media. Il loro motto è «Our God is a Woman! Our Mission is Protest! Our Weapon are bare breasts!», affermando dunque che il loro Dio è la Donna, la loro missione è quella di protestare e non hanno armi se non i loro corpi, o meglio i loro seni. Caratteristica principale, infatti, è quella di manifestare in topless, scrivendo slogan chiari sulla pelle: è proprio il petto, spesso, ad essere usato come lavagna sulla quale imprimere i testi delle proprie proteste. Durante le prime proteste in realtà vestivano di rosa, e si parlava di Pink Revolution, poi nell’agosto del 2009 succede che Oksana si sveste e questo atto ebbe un’eco enorme. Da lì tutte le manifestazioni prevedono di spogliarsi davanti alle telecamere, e quasi sempre vengono indossate le tradizionali corone di fiori ucraine. Le FEMEN si battono per le principali questioni femministe, dalla mancata rappresentanza di donne nel governo alle politiche oppressive operate dalle religioni. Facciamo qualche esempio: il gruppo si schiera contro il sex-work e la capitalizzazione del suo sfruttamento, hanno manifestato contro il dittatore bielorusso Lukashenko, hanno manifestato pacificamente contro il Papa, contro Berlusconi e nel 2012 anche contro la moda, definita fascista e pro-anoressia, durante una sfilata di Versace. Questa è stata la sua crescita: il movimento ha assunto una nuova risonanza, in relazione agli ultimi tristi sviluppi della politica mondiale. Poteva un movimento di protesta fondato a Kiev astenersi dal manifestare la sua contrarietà alla guerra nei giorni in cui la Russia aveva minacciato di invadere l’intera Ucraina? Era da tanto che non si vedevano le FEMEN in azione e il 22 febbraio, due giorni prima dell’invasione russa, un’attivista del movimento si è mostrata davanti alla stazione ferroviaria centrale di Kiev con un look decisamente spettrale ed evocativo della morte, classicamente in topless, con la scritta sul petto: “Don’t Panic” e con una falce da “angelo della morte”, segnando un altro capitolo della loro storia. Dopo l’invasione russa in Ucraina, la protesta contro la guerra è proseguita il 6 Marzo in Francia dove FEMEN France ha organizzato una manifestazione sotto la Tour Eiffel con lo slogan “Stop Putin’s War”. Il gruppo si è diffuso in Europa e sta manifestando attivamente contro la guerra in atto, dando solidarietà ai resistenti. Inna Shevchenko, fondatrice del movimento e giornalista, chiede nelle ultime interviste armi e aiuti umanitari per l’Ucraina. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche afferma: “Fino a poco tempo fa non avevo mai pensato di voler tornare in Ucraina, ma quando vedo quello che sta succedendo lì ora, il desiderio di essere lì è estremamente forte. È così per molti ucraini in tutto il mondo in questo momento, io sono solo una di loro”. Simona Danos
Saperne di piùLO YOGA: L’ALLEATO NUMERO UNO PER RITROVARE IL TUO EQUILIBRIO — con Martina Rando
Abbiamo chiacchierato con Martina Rando, co-founder di Yome, una realtà che offre lezioni e corsi di yoga on demand, seguiti da una community nutritissima. Negli ultimi anni si parla di yoga un po’ ovunque: sui social, al supermercato, nelle riviste di consigli, in televisione, nella sala d’attesa per la visita ginecologica. Insomma, chiunque sembra consigliare questa disciplina come la panacea di tutti i mali. Ma allora è tutta una moda o verità? Sono Martina Rando, sono un’insegnante di yoga e ho fondato insieme a Martina Sergi e Claudia Casanova Yome, una piattaforma online di contenuti di yoga, meditazione, fitness e nutrizione. La mia opinione potrebbe quindi suonarvi di parte, ma ancora prima di andare avanti vi lascio il mio consiglio più importante: provate per credere; provate più stili; provate più insegnanti e troverete la combo che fa per voi. Sono certa che non ne potrete fare più a meno. Insegno yoga da sei anni, ho avuto tanti studenti, in Italia, all’estero, dal vivo e online, e tutti mi hanno sempre raccontato la stessa storia “non pensavo mi sarebbe mai piaciuto, poi l’ho provato ed è diventato il mio alleato numero uno”. Le parole possono essere un po’ diverse, ma il succo del discorso è sempre lo stesso. Al giorno d’oggi viviamo tutti quotidianità molto diverse ma con tanti comuni denominatori: poco tempo; tanti “ruoli” da ricoprire e destreggiare; l’esigenza di essere sempre più veloci, più smart, più multitasking. Tutto ciò ci porta sempre di più ad essere assenti e a vivere ogni momento quasi “di passaggio”. Nulla di anomalo o di cui sentirsi in colpa, è normale, ma allo stesso tempo fa nascere in noi uno spontaneo bisogno di equilibrio, di radicamento, di partecipazione al momento presente: lo yoga in tutte le sue forme si presenta come una risposta a questo bisogno, come una sorgente d’acqua fresca quando si ha sete. Quindi che cosa è lo yoga e come può essere un alleato nella nostra vita di tutti i giorni? Mi piace definire lo yoga come un percorso verso una versione di sé più consapevole, più sicura e presente. Di seguito vi riporto una serie di affermazioni sullo yoga che probabilmente avrete sentito, e vi racconto perché sono vere: Lo yoga è per tuttə. Non esiste un “corpo da yoga”; non è necessario essere flessibili o forti; non bisogna saper fare qualcosa o aver fatto determinati sport. Lo yoga è per tuttə perché non ha un fine ultimo se non il raggiungimento del nostro equilibrio e del nostro benessere. Benessere ed equilibrio assumono una forma diversa per ogni persona, quindi la strada che ci porta al loro raggiungimento è unica. Lo yoga ha benefici fisici e mentali. Lo yoga è una disciplina che comprende una parte di pratica fisica, le asana e una parte interiore, la meditazione. La respirazione è il ponte tra la pratica fisica e quella interiore. La pratica ci aiuta a sviluppare un legame profondo tra mente e corpo e ad aumentare la nostra resistenza, forza, flessibilità ed equilibrio in senso letterale e metaforico. Questo ci consente di essere partecipi nel momento presente, di sentirci calmi e rilassati. Esiste una tipologia di yoga per ognunə di noi. Lo yoga è una disciplina antichissima ed è caratterizzata da una grandissima varietà di stili. Esistono tipologie di yoga più meditative, altre più fisiche e dinamiche come il vinyasa e l’ashtanga yoga, alcune più statiche come l’hatha yoga e così via. Con un po’ di pazienza e mente aperta sicuramente troveremo lo stile e gli insegnanti che sono più affini alle nostre esigenze, l’importante è concedersi l’opportunità di provare. Probabilmente arrivati a questo punto vi starete chiedendo “ma quindi da dove comincio?” Sarà meglio approcciare prima il lato meditativo o quello fisico della disciplina? Ancora una volta la risposta risiede dentro di voi: quali sono i vostri interessi? Cosa vi affascina di più? Cominciate da ciò che dello yoga è più in sintonia con la vostra predisposizione naturale, che sia la pratica dinamica delle asana, la pratica della meditazione o quella delle tecniche di respirazione. Nello yoga non c’è esclusione, qualsiasi sia il vostro punto di partenza la pratica vi condurrà verso tutti gli altri punti in maniera naturale. So che a questo punto partono spontanee tutte le obiezioni: non ho tempo; non c’è un posto vicino casa; magari quando sono più tranquillo a lavoro, e via dicendo. Il tempo è una scusa, bastano anche dieci minuti al giorno per fare la differenza, al mattino o alla sera o in una pausa, non servono ore e ore per cominciare a notare i benefici; non hai uno studio vicino casa, ma sicuramente (a maggior ragione se ci stai leggendo) hai una connessione internet, quindi anche questa scusa l’abbiamo eliminata. Infine il lavoro, la famiglia, gli impegni, lo stress, l’ansia ecc. sono proprio le ragioni per cui hai bisogno di far di te una priorità e ritagliarti del tempo per te. Ricordati che non si può versare da una caraffa vuota, e lo yoga può essere il nostro “refill” quotidiano. Iniziare può essere difficile, lo capisco. Ecco tre consigli semplici e pratici che potranno aiutarti a fare questo primo step: Comincia in maniera graduale. Ritagliati 10/20 minuti un paio di volte a settimana per inserire lo yoga nella tua routine quotidiana. Incrementa la durata e/o la frequenza piano piano. I benefici dipendono dalla costanza, meglio poco e spesso che non tantissimo ogni tanto. Da quale stile cominciare? Se sei una persona a cui piacciono attività più dinamiche puoi avvicinarti a stili più “attivi” come il vinyasa, l’ashtanga, il dharma, il rocket, per fare alcuni esempi. Se cerchi uno stile di yoga basato sulla pratica delle asana, delle posizioni yoga, ma meno dinamico, l’hatha è uno stile da provare assolutamente. Se ti senti più in sintonia con la parte introspettiva dello yoga prova delle classi di meditazione, midfulness o pranayama. Dove comincio? Online, nello studio yoga della tua zona, con un insegnante privato. Scegli la soluzione più facile per te, quella che ti possa permettere di essere costante nel tempo e che si inserisca in maniera semplice nelle tue abitudini consolidate. Claudia, Martina ed io abbiamo fondato Yome proprio con l’obiettivo di rendere lo yoga (e il benessere più in generale) alla portata di tuttə: una piattaforma online che propone contenuti live e on demand di diversa durata, di diversi stili, per tutti i livelli e con tanti insegnanti in modo tale da dare a tutti l’opportunità di “creare” il mix che funzioni per sé, ovunque e in ogni momento. Vi lascio ribadendo il vero consiglio di queste pagine: potete ascoltare la vostra amica che ve lo ha consigliato, potete leggere questo articolo e prenderlo per buono, ma soprattutto provate e decidete da voi. Lo yoga non fa miracoli, non vi darà la soluzione a tutti i vostri problemi, non vi farà sentire in pace con il mondo 24h su 24, ma vi porterà un passo più vicino alla versione migliore di voi stessə, e a parer mio è già un successo enorme nelle nostre vite un po’ caotiche e sottosopra. Martina Rando Co-founder Yome
Saperne di piùPAVIMENTO PELVICO: LONTANO DAGLI OCCHI, LONTANO DAL CUORE?
Il pavimento pelvico è una zona un po’ nascosta, di cui ci dimentichiamo troppo spesso: lontano dagli occhi lontano dal cuore come recita il proverbio, eppure si tratta una struttura fondamentale per il benessere fisico e sessuale di ognunə di noi. Per conoscerlo meglio e acquisire consapevolezza abbiamo fatto una chiacchierata con la Dottoressa Anna Burioli, fisioterapista specializzata in riabilitazione del pavimento pelvico. Buongiorno Anna, ti va di raccontarci che cos’è il pavimento pelvico? E cosa ti ha spinta ad approfondire questo aspetto della riabilitazione? Il pavimento pelvico è un insieme di strutture muscolari, legamentose e fasciali che chiudono la parte inferiore della cavità addominale la cui funzione è sostenere gli organi interni. Oltre a questo, è una struttura essenziale per alcune funzioni fisiologiche come urinare e defecare, e permette l’attività sessuale. Durante la laurea triennale la riabilitazione del pavimento pelvico viene affrontata, forse per immaturità e imbarazzo tra compagni di corso, senza la stessa considerazione con la quale si studia invece l’ambito ortopedico. Quando ci si iscrive a fisioterapia non si ha assolutamente in mente di poter diventare specialisti della riabilitazione del pavimento pelvico. Nell’ultimo periodo, fortunatamente, stiamo assistendo ad un cambiamento culturale in questo senso. Se ne parla sempre di più, sta emergendo la volontà di normalizzare degli argomenti ritenuti fino a poco tempo fa tabù e la necessità di migliorare la disabilità che certe condizioni cliniche comportano, ripristinando la qualità della vita delle persone. Ho deciso di avvicinarmi alla riabilitazione del pavimento pelvico sentendo l’esigenza di essere un tassello di questo cambiamento. Quali sono le alterazioni frequenti a livello del pavimento pelvico e in che modo queste possono influire sulla nostra quotidianità? Nel sesso femminile le alterazioni più comuni sono sicuramente legate ad un indebolimento del pavimento pelvico, che può causare episodi di incontinenza urinaria e prolasso degli organi interni.La perdita di tono muscolare e di struttura del tessuto connettivo è dovuta soprattutto all’età, ma possono entrare in gioco altri fattori come le gravidanze e il numero e gli esiti dei parti. Nella maggior parte di questi casi il problema è che manca la consapevolezza, prima della gravidanza o durante, di che cosa sia il pavimento pelvico e che sia possibile agire con la prevenzione: spesso non viene nemmeno indicato di eseguire valutazioni specialistiche dopo il parto.Per questo motivo la maggior parte delle donne non è a conoscenza di quanto sia frequente avere perdite di urina post parto e che in ogni caso non è da ritenere normale. Ogni donna dopo il parto dovrebbe ricevere una valutazione dello stato del pavimento pelvico e della sua forza con conseguenti suggerimenti educativi o un piano di esercizi riabilitativi proprio come avviene per ogni altro distretto corporeo in seguito ad un trauma o che si vuole mantenere efficiente negli anni. Un’altra condizione molto frequente è quella del dolore pelvico che può essere data, tra le altre cose, da un amento di tono della muscolatura pelvica comportando dolori o impossibilità alla penetrazione e al rapporto sessuale. Sono tutte condizioni che portano chi ne soffre a limitarsi molto nelle attività sociali e sessuali, con una pesante ricaduta psicologica e una notevole riduzione della qualità della vita. Ma le alterazioni a livello del pavimento pelvico riguardano solamente il sesso femminile? Assolutamente no. Per quanto riguarda la popolazione maschile la problematica più comune avviene in seguito ad interventi di prostatectomia radicale (rimozione chirurgica della prostata), in questo caso spesso le persone vengono indirizzate a intraprendere percorsi riabilitativi. Anche nell’uomo però può essere presente dolore a livello pelvico: rimane un problema di difficile stima in quanto è raro che la persona si rivolga a dei professionisti in cerca di aiuto, per l’imbarazzo che ciò può creare. Il pavimento pelvico è quindi una struttura la cui salute e funzionalità è fondamentale per assicurarci una buona qualità della vita: come possiamo prendercene cura? Credo che il primo passo sia rendere consapevoli tutti di quanto il pavimento pelvico debba essere considerato al pari delle altre parti del corpo.Oggi si parla tanto di prevenzione, benessere, mantenimento dello stato fisico. Non capisco perché ci si prenda cura del proprio corpo, cercando di migliorare l’alimentazione, allenandosi per rimanere sani e per prevenire infortuni e non venga fatta la stessa cosa per una parte del corpo che ha un’importanza fondamentale per lo svolgimento di funzioni primarie e per vivere una sana e serena vita sessuale. Se ne parla ancora troppo poco, anche tra conoscenti. Spesso mi ritrovo con persone che mi parlano di incontinenza, prolasso, dolore pelvico e mi confidano di non averne parlato nemmeno con gli amicə più strettə, in quanto pensano siano problematiche poco diffuse e se ne vergognano. Qualsiasi perdita di urina o feci non è normale, qualsiasi tipo di prolasso non è normale, qualsiasi tipo di dolore non è normale. Ci sono davvero tante situazioni differenti e spesso per ognuna c’è una soluzione o perlomeno una modalità in cui si può lavorare per migliorare la qualità della vita. Così come si fa prevenzione in tutti gli altri ambiti, tuttə dovremmo sottoporci a controlli periodici dagli specialisti che sicuramente sono in grado di valutare lo stato di salute della persona, senza avere timore di fare domande e senza sentirsi in imbarazzo se si notano avvenimenti poco chiari.Nel caso della popolazione femminile poi, pre- e post-partum è necessario fare una visita specifica per il pavimento pelvico ed essere educat ə e allenat ə agli esercizi necessari per la prevenzione e il trattamento delle possibili disfunzioni. BEATRICE UGUAGLIATI
Saperne di piùLocale: buone pratiche per diminuire il proprio impatto sull’ambiente a due passi da casa
Discutendo di uno stile di vita attento all’ecosostenibilità, prima o poi potreste imbattervi in qualcuno che vi dirà che non pensa esistano pratiche quotidiane percorribili da chiunque, che siano veramente utili ed efficaci per l’ambiente e che è troppo complicato seguire davvero e alla lettera tutto quello che dovremmo fare per dare un apporto sensato alla lotta contro il cambiamento climatico. A mio parere, niente di più sbagliato. Perché essere attentə all’ambiente e prestare attenzione alle proprie modalità di consumo deve essere per forza una cosa complicata?Una tra le best practice per contrastare l’emergenza climatica nel quotidiano, e che può essere bene o male adottata da tuttə e quasi in qualsiasi ambito, è agire nel locale.Il primo vantaggio è chiaramente la riduzione di inquinamento ed emissioni legate ai trasporti, sia di noi stessi che dei prodotti che acquistiamo. Siamo abituati a un mondo in cui possiamo avere tutto, anche se proviene dall’altra parte del mondo, e subito o almeno in breve tempo. Spesso non ci soffermiamo a considerare quali e quante risorse vengano impiegate per trasportare i nostri ordini, e se era veramente necessario ricorrere a questa modalità di acquisto. Comprare locale equivale anche all’utilizzo di meno packaging e materiali di imballaggio per i nostri acquisti e quindi a meno spreco di materiale.Il locale è anche utile a diminuire il consumo e l’acquisto di beni prodotti dalle giganti aziende multinazionali o dalla grande distribuzione organizzata, che a volte purtroppo manca di trasparenza quando si tratta di specificare come, dove e da chi vengono lavorati i loro prodotti e quanto siano state rispettate le linee guida di ecosostenibilità. Acquistare da una fonte vicina a noi, al contrario, può permetterci di ricavare maggiori informazioni sulla filiera di produzione e, di conseguenza, di fare scelte più consapevoli.Se sfavoriamo il consumo di prodotti provenienti da questo tipo di fonti, dall’altra parte favoriremo quello dei beni realizzati dalla comunità a cui apparteniamo, che sia di quartiere, cittadina o del proprio paese. Comprare e consumare da produttori vicino a noi, e non da aziende stabilite dall’altra parte del mondo, diventa non solo un modo per supportare l’economia locale, ma più direttamente un modo per supportare il vicino di casa. In sostanza, agire locale è molto più facile di quello che sembra e può essere un’ottima pratica da adottare per cercare di diminuire il nostro impatto sull’ambiente, senza per forza considerare metodi che non sono fatti per noi o ai quali non potremmo mai adattarci a causa della nostra posizione geografica, delle questioni di salute o della disposizione economica, tutti elementi che, quando si tratta di attenzione all’ambiente, possono risultare decisivi nelle nostre scelte quotidiane. • Locale: cibo Il primo punto sul quale si può agire in termini di locale è il cosa mangiamo e soprattutto dove lo mangiamo.Nel 2005, durante il World Environment Day, veniva coniato il termine locavore per indicare una persona la cui dieta è composta per la maggior parte da prodotti realizzati non più lontano di un’area delimitata da un raggio di 100 miglia.Per quanto lo scopo sia nobile, e uno stile di vita del genere possa essere interessante da provare, non c’è necessariamente bisogno di porsi questo tipo di limiti per cercare di diminuire l’impatto che le nostre abitudini alimentari hanno sull’ambiente.Quando si tratta di spesa, è sempre preferibile scegliere prodotti che non provengano da paesi troppo lontani, se possibile. Se non possiamo andare al mercato di quartiere o di paese, dove spesso i produttori locali vendono la propria frutta, verdura, carne, latticini, al supermercato possiamo comunque cercare di rimanere nei paraggi, privilegiando prodotti dei dintorni o del nostro paese, senza dimenticarci della stagionalità.Questi prodotti avranno sicuramente intrapreso viaggi meno lunghi, per cui il nostro acquisto peserà di meno in termini di consumi legati al trasporto. Inoltre, abbiamo la possibilità di reperire più informazioni sul cibo prodotto nel nostro paese: possiamo informarci sulla filiera di produzione e accertarci del rispetto di leggi e linee guida adottate nel processo di produzione di ciò che stiamo acquistando.Anche quando parliamo di ristoranti possiamo indirizzare le nostre scelte sul locale: d’altronde viviamo in una nazione che gode di una certa fama per piatti e prodotti alimentari di prima qualità. Quindi perché preferire la pizza della catena di fast food multinazionale, quando possiamo mangiarne una nel nostro ristorante locale di fiducia?Anche se alcuni famosi franchising stanno sempre di più cercando di reperire materie prime legate al territorio anche quando si tratta di fast food, è più facile che i ristoranti locali privilegino produttori più vicini e che quindi i loro piatti abbiano un minore impatto non solo sul trasporto degli ingredienti, ma anche sulla produzione degli stessi. In ristoranti tipici o osterie italiane di qualunque città, la qualità degli ingredienti è uno dei fattori ai quali i ristoratori sono più attenti ed è per questo che vengono preferiti prodotti locali e del territorio più prossimi come, ad esempio, verdure tipiche del luogo, a volte raccolte direttamente da contadini, invece che provenire dall’altra parte del mondo, o carni reperite da produzioni a conduzione familiare vicine, invece che da allevamenti intensivi. • Locale: acquisti Benefici legati al locale, simili a quelli sull’argomento food, si trovano quando decidiamo di effettuare i nostri acquisti di tutti i giorni. Se abbiamo bisogno di un set di coltelli nuovi da cucina, difficilmente ci recheremo dall’artigiano più vicino in grado di realizzarli come accadeva molto tempo fa (anche se non sarebbe una scelta da disdegnare), ma possiamo comunque adottare delle accortezze per scelte più locali e meno pesanti per l’ambiente.Prima fra tutte, sarebbe meglio preferire sempre una modalità di acquisto di persona, in negozio, ove possibile. Questo perché, come già accennato, le spedizioni richiedono non solo consumi in termini di packaging ma anche di emissioni di CO2 legate ai trasporti.Questi consumi si accentuano quando le modalità di ricezione dei pacchi sono super veloci o super economiche, modalità adottate spesso da alcuni dei colossi dell’e-commerce che tutti conosciamo, il cui scopo, essendo quello di massimizzare i propri profitti, è movimentare quanti più ordini possibile, nel meno tempo possibile e al prezzo più basso: queste piattaforme sono indubbiamente comode, ma è importante chiedersi quando è il momento giusto per utilizzarle e quando invece possiamo farne a meno. Hai veramente bisogno di quel particolare spremiagrumi entro l’ora di pranzo di domani o puoi aspettare il tuo prossimo giorno libero per andarlo a comprare nel negozio sotto casa?Ovviamente non tutti i marchi o piattaforme di e-commerce trascurano l’ecosostenibilità quando si tratta di spedizione dei propri prodotti, l’importante è informarsi prima dell’acquisto su quali sono le linee guida adottate in merito all’ecosostenibilità.Se vogliamo fare acquisti più consapevoli e meno di impatto sul pianeta, infine, non è sempre necessario ricercare brand che inneggiano al green a tutti i costi e materie prime dai nomi esotici che sembrano purificare l’aria inquinata solo pronunciandone il nome. In genere, si può preferire la scelta locale a quella cosiddetta “green” per qualsiasi tipo di acquisto. Ad esempio, invece che nel negozio di abbigliamento fast fashion che ha appena lanciato la propria linea realizzata con materiali riciclati, si può fare un giro per il quartiere e dare un occhio ai negozi che producono localmente o ai mercatini dell’usato dei dintorni (che anche se non è locale, alla fine, usato va sempre comunque bene). In questo modo, qualsiasi prodotto comprato avrà sicuramente un impatto in termini di trasporti ridotto e dal nostro punto di vista possiamo sempre avere più controllo su come ciò che acquistiamo viene realizzato. • Locale: trasporti e viaggi L’ultimo ambito in cui le buone pratiche locali fanno bene all’ambiente è sicuramente quello dei trasporti e in generale dei nostri movimenti. Sarebbe bello pensare di poter soddisfare tutti i nostri bisogni all’interno di una zona delimitata che potrebbe essere il nostro quartiere, con il nostro panettiere di fiducia, il supermercato sotto casa e il ferramenta dietro l’angolo. In questo modo, rimanendo anche geograficamente nel locale, gli spostamenti sarebbero sempre fattibili a piedi o in bici e il nostro impatto sull’inquinamento atmosferico, e smog più in generale, sarebbe ridotto al minimo.Ovviamente, ragionare così non è sempre possibile: tuttə hanno necessità diverse e i nostri movimenti vanno molto più in là di un raggio di pochi chilometri.Se abbiamo necessità di spostarci più lontano e non possiamo farlo a piedi o in bici, è sempre consigliabile utilizzare i mezzi pubblici locali, evitando così il mostro del traffico cittadino, che in Italia rappresenta la principale fonte di inquinamento atmosferico. Chi abita in una grande città ha probabilmente molta più facilità nell’utilizzarli, rispetto a chi invece, come me, viene da un piccolissimo paese di campagna, dove i mezzi sono pochi e sporadici, e le strade non sono pensate per chi viaggia in bici: in questi casi, prendere l’auto è una scelta obbligata anche solo per raggiungere il supermercato più vicino. In questi casi si può sempre valutare l’effettiva necessità di ogni trasferimento, magari condividendo qualche passaggio e organizzare più commissioni in una sola uscita ogni volta che si decide di viaggiare in macchina.Per quanto nel nostro stile di vita possiamo cercare di fare scelte locali su più versanti, a volte tutti sentiamo il bisogno di uscire dal nostro quartiere, città o paese quando dopo un po’ di tempo si fanno sentire stretti. In questo caso, oltre a ricercare per i nostri spostamenti le soluzioni meno impattanti possibile, come ad esempio i viaggi in carpooling o in treno, di locale possiamo scegliere ben poco.Se non sentiamo la necessità di esplorare proprio l’altro lato del mondo però, sono le mete che scegliamo per le nostre vacanze che possono essere più vicine a noi, magari potrebbe essere proprio l’occasione per scoprire i piccoli borghi appena fuori dalla provincia di cui ti hanno recentemente parlato o esplorare esattamente quella regione del paese in cui non sei mai statə prima. In sostanza, quando non riusciamo ad essere sempre green, eco, zero waste e altre bellissime parole che hanno comunque la loro importanza, in ogni nostra azione possiamo cercare di essere più leggerə per il pianeta facendo scelte che siano semplicemente un po’ più locali. ARIANNA PRIMAVERA
Saperne di piùBisessualità e dating (con ragazzi)
Come uscire con i ragazzi etero cis dopo essere entrata pienamente in contatto con il mio orientamento sessuale bi+ si riveli ogni giorno più demotivante. Qualche settimana fa, mentre prendevo un caffè con un’amica, mi ha riportato di un’esperienza che le era capitata qualche giorno prima, con un ragazzo che frequentava da poco. Dopo aver condiviso con lui il suo orientamento bi+, lui, stupito, ha affermato che gli sembrava strano che potesse essere bisessuale, dato che aveva i capelli lunghi e una presentazione ed espressione di genere molto femminile. Un’uscita ingenua, un po’ infelice, che però offre uno spaccato interessante dell’argomento che vorrei toccare in questo articolo, ovvero come la bisessualità sia percepita e riconosciuta, o non riconosciuta, (spesso, non sempre) in una società etero-mononormata. Prima, qualche precisazione: si intende per bisessuale, o bi+, una persona attratta a livello sessuale, romanico o emotivo, da più di un genere, NON dai due generi uomo/donna solamente (ottica binaria), e non necessariamente contemporaneamente. Si intende per bisessuale una persona che, rientrando in queste caratteristiche, si auto-definisce tale (le persone possono usare altre etichette per esprimere la grande varietà di orientamenti all'interno di questa definizione, o non volerle utilizzare affatto). Perciò, ritornando alla vicenda, l’esperienza della mia amica mi ha riportato alla mente una situazione analoga in cui mi ero trovata: un amico, una sera davanti a una birra, quando mi ha visto arrivare con un nuovo taglio di capelli molto corto, ha pensato che fosse da alleato esclamare “Pazzesca con questo taglio! Rimorchierai sicuramente un sacco di ragazze ora!”. La premessa da fare sarebbe che non bisogna confondere espressione di genere, orientamento sessuale e identità di genere. Ma, assodato ciò, quello che le due persone in questione penso volessero goffamente comunicare, o hanno involontariamente lasciato trapelare, è che bisogna presentarsi in un modo specifico se si vuole essere percepitə come anche gay, soprattutto se si frequentano anche persone cis etero (nel mio caso e nel caso della mia amica, ragazzi). L’orientamento delle persone bi+ è stabilito dallo sguardo della società, basato sul genere del partner che decidiamo di frequentare. Ecco perciò che le persone bisessuali, intrattenendo relazioni con diversi generi, sono portate a dover validare, e quasi a volte dimostrare, in ogni situazione sociale nuova, la propria bisessualità, innescando un coming out continuo e infinito. E da qui la nostra invisibilità agli occhi della società, che fatica a riconoscere le persone bi+, poiché sfuggono continuamente alla classificazione monosessuale binaria (o etero o gay), e che scambia la nostra fluidità per confusione su cosa ci piace. Invisibilità che viene rinforzata, per l’appunto, quando decidi, da donna, di uscire con un uomo. “Non capisco come la lunghezza dei miei capelli c’entri con chi mi può piacere” ha risposto Sofia.“Perciò hai avuto relazioni anche con delle ragazze?” incalza il ragazzo, perplesso.E Sofia, che delle relazioni con delle ragazze ce le ha anche avute, a questo punto è spazientita. Perché non si chiederebbe mai a una persona eterosessuale di provare il proprio orientamento con fatti, per validarlo, ma ci si basa su quello che dice di sentire, o per chi afferma di provare attrazione.“Scusa, tu prima della tua prima relazione con una ragazza non sapevi che ti piacessero le ragazze?”.A questo punto il paradosso diventa evidente, e il ragazzo fortunatamente si scusa.Non succede sempre però. Questo tipo di conversazione l’ho fatta più volte, e più volte dopo aver affermato (a questo punto quasi a malincuore) che sì, mi piacciono anche le ragazze, un sorrisetto malizioso è comparso sul viso dell’interlocutore, descrivendo meravigliosamente il tipo di immagini che nella sua testa si stanno dipingendo. Perché invisibilità e non-validazione portano ad altri due grandi topic dell’esperienza bi, nel mio caso, da un punto di vista di donna: il primo è la sessualizzazione del rapporto saffico, la seconda è la promiscuità sessuale spesso associata alle persone bi.In relazione alla sessualizzazione, il discorso si allarga anche alle persone lesbiche: nella nostra società eteropatriarcale le relazioni gay fra donne sono spesso feticizzate da uomini etero, che vedono nel rapporto un contenuto erotico di cui appropriarsi alla necessità, o del tutto rivolto a loro, in un’ottica fallocentrica. Questo finisce per declassare la relazione lesbica a tipo di relazione “di serie b”. Specie dove c’è possibilità di “scelta”, come nel caso delle persone bi+. In relazione alla promiscuità, uno stereotipo forte sulle persone bi è quello che dà per scontato che se si è attrattə da più di un genere, allora si è attrattə da “qualsiasi cosa che si muova”, o addirittura sia dato per assodato che una persona bisessuale sia predisposta alle relazioni o rapporti a tre misti, come se per essere appagata sentimentalmente debba “disporre” di partner di entrambi i generi (di nuovo, ottica binaria) contemporaneamente. Non a caso il manifesto bisessuale del 1990 fu pubblicato a San Francisco dalla rivista Anything that Moves (“Qualsiasi Cosa che si Muova”) che decise, ai tempi, di rivendicare e appropriarsi dell’etichetta che rappresentava il pregiudizio che veniva spesso attribuito alle persone bisessuali. Ricordo che una volta, dopo aver fatto coming out, un compagno del liceo mi chiese: “Perciò ora fai un sacco di cose a tre?”. Almeno niente commenti sui capelli, ma comunque piuttosto raccapricciante. L’ultima esperienza che voglio riportare è una chiacchierata che una volta ho fatto con una ragazza che frequentavo. Lei si trovava in una relazione aperta con un ragazzo, e di fronte alla mia domanda di spiegarmi un po’ meglio il loro tipo di relazione, di parlarmi dei boundaries che avevano stabilito e del tipo di libertà relazionali di cui lei disponesse, rispose: “Per il mio ragazzo è ok se io vedo delle ragazze, ma preferirebbe che non frequentassi altri ragazzi”. Ai tempi, forse per ingenuità, forse per scarsa consapevolezza politica, ricordo che non problematizzai troppo la cosa, ma ammetto che ora, di fronte alle stesse parole, avrei un tipo di risposta diverso. La persona con cui stava la ragazza riteneva potenzialmente minacciosa, per la stabilità della coppia, una situazione che comprendesse la presenza di un altro ragazzo (etero, cis) nella sua vita, mentre si rivelava accondiscendente e incoraggiante nelle frequentazioni con persone dello stesso genere. Inutile dire quanto questo ragionamento, agli occhi di una persona bisessuale, sia infondato e ingenuo, perché per esperienza non sottovaluterei mai quanto la ragazza giusta possa far perdere la testa, tanto quanto un ragazzo. Ma la verità che queste convinzioni mettono in luce è che l’esperienza bisessuale è percepita fondamentalmente come un gioco, un modo per mettersi in mostra e stare sopra le righe. Un modo come un altro, per l’appunto, di compiacere lo sguardo maschile. E, a lungo andare, ammetto, è stancante. È stancante dover essere incasellatə in definizioni in cui non ci identifichiamo, è stancante dover provare il proprio orientamento per essere riconosciutə, è stancante essere sessualizzatə, demonizzatə come promiscuə, infedeli, indecisə, inaffidabili, confusə, etichettatə come “gay non abbastanza coraggiosi” se ragazzi, come “etero in cerca di attenzioni” se ragazze. Per questo spesso preferiamo rimanere una massa silenziosa, perché a volte si preferisce restare invisibili, se l’alternativa è essere stereotipizzatə, o fraintesə. Ma il problema non è la nostra bisessualità, ma come questa venga ridefinita o negata all’interno della nostra società. E l’invisibilità, a lungo andare, fa male. Se nessuno ti vede, finisci per diventare invisibile anche a te stessə.Il modo che ho trovato io per non diventare invisibile è condividere la mia esperienza, e crearmi una rete di supporto, fatta di amiche, amici e amicə che mi vedono e supportano. Ma so che non è una possibilità per tuttə, perciò, persona bi+ che termini ora questo articolo: io ti vedo, so che esisti, e che la tua esperienza è valida. Hanno ispirato l’articolo (e influenzato la mia idea): Attivistx bi+ https://www.instagram.com/larosalilla/ https://www.instagram.com/bi_tching/ Ted talks: https://www.youtube.com/watch?v=Oa6AnOCQD50&t=763s https://www.youtube.com/watch?v=XMbfDV55kmc Bisexual Manifesto 1990: https://bimanifesto.carrd.co/#manifesto VALERIA REGIS
Saperne di piùQuanto ne sai di disturbo disforico premestruale?
Ti senti depressǝ, irritabile, non hai voglia di fare nulla? Potrebbe essere il disturbo disforico premestruale (che NON coincide con la sindrome premestruale!) Quando ci si ritrova ad affrontare la settimana antecedente al ciclo mestruale, il corpo inizia a subire dei cambiamenti: seno gonfio, dolori, stanchezza. Improvvisamente, il male di vivere si impossessa del nostro corpo senza sapere perché. Spesso iniziamo ad avere sbalzi d’umore, piangiamo senza motivo, odiamo il genere umano, svuotiamo barattoli di Nutella e siamo molto più stressatǝ. Tutti sintomi che, quando iniziano le mestruazioni, scompaiono magicamente…per poi ricomparire il mese successivo, nello stesso periodo. Per alcune persone questo arco temporale rappresenta una vera e propria tragedia (anche se provvisoria), perché la sintomatologia compromette la vita sociale, il lavoro, le relazioni interpersonali. Stiamo parlando di coloro che soffrono del disturbo disforico premestruale (PMDD). Cos’è il disturbo disforico premestruale? Secondo il DSM V, affinché possa essere definito PMDD, i sintomi devono essere presenti nella settimana precedente le mestruazioni, iniziare a migliorare con l’insorgenza delle mestruazioni e ridursi al minimo o scomparire del tutto nella settimana post mestruazioni. Inoltre, devono essere presenti nella maggior parte dei cicli mestruali durante l’ultimo anno e devono incidere negativamente sul funzionamento lavorativo e sociale. Dunque, nel periodo sopra indicato devono essere presenti uno o più dei sintomi tra: labilità affettiva marcata (es. sbalzi d’umore o pianto improvviso); sentimenti di irritabilità, rabbia o insorgenza dell’aumento dei conflitti interpersonali; umore depresso, sentimenti di disperazione o pensieri autosvalutativi; ansia e tensione. Oltre a questi sintomi, per giungere alla diagnosi di disturbo disforico premestruale, è necessario che siano registrati uno o più dei successivi sintomi (in modo da raggiungere il totale di cinque sintomi, sommando i primi e i seguenti): minore interesse rispetto alle attività abituali; difficoltà di concentrazione, aumento di letargia, incisiva mancanza di energie; variazione notevole dell’appetito (consumo eccessivo di cibo o voglie di cibo specifico); ipersonnia o insonnia; sintomi fisici come: tensione mammaria o gonfiore, dolori articolari o muscolari, sensazione di “gonfiore” o aumento di peso. I sintomi possono essere comparati (non per durata) a quelli di altri disturbi, come l’episodio depressivo maggiore o il disturbo d’ansia generalizzata. Al fine di diagnosticare il PMDD, è necessario effettuare diverse valutazioni prospettiche quotidiane per almeno due cicli sintomatici. Se i sintomi non vengono confermati dalle valutazioni, deve essere annotato “provvisorio” dopo il nome della diagnosi (ossia, “disturbo disforico premestruale, provvisorio”). Ma come mai insorge questo disturbo? L’eziologia del disturbo disforico premestruale è ancora oggetto di ricerca tutt’oggi. Non è stato ancora possibile dimostrare che sia presente uno squilibrio ormonale nelle donne affette da questo disturbo. Difatti, i livelli ormonali di una donna affetta da PMDD e una donna non affetta da quest’ultimo sono indistinguibili. Hanno ipotizzato, però, che le donne con PMDD siano più sensibili alle fluttuazioni ormonali, come gli estrogeni e il progesterone, ormoni che attivano eventi biochimici nel sistema nervoso alla base dei sintomi premestruali. Per giunta, si è ipotizzato che forse vi sia anche una componente ereditaria, dal momento che i sintomi premestruali hanno una stima di ereditabilità che oscilla tra il 30% e l’80%. In cosa si differenzia dalla sindrome premestruale? Sebbene anche la sindrome premestruale possa presentarsi in forma grave (infatti viene suddivisa in lieve, moderata e grave), si tratta di sintomi più che altro fisici. Nella sindrome premestruale non è richiesto un minimo di cinque sintomi e non sempre vi sono sintomi affettivi (come umore depresso, perdita d’interesse nelle normali attività della vita quotidiana, ecc.). Infine, si parla di disturbo disforico premestruale quando il sintomo compromette la vita di tutti giorni e le relazioni familiari o sociali. Il disturbo disforico premestruale può coesistere con altri disturbi? Gli individui affetti da disturbo disforico premestruale riferiscono frequentemente di aver attraversato in passato un episodio depressivo maggiore. Un’ampia gamma di disturbi medici (per es., emicrania, asma, allergie, disturbi convulsivi) o di altri disturbi mentali (come i disturbi depressivi o bipolari, disturbi d’ansia, bulimia nervosa, disturbi da uso di sostanze) possono peggiorare durante la fase premestruale. Il disturbo disforico premestruale, però, non deve essere considerato solo la causa del peggioramento di altri disturbi, ma deve essere rilevato separatamente. In quest’ultimo caso, è possibile considerarlo come un disturbo a parte, qualora i sintomi del disturbo disforico premestruale si differenzino totalmente dalla sintomatologia del disturbo coesistente. C’è una cura per il disturbo disforico premestruale? Il disturbo disforico premestruale scompare con l’insorgere della menopausa e non compare durante la frase antecedente il menarca e la gravidanza, poiché sono periodi nei quali non è presente l’attività ovarica. Tuttavia, per fronteggiare i sintomi durante il periodo fertile, un aspetto da non trascurare è la consapevolezza del proprio quadro clinico. Una volta conosciuta a fondo la propria condizione, l’individuo riesce ad affrontare il periodo premestruale con più tranquillità e riesce a gestire meglio i sintomi. L’utilizzo di un calendario o di un diario può aiutare la persona a capire meglio quali siano e quanto intensi siano i sintomi. Nello specifico, questi strumenti risulteranno utili a medici e psicologi ai fini della diagnosi di PMDD, i quali aiuteranno al raggiungemento del trattamento più adeguato. La psicoterapia svolge un ruolo fondamentale in caso di una sintomatologia premestruale che non ha tratto benefici con altri trattamenti. La sintomatologia spesso può avere cause psicologiche, specialmente se vi è un vissuto conflittuale nei confronti delle mestruazioni. In particolare, la terapia cognitivo-comportamentale si è rivelata particolarmente efficace con questa tipologia di disturbo. La terapia farmacologica del disturbo disforico premestruale. Quando la sola psicoterapia non basta, possono essere prescritti dei farmaci. I farmaci di prima scelta sono gli inibitori selettivi della ricapitazione della serotonina (SSRI), che fanno parte di una categoria di antidepressivi. A differenza dei trattamenti per i disturbi depressivi, gli SSRI non devono essere assunti quotidianamente ma possono essere assunti solo nella fase luteale o durante i sintomi più marcati del disturbo disforico premestruale. Questo perché coloro che rispondono bene agli SSRI trovano beneficio dopo 1-2 giorni dall’insorgere dei sintomi. La somministrazione durante la fase luteale può iniziare 14 giorni prima delle mestruazioni e successivamente interrotta dopo l'inizio del ciclo. Le persone che assumono SSRI nel trattamento del disturbo disforico premestruale generalmente riportano una riduzione del 50% dei sintomi, un miglioramento significativo rispetto al gruppo trattato con placebo. I farmaci aiutano a correggere i sintomi psichici, ma non sempre risultano efficaci nella sintomatologia fisica: per questo, la scelta del farmaco deve essere valutata scrupolosamente dallo specialista in modo da calcolare rischi e benefici prima dell’inizio del trattamento. Vi lasciamo con un appello: se notate l’insorgere di questo genere di sintomi, recatevi da unǝ specialistǝ che non sottovaluti questo genere di esperienza perché la consapevolezza intorno ad essa è ancora troppo bassa. Non sei sbagliatǝ, potrebbe trattarsi di una sindrome seria ancora interessata da pochi studi. ANTONELLA PATALANO
Saperne di piùGEN Z: IL CONFLITTO TECNOLOGICO DELLA GENERAZIONE DEL PRESENTE
Partiamo con una premessa fondamentale, ovvero: che cosa si intende per Generazione Z?Con il termine Generazione Z ci si riferisce alle persone nate tra il 1995 e il 2010, i membri della Generazione Z sono figli della Generazione X, nati tra il 1965 e il 1980. La Generazione Z è preceduta dai Millennial o Generazione Y, nati tra il 1981 e il 1995, mentre la generazione successiva è la Generazione Alpha che comprende i nati dal 2010 in poi. La Gen Z è stata definita “nativa digitale” in quanto avvezza all’uso della tecnologia e dei social media, che incidono per una parte significativa sul loro processo di socializzazione. Sono i primi a non aver conosciuto un mondo senza tecnologie e ambienti digitali, cosa che non può non influire su come vivono la quotidianità, i consumi e le aspettative nei confronti del lavoro. Si tratta di una generazione decisamente multiculturale e con idee politiche che non possono prescindere dal supporto ai matrimoni omosessuali, ai diritti LGBTQI+ e alla gender equality.Nascono all’inizio della grande recessione del 2008. La Gen Z non ha mai conosciuto un mondo privo di conflitti, minacce di terrorismo e ora anche pandemie planetarie. Tutto ciò li ha resi di fatto più responsabili, persino più parsimoniosi della generazione immediatamente precedente. Sono considerati come inaffidabili, irrequieti e spavaldi, in realtà tutte le ricerche riportano che la Gen Z esprime valori importanti quali: Spiccato impegno sociale e lavoro; Indipendenza e determinazione; Sensibilità ai principi di onestà e lealtà. Sorpresi? Penso proprio di sì! Purtroppo queste caratteristiche non sono spesso identificative o assegnate a un adolescente. La Gen Z quando si sente etichettare risponde con una classica affermazione: “Noi non siamo chi voi pensate”.A questo proposito diverse ricerche effettuate a livello globale durante il culmine della pandemia, hanno dimostrato come un quinto dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha disattivato i propri account sui social network (ma il dato cresce fino a un quarto in alcuni paesi come l’Italia), mentre un terzo sta limitando l’utilizzo dello smartphone durante la giornata. L’ultimo sondaggio della Digital Society Index rivela come la Generazione Z stia riducendo la quantità delle proprie attività online. Misure che indicano una forte consapevolezza da parte dei GenZers di come e quanto i loro dati possono essere utilizzati e di alcuni degli impatti negativi percepiti della tecnologia sulla società. Più della metà di loro (58%), infatti, non si fida delle aziende tecnologiche a causa delle preoccupazioni sull’utilizzo dei propri dati.Anche i problemi di salute mentale destano grande preoccupazione. Quasi la metà dei GenZers ritiene che uno smodato utilizzo personale della tecnologia abbia un impatto negativo sul proprio benessere psico-fisico. La GenZ, una generazione che ha basato le proprie certezze quasi interamente sui social media, non riconosce più il digitale come un “luogo sicuro” nel quale crescere e rifugiarsi. Non è una novità che i social media, in particolare Instagram, permettano alle persone di mostrare al mondo una versione di se stessi idealizzata e studiata a tavolino. Un qualcuno che è sempre alla moda, che sta sempre in vacanza, senza imperfezioni e che fa vita mondana. Non bisogna dimenticare che alcune persone sviluppano delle dipendenze malsane con i social media, mentre altri li utilizzano sporadicamente, senza conseguenze. Forse la relazione di amore-odio che molti hanno sviluppato con queste piattaforme divoranti non è causata dalla tecnologia stessa, ma dal modo in cui la usiamo e ne abusiamo. Penso che lo sapessimo tutti che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. La gratificazione e l’eccitazione che dava postare una foto sui social media sembra scomparire sempre più. Certo, molti di noi scrollano ancora la home dei social media in modalità automatica, mettendo mi piace a foto di piante, paesaggi e status strappalacrime senza provare nulla. Ma, per caso, ci staremo allontanando dai social per schiarirci le idee, per costruire rapporti autentici e per provare emozioni che una vita più reale può darci? SIMONA DANOS
Saperne di piùMicrobiota: cos'è e come prendersene cura
Microbiota: se ne parla sempre più spesso, ma cerchiamo di capire insieme di cosa si tratta e come influisce sulla nostra salute. Cos’è il microbiota? Il microbiota è l’insieme di tutti i microrganismi: batteri, virus, funghi e protozoi che popolano il nostro organismo. Con il termine microbioma si indica invece l’insieme dei geni del microbiota.Il microbiota più famoso è sicuramente quello intestinale: il peso complessivo di questi piccoli ospiti arriva a circa un kg e mezzo. Tutti i componenti del microbiota collaborano e agiscono come un unico organismo, ed è per questo molto importante che siano in equilibrio, sia in termini di numerosità che di rappresentazione di specie diverse, quando questo accade si parla di eubiosi.Il microbiota intestinale svolge numerose funzioni che non si fermano soltanto a livello dell’apparato digerente dove protegge i villi della parete intestinale. Provvede alla sintesi di sostanze fondamentali che l’essere umano da solo non sarebbe in grado di produrre come le vitamine K (coinvolte nella coagulazione del sangue) e B12 (importante per la sintesi di globuli rossi), ma anche alcuni amminoacidi ed enzimi, sostiene e favorisce l’attività del sistema immunitario ed ha effetti regolatori sul sistema cardiovascolare, nervoso ed endocrino. È davvero così importante? Alterazioni del microbiota (disbiosi) sono state osservate in alcune patologie quali disturbi cardiovascolari e ipertensione, malattie metaboliche e depressione, ma anche dismenorrea e sindrome premestruale. Ad oggi non si è ancora pienamente compresa la relazione causa effetto, ma sicuramente anche il microbiota gioca un ruolo importante nell’insorgenza di questi disturbi. La presenza di un microbiota sano e funzionante è così importante che per alcune gravi infezioni intestinali si utilizza il trapianto di feci: le feci di un donatore sano con tutto il loro corredo microbiotico vengono introdotte nell’intestino del paziente e aiuteranno il nuovo organismo ospite a combattere l’infezione. Tutto ciò ad un costo molto basso e con pochi effetti collaterali! Come si forma? Il periodo neonatale e i primi anni di vita sono fondamentali per la formazione di un microbiota in equilibrio e ricco di specie diverse. In modo particolare, il passaggio attraverso il canale vaginale durante il parto fa si che il microbiota vaginale della madre venga a contatto con il neonato ponendo le basi per la formazione del microbiota del piccolo. Questo momento è così importante che si sta cominciando a tamponare con il microbiota della mamma i natə con parto cesareo, è stato visto infatti che il contatto con il microbiota vaginale della madre riduce l’incidenza futura di allergie e malattie metaboliche. Come possiamo prendercene cura? Il nostro organismo è un pianeta che pullula di piccoli e diversi ospiti, le loro caratteristiche sono fortemente influenzate dall’ambiente in cui viviamo e dal nostro stile di vita: regolarità del sonno, dieta e attività fisica concorrono a caratterizzare la popolazione microbiotica e bastano piccole variazioni, periodi di forte stress e cure antibiotiche prolungate per alterare questo equilibrio simbiontico. Cerchiamo di mantenere uno stile di vita sano e consapevole, ma senza che questo diventi a sua volta uno stress! Ci sono poi alcuni cibi, ricchi di elementi prebiotici (banane, frutta secca, farine integrali, sono solo alcuni), che ci possono venire in aiuto, arrivano indigeriti nell’intestino dove vengono fermentati dalla flora residente alimentandola. Prendiamoci cura di questi piccoli ospiti, loro in cambio contribuiranno a regalarci una vita in salute! BEATRICE UGUAGLIATI
Saperne di piùIL SANGUE E IL SUO OPPOSTO
Da quasi un anno (tempus fugit) gli articoli, le riflessioni e i post su tutto ciò che riguarda il ciclo mestruale su questo spazio sono stati moltissimi, e la ragione pare scontata, dato l’obiettivo che noi di This Unique ci proponiamo. Eppure, eppure, sembra che manchi qualcosa. Se la rivoluzione mestruale è un discorso che riguarda tutt*, il pubblico a cui viene sottoposto il problema è spesso e volentieri un pubblico solo femminile, così come le bocche che ne parlano, o i profili che lo diffondono. E anche al di là dello spazio social, la problematica legata al ciclo (ai dolori, ai disagi, al prezzo degli assorbenti, all’imbarazzo e la lista potrebbe proseguire) resta relegata ai bisbiglìi pudici tra amiche, al dialogo prima o poi inevitabile madre-figlia, agli affettuosi consigli tra sorelle. Gli uomini - intendo dire non la totalità degli essere umani ma proprio specificamente i maschi - sono (meglio dire “siamo”, per non cavarmi da un impaccio che è anche mio) allegramente esclusi da questa faccenda. Insomma, ce ne laviamo le mani, non ci riguarda, è una di quelle noie che evitiamo felicemente di porci, dato che il destino ha stabilito che fisiologicamente la cosa non ci tocchi. Non solo. Capita, e d’altronde è inevitabile, che di tanto in tanto noi uomini entriamo in contatto con qualcosa che riguarda il ciclo mestruale. Qualunque cosa. Succede allora che nel migliore dei casi borbottiamo qualcosa imbarazzati, distogliamo lo sguardo, ci giriamo dall’altra parte; e nel peggiore che chiediamo alla persona interessata di non parlare, possibilmente, di quell’argomento. Perché comunque è sangue, e può anche infastidire, diamine! Questo fa da contraltare a un altro atteggiamento, ancora squisitamente maschile (mica di tutti i maschi, eh, ma insomma per capirci): e cioè la tendenza a ricondurre qualunque malumore femminile al ciclo. Qualunque. Psicologi improvvisati, analizziamo l’inconscio delle nostre amiche, ragazze o conoscenti in un batter d’occhio, ci rendiamo conto che qualcosa non va e chiediamo, quasi con una risatina: “Hai le tue cose?” Le tue cose. Perché comunque la parola ciclo, il sangue, fanno impressione, ed è sempre meglio censurarle. Perché anche solo nominarlo sarebbe come evocare un mostro che temiamo, che ci fa sentire improvvisamente a disagio, piccoli di fronte alla maledizione ancestrale e divina dell’altro sesso, costretto e sorbirsi mensilmente qualcosa che per noi è così lontano da parerci di un altro mondo. La verità è che il ciclo ci fa paura, che in una donna con “le sue cose” vediamo tutte le difficoltà che non saremmo in grado di superare perché mai abbiamo dovuto farlo. E allora reagiamo come reagiamo, imbarazzati, a disagio, del tutto fuori luogo. Perché il ciclo è un tabù. Perché le stesse pubblicità degli assorbenti, in televisione, censurano il colore del sangue e architettano articolati giochi linguistici per evitare di ferire la sensibilità di qualcuno. Del ciclo, tra i maschi ma in generale in pubblico, non se ne parla, non va bene, non è argomento da affrontare ancora oggi, nell’epoca in cui si affronta e si parla di tutto. Anche al bar, tra i discorsi più bassi e beceri (e ben vengano anche quelli) il ciclo è troppo basso, troppo becero. E non parlo del ciclo della sconosciuta, ma anche di quello della propria ragazza, con cui in quei giorni non si fa sesso, perché va bene tutto, ma quello fa anche un po’ schifo. Abbiamo paura del sangue. Non parlo soltanto di noi maschi (capisco che forse sia troppo generalista come categorizzazione), parlo di noi in quanto società. Generalmente, il primo sentimento che le ragazzine provano nei confronti del primo ciclo è la vergogna, come fosse uno stigma. Dall’altro lato, i ragazzini entrano in contatto col ciclo del tutto impreparati, e tali restano per buona parte della vita, se non per tutta. La società non fa nessun tentativo di normalizzare la cosa, non se ne parla, e quando se ne parla lo si fa soltanto come freddo fattore fisiologico, letto a scuola su un libro di scienze tra qualche battuta e qualche risatina. Il risultato è un rifiuto incondizionato ad accettare il sangue da parte di quella metà della popolazione che il sangue non lo perde, e un senso di imbarazzo e pudore da parte di quella che invece, ahi lei, lo perde. Non è di per sé colpa del maschio se è intimorito dalle mestruazioni; né tantomeno della femmina se ne prova vergogna. La colpa è del tabù che la società costruisce, ancora troppo conservatrice e bigotta per aprirsi a quel che ha sempre reputato impuro, e troppo orgogliosa per ammettere la forza indomabile delle donne nell’affrontare il ciclo, con tutti i dolori - fisici e psicologici - che questo comporta a seconda dei singoli casi. La forza delle donne, appunto, che è in sé inaccettabile. Perché è un’antitesi, un paradosso: perché la donna, si sa, è il sesso debole. ENRICO PONZIO
Saperne di più



