LAVORI DA MASCHI, LAVORI DA FEMMINE

Ovvero quando gli stereotipi di genere intaccano lavori e interessi personali

C'è una sorta di fantasma che si aggira sulla nostra quotidianità, che silenziosamente cammina tra le nostre convinzioni più ataviche, che ammettiamo o non ammettiamo, che abbiamo fatto nostre o semplicemente diamo per scontate: la convinzione che il lavoro abbia un genere. Che ci siano, cioè, lavori per maschi, esclusivamente e senza dubbio per maschi, e lavori da femmine, da sempre e per sempre da femmine. Lavori per donne e e lavori per uomini. Certo, c'è una zona d'ombra, là in mezzo, una gamma vasta – vastissima – di lavori per tutt* (davvero il genere neutro risulta calzante, in questo caso), che vestono perfettamente su una donna come su un uomo senza che nessuno abbia la possibilità di storcere il naso, né che l* lavorator* si senta a disagio. L'insegnante di liceo, per esempio, che già nel termine presuppone una neutralità, o l'impiegat* d'ufficio. Altri lavori no: altri lavori hanno un genere assolutamente ben definito.

Passo alla prima persona, all'immediatezza dell'esperienza personale, per esprimere una questione che sia, credo, ben radicata. Non si dovrebbe desumere il generale dal particolare quando il particolare siamo noi, lo so, ma per questa volta trasgredirò alla regola. Ho fatto il maestro elementare e il babysitter. Ora faccio altro, sì, un lavoro molto più neutro, ma sporadicamente ho fatto due mestieri, insomma, va detto, da femmine. Per quanto riguarda il babysitter, la vergogna del vestire i panni femminili era stemperata dall'usare frasi di circostanza (“Sì, guardo dei bimbi qualche giorno, conosco i genitori”), frasi che permettevano di non usare direttamente il termine babysitter, così connotato verso il cromosoma X. Il maestro elementare era più complesso da evitare: gli sguardi dei genitori verso l'unico uomo in mezzo a così tante donne, le domande stesse delle colleghe, lo stupore, le battute. Certo, l'ho detto e lo si dà anche per scontato, lo stesso straniamento non si prova se si sale d'età nel mondo della scuola: le medie, il liceo, l'università; niente di strano in quel caso. L'infanzia e la primaria (meglio usare i termini ministeriali corretti, prima che qualcun* si infervori) sembrano invece più aperti verso l'universo femminile. Questo è dovuto, credo, all'antica e intramontabile concezione che una donna, in quanto tale, è anche una madre. Forse è addirittura prima una madre, o meglio: il suo essere donna si completa nel momento il cui diventa madre. E per questo istinto materno innato, per questa naturale tendenza verso i bambini (a quanto pare non importa sapere di chi siano figli) si destinano alle donne tutti quei mestieri che hanno a che fare con persone fino a una certa fascia d'età. E se è un maschio, beh, c'è qualcosa di strano, come è strano se a stare a casa con il figlio, o la figlia, sia il papà, e non la mamma. Il papà va a lavoro, la mamma sta a casa, non è altro che l'antico dogma.

Dunque, quando un uomo fa un lavoro da donna, il tutto risulta strano. C'è però una giustificazione, o piuttosto una scusante: se l'uomo in questione è omosessuale (o se tacciato di essere tale, dato il lavoro che svolge). L'omosessualità – che a livello sociale è spesso associata, quasi a stigma, a tendenze effeminate – legittima certi lavori. Ma è una legittimazione discriminante, come a voler sottintendere che quell'uomo valga meno come uomo in quanto omosessuale, e dunque sia giustificato a fare lavori che più meno implicitamente sono considerati inferiori a livello sociale.

Diversa, quasi agli antipodi, è la questione dei lavori da uomini. In questo caso ne abbiamo di due tipi: i lavori duri e i lavori altolocati. Per i primi, forse, si sono fatti passi avanti. La donna-operaio, l'operaia, esiste, è accettata – con differenze specifiche – a livello sociale, perché ci sono classi (quasi tutte) che per forza di cose necessitano di un lavoro, e lo stipendio ha un peso specifico ben maggiore rispetto a un pregiudizio. Ma raggiungere la parità di genere per quanto riguarda i lavori altolocati, le posizioni manageriali, politiche o simili è una storia ben più dura. Se infatti l'uomo che fa un lavoro “da donna” se la cava il più delle volte con qualche risatina e un commento fuori luogo, la donna che cerca di farsi strada in una carriera solitamente destinata agli uomini per via di tradizioni retrograde e maschio-centriche deve sbracciarsi, fare a spallate, lottare non soltanto contro un pregiudizio, ma contro un sistema intero che cerca di tenerle il più possibile lontane da posizione di potere, che si scervella per evitare che il prossimo ordine, sul posto di lavoro, arrivi non da un uomo, ma da una donna.

È solo di recente che le cose paiono in parte migliorare: le occupazioni femminili dirigenziali aumentano – per quanto il gap rimanga ampio – e negli ultimi anni una serie di neologismi ha introdotto il genere femminile per alcuni lavori che prima presupponevano – perché a svolgerli erano soltanto gli uomini – solo il maschile (la sindaca; l'architetta...).

Ma proprio a livello linguistico i problemi persistono tutt'ora, basti pensare all'infantilizzazione che subiscono a livello pubblico le donne che raggiungono certi obiettivi: se a una donna viene conferito un importante riconoscimento nell'ambito della matematica, non è raro che venga carinamente soprannominata “reginetta della matematica”, e a tanti altri esempi si potrebbe far riferimento. E ancora: il gap uomo-donna nel lavoro è stato spietatamente visibile nell'indagine pubblicata dall'ISTAT poco più di un anno fa, il primo febbraio 2021, dove si evidenziava come delle 101mila persone occupate in meno a causa – tra le altre cose – della pandemia, 99mila fossero donne. Uno scandalo che evidentemente va fatto risalire a un problema di genere.

Insomma, che non esistano, né debbano esistere, lavori per donne o per uomini è un dato di fatto; che invece esistano differenze di genere quando si parla di lavoro è una chiara e preoccupante evidenza. E questa, non bisogna esitare a dirlo, è discriminazione, e va combattuta.

 

ENRICO PONZIO




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