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Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto

GEN Z: IL CONFLITTO TECNOLOGICO DELLA GENERAZIONE DEL PRESENTE

GEN Z: IL CONFLITTO TECNOLOGICO DELLA GENERAZIONE DEL PRESENTE

Partiamo con una premessa fondamentale, ovvero: che cosa si intende per Generazione Z?Con il termine Generazione Z ci si riferisce alle persone nate tra il 1995 e il 2010, i membri della Generazione Z sono figli della Generazione X, nati tra il 1965 e il 1980. La Generazione Z è preceduta dai Millennial o Generazione Y, nati tra il 1981 e il 1995, mentre la generazione successiva è la Generazione Alpha che comprende i nati dal 2010 in poi.   La Gen Z è stata definita “nativa digitale” in quanto avvezza all’uso della tecnologia e dei social media, che incidono per una parte significativa sul loro processo di socializzazione. Sono i primi a non aver conosciuto un mondo senza tecnologie e ambienti digitali, cosa che non può non influire su come vivono la quotidianità, i consumi e le aspettative nei confronti del lavoro. Si tratta di una generazione decisamente multiculturale e con idee politiche che non possono prescindere dal supporto ai matrimoni omosessuali, ai diritti LGBTQI+ e alla gender equality.Nascono all’inizio della grande recessione del 2008. La Gen Z non ha mai conosciuto un mondo privo di conflitti, minacce di terrorismo e ora anche pandemie planetarie. Tutto ciò li ha resi di fatto più responsabili, persino più parsimoniosi della generazione immediatamente precedente. Sono considerati come inaffidabili, irrequieti e spavaldi, in realtà tutte le ricerche riportano che la Gen Z esprime valori importanti quali: Spiccato impegno sociale e lavoro; Indipendenza e determinazione; Sensibilità ai principi di onestà e lealtà. Sorpresi? Penso proprio di sì! Purtroppo queste caratteristiche non sono spesso identificative o assegnate a un adolescente. La Gen Z quando si sente etichettare risponde con una classica affermazione: “Noi non siamo chi voi pensate”.A questo proposito diverse ricerche effettuate a livello globale durante il culmine della pandemia, hanno dimostrato come un quinto dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha disattivato i propri account sui social network (ma il dato cresce fino a un quarto in alcuni paesi come l’Italia), mentre un terzo sta limitando l’utilizzo dello smartphone durante la giornata. L’ultimo sondaggio della Digital Society Index rivela come la Generazione Z stia riducendo la quantità delle proprie attività online. Misure che indicano una forte consapevolezza da parte dei GenZers di come e quanto i loro dati possono essere utilizzati e di alcuni degli impatti negativi percepiti della tecnologia sulla società. Più della metà di loro (58%), infatti, non si fida delle aziende tecnologiche a causa delle preoccupazioni sull’utilizzo dei propri dati.Anche i problemi di salute mentale destano grande preoccupazione.  Quasi la metà dei GenZers ritiene che uno smodato utilizzo personale della tecnologia abbia un impatto negativo sul proprio benessere psico-fisico. La GenZ, una generazione che ha basato le proprie certezze quasi interamente sui social media, non riconosce più il digitale come un “luogo sicuro” nel quale crescere e rifugiarsi. Non è una novità che i social media, in particolare Instagram, permettano alle persone di mostrare al mondo una versione di se stessi idealizzata e studiata a tavolino. Un qualcuno che è sempre alla moda, che sta sempre in vacanza, senza imperfezioni e che fa vita mondana. Non bisogna dimenticare che alcune persone sviluppano delle dipendenze malsane con i social media, mentre altri li utilizzano sporadicamente, senza conseguenze. Forse la relazione di amore-odio che molti hanno sviluppato con queste piattaforme divoranti non è causata dalla tecnologia stessa, ma dal modo in cui la usiamo e ne abusiamo. Penso che lo sapessimo tutti che questo momento prima o poi sarebbe arrivato. La gratificazione e l’eccitazione che dava postare una foto sui social media sembra scomparire sempre più. Certo, molti di noi scrollano ancora la home dei social media in modalità automatica, mettendo mi piace a foto di piante, paesaggi e status strappalacrime senza provare nulla. Ma, per caso, ci staremo allontanando dai social per schiarirci le idee, per costruire rapporti autentici e per provare emozioni che una vita più reale può darci?   SIMONA DANOS 

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Microbiota: cos'è e come prendersene cura

Microbiota: cos'è e come prendersene cura

Microbiota: se ne parla sempre più spesso, ma cerchiamo di capire insieme di cosa si tratta e come influisce sulla nostra salute. Cos’è il microbiota? Il microbiota è l’insieme di tutti i microrganismi: batteri, virus, funghi e protozoi che popolano il nostro organismo. Con il termine microbioma si indica invece l’insieme dei geni del microbiota.Il microbiota più famoso è sicuramente quello intestinale: il peso complessivo di questi piccoli ospiti arriva a circa un kg e mezzo. Tutti i componenti del microbiota collaborano e agiscono come un unico organismo, ed è per questo molto importante che siano in equilibrio, sia in termini di numerosità che di rappresentazione di specie diverse, quando questo accade si parla di eubiosi.Il microbiota intestinale svolge numerose funzioni che non si fermano soltanto a livello dell’apparato digerente dove protegge i villi della parete intestinale. Provvede alla sintesi di sostanze fondamentali che l’essere umano da solo non sarebbe in grado di produrre come le vitamine K (coinvolte nella coagulazione del sangue) e B12 (importante per la sintesi di globuli rossi), ma anche alcuni amminoacidi ed enzimi, sostiene e favorisce l’attività del sistema immunitario ed ha effetti regolatori sul sistema cardiovascolare, nervoso ed endocrino. È davvero così importante? Alterazioni del microbiota (disbiosi) sono state osservate in alcune patologie quali disturbi cardiovascolari e ipertensione, malattie metaboliche e depressione, ma anche dismenorrea e sindrome premestruale. Ad oggi non si è ancora pienamente compresa la relazione causa effetto, ma sicuramente anche il microbiota gioca un ruolo importante nell’insorgenza di questi disturbi. La presenza di un microbiota sano e funzionante è così importante che per alcune gravi infezioni intestinali si utilizza il trapianto di feci: le feci di un donatore sano con tutto il loro corredo microbiotico vengono introdotte nell’intestino del paziente e aiuteranno il nuovo organismo ospite a combattere l’infezione. Tutto ciò ad un costo molto basso e con pochi effetti collaterali! Come si forma? Il periodo neonatale e i primi anni di vita sono fondamentali per la formazione di un microbiota in equilibrio e ricco di specie diverse. In modo particolare, il passaggio attraverso il canale vaginale durante il parto fa si che il microbiota vaginale della madre venga a contatto con il neonato ponendo le basi per la formazione del microbiota del piccolo. Questo momento è così importante che si sta cominciando a tamponare con il microbiota della mamma i natə con parto cesareo, è stato visto infatti che il contatto con il microbiota vaginale della madre riduce l’incidenza futura di allergie e malattie metaboliche.   Come possiamo prendercene cura? Il nostro organismo è un pianeta che pullula di piccoli e diversi ospiti, le loro caratteristiche sono fortemente influenzate dall’ambiente in cui viviamo e dal nostro stile di vita: regolarità del sonno, dieta e attività fisica concorrono a caratterizzare la popolazione microbiotica e bastano piccole variazioni, periodi di forte stress e cure antibiotiche prolungate per alterare questo equilibrio simbiontico. Cerchiamo di mantenere uno stile di vita sano e consapevole, ma senza che questo diventi a sua volta uno stress! Ci sono poi alcuni cibi, ricchi di elementi prebiotici (banane, frutta secca, farine integrali, sono solo alcuni), che ci possono venire in aiuto, arrivano indigeriti nell’intestino dove vengono fermentati dalla flora residente alimentandola. Prendiamoci cura di questi piccoli ospiti, loro in cambio contribuiranno a regalarci una vita in salute! BEATRICE UGUAGLIATI

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IL SANGUE E IL SUO OPPOSTO

IL SANGUE E IL SUO OPPOSTO

Da quasi un anno (tempus fugit) gli articoli, le riflessioni e i post su tutto ciò che riguarda il ciclo mestruale su questo spazio sono stati moltissimi, e la ragione pare scontata, dato l’obiettivo che noi di This Unique ci proponiamo. Eppure, eppure, sembra che manchi qualcosa. Se la rivoluzione mestruale è un discorso che riguarda tutt*, il pubblico a cui viene sottoposto il problema è spesso e volentieri un pubblico solo femminile, così come le bocche che ne parlano, o i profili che lo diffondono. E anche al di là dello spazio social, la problematica legata al ciclo (ai dolori, ai disagi, al prezzo degli assorbenti, all’imbarazzo e la lista potrebbe proseguire) resta relegata ai bisbiglìi pudici tra amiche, al dialogo prima o poi inevitabile madre-figlia, agli affettuosi consigli tra sorelle. Gli uomini - intendo dire non la totalità degli essere umani ma proprio specificamente i maschi - sono (meglio dire “siamo”, per non cavarmi da un impaccio che è anche mio) allegramente esclusi da questa faccenda. Insomma, ce ne laviamo le mani, non ci riguarda, è una di quelle noie che evitiamo felicemente di porci, dato che il destino ha stabilito che fisiologicamente la cosa non ci tocchi. Non solo. Capita, e d’altronde è inevitabile, che di tanto in tanto noi uomini entriamo in contatto con qualcosa che riguarda il ciclo mestruale. Qualunque cosa. Succede allora che nel migliore dei casi borbottiamo qualcosa imbarazzati, distogliamo lo sguardo, ci giriamo dall’altra parte; e nel peggiore che chiediamo alla persona interessata di non parlare, possibilmente, di quell’argomento. Perché comunque è sangue, e può anche infastidire, diamine! Questo fa da contraltare a un altro atteggiamento, ancora squisitamente maschile (mica di tutti i maschi, eh, ma insomma per capirci): e cioè la tendenza a ricondurre qualunque malumore femminile al ciclo. Qualunque. Psicologi improvvisati, analizziamo l’inconscio delle nostre amiche, ragazze o conoscenti in un batter d’occhio, ci rendiamo conto che qualcosa non va e chiediamo, quasi con una risatina: “Hai le tue cose?” Le tue cose. Perché comunque la parola ciclo, il sangue, fanno impressione, ed è sempre meglio censurarle. Perché anche solo nominarlo sarebbe come evocare un mostro che temiamo, che ci fa sentire improvvisamente a disagio, piccoli di fronte alla maledizione ancestrale e divina dell’altro sesso, costretto e sorbirsi mensilmente qualcosa che per noi è così lontano da parerci di un altro mondo. La verità è che il ciclo ci fa paura, che in una donna con “le sue cose” vediamo tutte le difficoltà che non saremmo in grado di superare perché mai abbiamo dovuto farlo.  E allora reagiamo come reagiamo, imbarazzati, a disagio, del tutto fuori luogo. Perché il ciclo è un tabù. Perché le stesse pubblicità degli assorbenti, in televisione, censurano il colore del sangue e architettano articolati giochi linguistici per evitare di ferire la sensibilità di qualcuno. Del ciclo, tra i maschi ma in generale in pubblico, non se ne parla, non va bene, non è argomento da affrontare ancora oggi, nell’epoca in cui si affronta e si parla di tutto. Anche al bar, tra i discorsi più bassi e beceri (e ben vengano anche quelli) il ciclo è troppo basso, troppo becero. E non parlo del ciclo della sconosciuta, ma anche di quello della propria ragazza, con cui in quei giorni non si fa sesso, perché va bene tutto, ma quello fa anche un po’ schifo. Abbiamo paura del sangue. Non parlo soltanto di noi maschi (capisco che forse sia troppo generalista come categorizzazione), parlo di noi in quanto società. Generalmente, il primo sentimento che le ragazzine provano nei confronti del primo ciclo è la vergogna, come fosse uno stigma. Dall’altro lato, i ragazzini entrano in contatto col ciclo del tutto impreparati, e tali restano per buona parte della vita, se non per tutta. La società non fa nessun tentativo di normalizzare la cosa, non se ne parla, e quando se ne parla lo si fa soltanto come freddo fattore fisiologico, letto a scuola su un libro di scienze tra qualche battuta e qualche risatina. Il risultato è un rifiuto incondizionato ad accettare il sangue da parte di quella metà della popolazione che il sangue non lo perde, e un senso di imbarazzo e pudore da parte di quella che invece, ahi lei, lo perde. Non è di per sé colpa del maschio se è intimorito dalle mestruazioni; né tantomeno della femmina se ne prova vergogna. La colpa è del tabù che la società costruisce, ancora troppo conservatrice e bigotta per aprirsi a quel che ha sempre reputato impuro, e troppo orgogliosa per ammettere la forza indomabile delle donne nell’affrontare il ciclo, con tutti i dolori - fisici e psicologici - che questo comporta a seconda dei singoli casi. La forza delle donne, appunto, che è in sé inaccettabile. Perché è un’antitesi, un paradosso: perché la donna, si sa, è il sesso debole. ENRICO PONZIO

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Parliamo di sex toys

Parliamo di sex toys

Recentemente, mi è capitato di discutere con un vecchio amico di un argomento tanto maschile quanto delicato: la masturbazione. Fino a qui tutto bene (né d’altronde nulla di nuovo sul fronte occidentale). Ad un tratto, per alimentare un po’ il fuoco della discussione, gli ho domandato se avesse mai fatto uso di giocattoli specifici. Insomma, di sex toys. Mi ha guardato – non so se più stranito o più divertito – e, con un savoir-faire di altri tempi, mi ha chiesto perché mai avrebbe dovuto masturbarsi con un dildo. Obiezione condivisibile, per un etero. «Ma non intendevo con un vibratore!» ho cercato di mettere in chiaro. Senza il bisogno di girarci intorno, mi ha confidato di come non solo non lo avesse mai fatto, ma nemmeno gli fosse venuto in mente e né, tanto meno, avesse l'idea di provare. Ma come – sono salito in cattedra – e perché mai escludere a priori una cosa così potenzialmente piacevole? A quel punto, forse ferito nell'orgoglio, l'amico mi ha incalzato con la dialettica più spietata: «Perché, tu l'hai provato».Ehm.Io, io avrei voluto, una volta... non c'è stata occasione... costano anche cari...Ecco, no. Non ne ho mai provato uno. Ma mica è una colpa, sia chiaro. Però questa inesperienza ci ha portati a riflettere su quello che credo sia un fatto comune: i sex toys maschili vanno poco. Esistono, sono – immagino – molto piacevoli e ben fatti, ma vanno poco. O comunque vanno meno di quelli femminili. Qui, forse, occorre fermarsi un momento e fare una considerazione: l'universo sex toys è probabilmente l'unico campo in cui l'uomo soffre un tabù che la donna ha affrontato e superato. Non del tutto, è chiaro. Inoltre qualcuno potrebbe obiettare che questa conquista femminile, questa libertà di masturbarsi come le pare, derivi soltanto dall'eccitazione che prova l'uomo immaginando o assistendo alla scena. Forse, all'inizio, è stato così. Ma oggi, tra le generazioni più giovani e via via sessualmente consapevoli, l'uso del dildo o di oggetti simili è sempre più sdoganato. C'è sempre meno vergogna ad ammettere di usarlo, per quanto rimanga un argomento personale (e ci mancherebbe). Per noi maschi, invece, persiste qualche remora. Che sia da attribuirsi a un mero imbarazzo, a una questione di ruoli o a uno stigma sociale poco importa: i s*x toys maschili sono argomento tabù, da censurare. È un fatto di cui vale la pena discutere, certo, ma questo nuovo puritanesimo non è sicuramente un problema così grave, né inficia di per sé sulla nostra libertà di maschi (la soluzione è abbastanza logica: se ci va di provarli, proviamoli!). Un po' più problematico, invece, è lo stigma che nutrano questo tipo di oggetti quando sono indirizzati a persone disabili. Ne parla Alessia Ferri in un articolo su Vanity Fair, in cui racconta un nuovo progetto canadese incentrato proprio sui sex toys inclusivi. La data relativamente recente dell'articolo, luglio 2021, e del progetto stesso, dice molto sull'esistenza del problema oggi giorno. Il sesso (in tutte le sue sfaccettature) è ancora in gran parte un tabù, per quanto si cerchi di contrastarlo; ma altrettanto lo è la disabilità. (A proposito: qualcuno si ricorda per caso quale fosse l'altra minoranza che l'affossatissimo DDL Zan cercava di tutelare? C'era la comunità LGBTQ+, e poi? Ah, giusto, i disabili, dimenticati tra i dimenticati). Di conseguenza parlare di sessualità tra i disabili significa tirare in ballo un doppio tabù, un tabù al quadrato, che non fa altro che accentuare le tante ipocrisie di cui siamo colpevoli ogni giorno. Sembra che, quando parliamo di disabilità, dimentichiamo tutte le necessità personali che stanno dietro al volto del quale vediamo soltanto la patologia, soltanto le necessità impellenti e che permettono di sopravvivere. Ma il diritto di un disabile è il diritto di vivere, non la mera sopravvivenza, e nella vita una parte importantissima e fondamentale la occupa proprio la sessualità. Non mi spingo oltre, vorrebbe dire inoltrarsi in un sentiero che non conosco, e ai cui problemi non saprei dare risposta. Ma il problema c'è, e va discusso. Va discussa la libertà personale, il diritto alla vita sessuale di questa comunità che, per via di qualche capriccio politico e qualche pudico imbarazzo, viene dimenticata. Mi sento di fare poco, ma parlarne è il primo passo. Ah, comunque io e il mio amico abbiamo fatto un patto: proveremo un sex toy per maschi. Questa volta senza censure. ENRICO PONZIO

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ORANGE THURSDAY CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

ORANGE THURSDAY CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

Nel mondo la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. Un dato che ha subìto un’impennata durante la pandemia: secondo un recente report delle Nazioni Unite si arriva a 2 donne su 3 in 13 paesi del mondo. Solo una su 10 ha denunciato l’abuso di cui è stata vittima alla polizia.Ancora troppi, oggi, oltrepassano la linea del consenso. A ogni latitudine, ogni giorno. Una violenza che si incarna in diverse tipologie: fisica, sessuale, psicologica e che, come tutte sappiamo, può arrivare a determinare la morte. Una vita che si spezza. Per un atto di pretesa supremazia. Per un impeto di gelosia. Per il desiderio sconsiderato di delegittimare l’inviolabile diritto della libertà. La fine della violenza di genere interessa ciascunǝ di noi. Passa dalle idee che veicoliamo nel corso dei nostri rapporti personali. Passa attraverso l’educazione. È responsabilità nostra parlare e plasmare un nuovo modo di pensare in merito al genere, al rispetto, ai diritti umani. Perché è mio diritto, è nostro diritto fondamentale essere libere. Libere, tra l’altro, di dire NO ed essere ascoltate.È dovere di tuttǝ diffondere la cultura del consenso: non può più esistere «Se l’è cercata», né «Gli uomini sono uomini». Non è colpa delle donne. Non è colpa dei loro vestiti. Non è colpa delle strade buie. Non è colpa loro se stanno camminando da sole. La colpa è di tutti quelli che esercitano violenza, in qualunque modo lo facciano. Tra le più importanti cose che possiamo fare è ascoltare e credere alle survivors. È compito nostro ricreare uno spazio sicuro che le accolga, perché possano testimoniare la propria esperienza, il primo passo per boicottare il ciclo dell’abuso. Per questo terminiamo questo intervento con le parole di due survivors che hanno voluto raccontare la loro esperienza, perché quello che è successo a loro non capiti mai più.    G: «Oggi ho 19 anni e vivo a Torino. Ho subito un’aggressione a giugno del 2020. Da poche settimane era finito il lockdown, il primo e per certi versi il più segnante. Seppure con le dovute precauzioni, era possibile uscire. Dopo mesi avevo l’occasione di incontrare nuovamente i miei compagni di classe, al completo. Alcuni professori, infatti, avevano organizzato un piccolo ritrovo per un veloce saluto prima delle vacanze estive, nel parco più importante della città. Avete presente la sensazione di tornare a vivere, rincontrando le persone che appartenevano alla vostra routine prima del lockdown? Quella era la mia sensazione.È stato un bel pomeriggio. Nel giro di poco tempo è arrivato il tempo dei saluti e le macchine dei miei amici erano tutte piene: ho deciso di tornare a casa a piedi. Sinceramente non mi dispiaceva fare due passi: erano circa le 18.30, non era buio, e non mi trovavo in nessuno di quei posti che l’opinione pubblica reputa pericolosi, cercando di attribuire una qualche responsabilità dell’aggressione alla vittima piuttosto che al carnefice.Mi si slaccia la scarpa. Mi fermo per rimettere a posto i lacci. In quel momento vengo raggiunta da un uomo: di lui ricordo che aveva una trentina d’anni e che era vestito di nero. Mi afferra per un braccio, mi insulta, prova a toccarmi. Io ero completamente impietrita. Opponevo resistenza, ci provavo, mentre lui mi trascinava verso una piccola via dove avevo ipotizzato che avesse la macchina. Quello è stato il suo passo falso: lì abbiamo incontrato tre ragazzi. Ero impaurita e non ho detto niente. Lui provava a coprirmi col suo corpo, come se volesse mascherare la mia presenza. Gli altri devono aver letto qualcosa che non andava in quella situazione. Ci hanno guardato dal fondo della strada, nascondendosi dietro l’angolo, mi avrebbero raccontato dopo: quando hanno visto che continuava a insultarmi e trascinarmi verso chissà dove sono intervenuti.C’è stata una colluttazione tra loro: io continuavo a rimanere ferma. L’aggressore è scappato e gli altri mi hanno accompagnata dove io avevo chiesto. È stato difficile scrollarsi di dosso la paura: a lungo ho pensato che è stato solo grazie all’incontro fortuito di tre sconosciuti che hanno intuito il pericolo, che l’altro non ha potuto andare a fondo nella sua aggressione. Spesso mi sono chiesta cosa sarebbe successo, dove mi avrebbe portata. Non lo so. Oggi mi rimane un fortissimo senso di gratitudine verso quei tre ragazzi. Parlarne oggi è il mio gesto concreto per invitare chiunque abbia vissuto una situazione simile alla mia a generare il dialogo. Non è colpa vostra. Mai».   E: «Nel 2016 avevo 15 anni. In una discoteca del centro della mia città avevano organizzato una festa di istituto. Ero stata con le mie amiche: ci eravamo divertite tantissimo. Tutto è stato normale, fin quando verso l’orario di chiusura un ragazzo si è avvicinato a me.Inizialmente mi ha posto qualche domanda: «Come stai? Qual è la tua scuola?». Le solite domande di conversazione. Improvvisamente si avvicinò per baciarmi: non ero a mio agio ed è stato difficile elaborare in quel momento la situazione. Il mio rifiuto non era stato elaborato dalla persona che avevo di fronte.Non terminò con un bacio: il suo tono si fece più amichevole, ma aggressivo. Mi prese per il polso, tirandomi verso il bagno. Ero terrorizzata, come potete immaginare. Chiedevo aiuto ma nessuno mi considerava. I ragazzi e le ragazze che avevo incontrato nel tragitto verso il bagno non avevano detto niente, non erano intervenuti: stavano zitti a fissare la scena.Ho provato a liberarmi varie volte invano. Poi sono riuscita in un suo attimo di distrazione a dargli un calcio, il più forte che potessi e sono uscita da lì. Se siete testimoni di un’aggressione, non state fermi a guardare: intervenite di persona e chiamate le forze dell’ordine. Dall’altra parte c’è una vita ad avere bisogno di voi e l’indifferenza non vale».   L: « Era il 2020 e avevo 25 anni, il primo lockdown era appena concluso. Quando hanno riaperto la città, ho voluto condividere quei giorni di mezz’estate con degli amici di cui mi fidavo. Sono una persona solare, ma sinceramente molto ingenua in molte cose: vedo il bicchiere sempre mezzo pieno in ogni situazione.Una sera ero desiderosa di uscire, prendere un po’ d’aria, ma nessuno dei miei amici più stretti era disponibile. Così, parlando senza tante pretese, ho sentito un ragazzo sempre della stessa compagnia per prenderci una birra in giro, (cosa potrebbe succedermi ?, siamo anche amici). Ci siamo trovati in una zona molto trafficata di Milano e chiacchierando siamo saltati dalla prima a un po’ di birre (magari è stato il mio sbaglio?). Quando ho capito che magari stavo oltrepassando il limite, ho pensato di tornare a casa. Lo dico al mio “amico”, ma lui mi convince a rimanere ancora un po’ di più insieme e di continuare a bere. Io ho accettato, non vedendo in questo niente di male.Finiamo a casa sua, a pochi metri da dove ci trovavamo: in quel momento il mio istinto mi diceva che qualcosa non andava.Non volevo essere quella paranoica, soprattutto, cosa mai potrebbe succedere a me?, (tristemente pensiamo sempre così).Dato il mio stato non molto lucido per via dell’alcool, provo a chiamare un taxi ma non riesco a risalire all’indirizzo della casa  il quale mi viene negato). Comincio a stressarmi: qualcosa non va, sento che non dovrebbe andare in questo modo, mi sento sempre meno cosciente di quello che mi succede attorno.Poi in un impeto di forza interiore, riesco a scendere e prendere una bicicletta sharing. Questa persona mi urla dalla finestra dicendo: “Sei un irresponsabile, come puoi tornare a casa in quello stato, vuoi che ti succeda qualcosa di grave?”.Rifletto…. magari ha ragione, dovrei aspettare almeno l’alba e prendere un mezzo più sicuro.(Tutto passa veloce e confuso).Torno dentro cosa sua, spaventata dei “pericoli” che potrei provare fuori a quell’ora.Mi chiedo ancora, sicuramente è colpa mia non dovevo arrivare a quel livello.Tornando da questa persona, ero decisa di aspettare poche ore per andare via. Gli spiego che mi sarei coricata nel letto per aspettare un paio di ore e andare via, lui accetta. Io gli ripeto che è solo per riposarmi e lo prego di rispettarlo. Sono totalmente crollata nel letto. Mi sveglio dopo qualche ora (o così mi sembrava) e mi trovo davanti una scena del tutto inaspettata, schifosa e… non so come descriverla.Ero senza pantaloni, e la testa di lui era tra le mie gambe. Gli dico con le poche forze che avevo di lasciarmi stare, che non volevo, che non me la sentivo e che volevo dormire, ma niente cambia, crollo di nuovo, da lì non ricordo più niente.Allo svegliami mi trovo lui di fianco totalmente nudo.Sono entrata in shock (è colpa mia?). Io gli ho detto di no, non volevo, non ero neanche sveglia, ma cosa è successo. Esco correndo da casa sua in uno stato di panico mai vissuto in vita mia, lacrime, confusione.Ho chiamato della disperazione un amico, della stessa compagnia che ascoltata la mia storia, risponde: – Non ti credo, e se fosse, sicuramente l’hai voluto tu – (mi continuo a chiedere senza riposo: è colpa mia?).Il panico non mi faceva respirare, mi sentivo sporca, mi sentivo un’idiota, mi sentivo la peggior cosa di questo mondo.Questa sensazione è durata ben 4 giorni dove non sono riuscita né a dormire, né a mangiare. Stavo sotto la doccia a lavarmi ogni singolo pezzo del mio corpo. Sperando che non fosse andata come immaginavo: non mi ricordo niente, io so che non volevo! E l’ho detto ! Sono stata chiara.Finalmente una mia amica che mi ha creduto fin dall’inizio, mi ha dato la forza di andare a un centro anti-violenza.Non è facile neanche questo processo, per esempio: in una situazione così solo vuoi rimuovere quel vissuto dalla tua vita ma l’unica cosa che fai è: ricordare mille volte cosa è successo,perché? Perché il medico legale te lo chiederà, la psicologa te lo chiederà, il ginecologo te lo chiederà, le infermiere te lo chiederanno, l’avvocato te lo chiederà, e non solo una volta ma al meno 2-3.Sapete, questo senso di colpa non sparisce, solo cresce ogni volta che torni a quel ricordo.Dopo tutta quella lunga e difficile procedura ricevo i risultati del test vaginale, positivo in spermatozoidi.La mia reazione non era più panico, non era più dubbio, era un dolore nel più profondo.Non ricordavo niente, se non la scena che vi ho citato ma nient’altro: la psicologa dice che è un meccanismo di difesa che ha imparato la mia mente.La storia può continuare per molte pagine, che sicuramente ancora devono essere vissute, tutto per la decisione di quella persona di fare qualcosa con il mio corpo quella notte.Chiedo dalla mia esperienza di fare attenzione a quello che si dice a una persona che si trova in una situazione del genere: sono stata trattata come una bugiarda, una puttana, una drammatica, un caso che magari è meglio non parlarne, una che quando dice no è si, una che se l’è cercata, una che magari è meglio escludere, una che si ubriaca quindi si può approfittare, e di molto peggio.Per favore, ascoltate: non è facile parlare, non è facile agire. È più facile che venga doppiamente vittimizzata una persona survivor (bullizzata) che venga capita. Condivido la mia esperienza per dire a chi leggerà della mia esperienza che se anche tu hai vissuto in una situazione del genere, non se da sol* ! Cerca dei professionali della salute e loro ti aiuteranno da un punto di vista più chiaro come agire nella tua situazione, per ogni aspetto».   ALICE CARBONARA

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Shall we clear the air? Dialoghi sul cambiamento climatico.

Shall we clear the air? Dialoghi sul cambiamento climatico.

Un momento decisivo nella lotta ai cambiamenti climatici.  Il 30 e 31 ottobre 2021 i leader del G20 si sono riuniti a Roma per un vertice di due giorni organizzato dalla presidenza italiana del G20. L'UE è stata rappresentata da Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, e da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. Durante questi due giorni  i leader hanno discusso di molteplici argomenti, tra cui il principale argomento di discussione è stato: la lotta ai cambiamenti climatici. Al termine del G20 i leader per quanto riguarda il tema della lotta ai cambiamenti climatici hanno convenuto di: Mantenere l'obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali; Accelerare le proprie azioni tese a conseguire zero emissioni nette di gas serra a livello mondiale oppure la neutralità carbonica entro la metà del secolo o intorno a tale data; Ribadire l'impegno dei paesi sviluppati in materia di finanziamenti per il clima che prevede la mobilitazione congiunta di 100 miliardi di USD l'anno e accogliere con favore nuovi impegni da parte di alcuni membri del G20. Vediamo ora i principali argomenti di discussione.   CLIMA ED ENERGIA I leader del G20 si sono impegnati a lavorare insieme per garantire il successo della conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP 26), iniziata a Glasgow (Regno Unito) il primo novembre subito dopo il vertice del G20. Hanno ribadito il loro impegno a favore della piena ed efficace attuazione della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) e dell'accordo di Parigi. I leader del G20 hanno osservato che per mantenere a portata di mano l'obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi saranno necessari un'azione e un impegno significativi ed effettivi da parte di tutti i paesi, tenendo conto dei differenti approcci.   BIODIVERSITA’ E AMBIENTE I leader del G20 si sono impegnati a intensificare le azioni tese ad arrestare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030. Si adopereranno per garantire che almeno il 30% della superficie globale e almeno il 30% degli oceani e dei mari globali siano conservati o protetti entro il 2030 e aiuteranno i membri a progredire nel raggiungimento di tale obiettivo in funzione delle circostanze nazionali. I leader hanno esortato altri paesi a unire le proprie forze a quelle del G20 per conseguire l'obiettivo indicativo di piantare mille miliardi di alberi entro il 2030, coinvolgendo il settore privato e la società civile.   SVILUPPO SOSTENIBILE I leader del G20 hanno espresso profonda preoccupazione in merito alle ripercussioni della crisi COVID-19, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Hanno riaffermato il loro impegno a favore di una risposta globale volta ad accelerare i progressi verso la realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenibile e a sostenere una ripresa sostenibile, inclusiva e resiliente in tutto il mondo. I leader si sono impegnati a intensificare le proprie azioni tese ad attuare il piano d'azione del G20 sull'agenda 2030 e il sostegno del G20 alla risposta e ripresa post-COVID-19 nei paesi in via di sviluppo. Hanno inoltre ribadito il loro costante sostegno ai paesi africani attraverso una serie di iniziative, quali il Patto del G20 con l'Africa. Viste le decisioni prese dai principali leader mondiali in occasione del G20, concentriamoci ora sulla conferenza di Glasgow detta anche COP 26, iniziata il primo novembre 2021, il giorno dopo la conclusione del G20.     CHE COS’E’ LA COP 26? La COP 26 è la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 2021. Da quasi tre decenni l’ONU riunisce quasi tutti i Paesi della terra per i vertici globali sul clima, chiamati COP, ovvero ”Conferenza delle Parti”.  La COP21 si tenne a Parigi nel 2015.  Per la prima volta successe qualcosa di epocale: tutti i Paesi accettarono di collaborare per limitare l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi, puntando a limitarlo a 1,5 gradi. Inoltre i Paesi si impegnarono ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi.  Nasceva così l’Accordo di Parigi.  I Paesi concordarono che ogni cinque anni avrebbero presentato un piano aggiornato che rifletteva la loro massima ambizione possibile in quel momento. Da allora il cambiamento climatico è passato dall’essere una questione marginale a diventare una priorità globale.  Quest’anno, proprio in questi giorni, si sta tenendo il 26 esimo vertice annuale, di qui il nome COP 26. La COP 26 quest’anno è presieduta dal Regno Unito che la ospita a Glasgow. In vista della COP 26 il Regno Unito ha lavorato con ciascun Paese per raggiungere un accordo su come affrontare i cambiamenti climatici. I leader mondiali che sono arrivati in Scozia sono più di 190. Ad essi si sono uniti migliaia di negoziatori, rappresentanti di governo, imprese e cittadini per dodici giorni di negoziati.   OBIETTIVI COP 26 Gli obiettivi principali della COP 26 possono essere riassunti in quattro punti, vediamo insieme quali sono: Assicurare lo zero netto di CO2 globale entro il 2050 e mantenere la temperatura globale a 1,5 gradi, rispetto ai livelli pre-industriali. Ai paesi viene chiesto di presentare ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas metano del 30% per il 2030 che si allineino con il raggiungimento dello zero netto entro la metà del secolo. Per raggiungere questi obiettivi ambiziosi, i paesi dovranno: Accelerare l'eliminazione graduale del carbone; Ridurre la deforestazione, cento nazioni al mondo, che rappresentano l’85% della superficie forestale globale hanno deciso che fermeranno la rotta della deforestazione; Accelerare il passaggio ai veicoli elettrici; Incoraggiare gli investimenti nelle rinnovabili. 2. Adattarsi per proteggere le comunità e gli habitat naturali. Il clima sta già cambiando e continuerà a cambiare anche se riduciamo le emissioni, con effetti devastanti. Alla COP 26 si è discusso di come lavorare insieme per consentire e incoraggiare i paesi colpiti dai cambiamenti climatici a: Proteggere e ripristinare gli ecosistemi; Costruire difese, sistemi di allarme e infrastrutture e agricoltura resilienti per evitare la perdita di case, mezzi di sussistenza e persino vite umane. 3.  Mobilitare la finanza. Per raggiungere i primi due obiettivi, i paesi sviluppati devono mantenere la loro promessa di mobilitare almeno 100 miliardi di dollari l'anno in finanziamenti per il clima, le istituzioni finanziarie internazionali devono fare la loro parte e bisogna lavorare per liberare i trilioni di finanziamenti del settore pubblico e privato necessari per garantire lo zero netto globale.    4. Collaborare. Si possono affrontare le sfide della crisi climatica solo lavorando insieme. La collaborazione tra governi, imprese e società civili è di fondamentale importanza per affrontare la crisi climatica. Cina e Stati Uniti in data 10 novembre hanno finalmente trovato intesa proprio alla COP 26 alla quale Xi Jinping non ha partecipato di persona, attirandosi le critiche di Joe Biden. Usa e Cina sono divise su molte questioni, ma sulla lotta al cambiamento climatico non hanno scelta, se non collaborare. Una svolta dopo la frenata di India e Arabia Saudita. Siamo ora alla resa dei conti, la fase finale della conferenza. Se all’inizio della conferenza per il clima, infatti, generalmente si esprimono buoni propositi e si valutano le basi su cui iniziare i lavori, nella seconda parte invece vanno prese le decisioni più difficili, e intraprese azioni politiche concrete. Si decide il come si raggiungeranno gli obiettivi preposti, si firmano accordi e si sceglie se renderli vincolanti. Alcuni di questi obiettivi sono già stati raggiunti, come l’accordo sulla deforestazione, già firmato da oltre cento paesi. Ma ora che si arriva alle battute finali anche sugli altri obiettivi, ecco arrivare alla Cop 26 scontri, disaccordi e problemi.   Una delle novità più importanti delle scorse ore è stata la presenza a Glasgow di Barack Obama. L’ex presidente degli Stati Uniti ha fatto un discorso molto apprezzato e commentato in cui tra le altre cose ha criticato il suo predecessore Donald Trump, per aver deciso unilateralmente di uscire dagli accordi di Parigi, e definito deludente l’assenza del presidente cinese Xi Jinping e di quello russo Vladimir Putin. Obama ha anche detto che i giovani hanno il diritto di essere arrabbiati. Tra le reazioni al discorso però ci sono state anche quelle critiche, di una parte importante dell’attivismo. Come l’ugandese Vanessa Nakate che, twittando un video di dodici anni fa di un discorso dello stesso Obama, ha sottolineato come le sue promesse di 100 miliardi di dollari per i finanziamenti alla transizione ecologica siano state disattese. Nakate ha anche lanciato un hashtag apposito, #ShowUsTheMoney, che fa eco a Greta Thunberg, secondo cui quelle dei politici sarebbero solo chiacchiere. Letteralmente, dei «bla bla bla». A questo proposito durante la COP 26 il 5 novembre è stata indetta dai Fridays For Future una manifestazione tra le strade di Glasgow dove c’erano più di 30.000 persone e il 6 novembre il Climate Day of Action dove si sono presentate 250.000 persone.   L’obiettivo del mantenimento delle temperature è raggiungibile? Difficile dirlo. Da una parte è vero che ormai i paesi che si sono impegnati a raggiungere la neutralità carbonica sono così tanti da equivalere al 90% dell’economia mondiale. Nel caso in cui tutti gli impegni recenti presi dalla comunità internazionale per la riduzione delle emissioni venissero rispettati allora si riuscirà a mantenere la temperatura terrestre a circa +1,8° rispetto ai livelli preindustriali. L’obiettivo di mantenerla entro i +1,5° sarebbe quindi disatteso, ma considerato che gli scienziati raccomandano un contenimento entro i +2° sarebbe comunque un’ottima notizia!   “Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d'arte che si possa desiderare.” Andy Warhol.   Grazie per aver letto l’articolo e alla prossima! Simona Danos

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Dismenorrea, non siamo fattə per soffrire

Dismenorrea, non siamo fattə per soffrire

Dismenorrea è il termine medico che indica i dolori associati al ciclo mestruale.Un dolore intenso, solitamente acuto o crampiforme, ma che può essere anche sordo e costante e può arrivare ad irradiarsi fino a cosce e schiena, è spesso associato a nausea, diarrea, vertigini e sudorazione intensa. Secondo l’OMS soffre di dismenorrea l’81% di chi ha il ciclo mestruale, con un picco durante l’adolescenza. Nonostante sia un disturbo molto comune spesso viene sottovalutato e ritenuto “normale”, qualcosa con cui imparare a convivere: hai un utero, devi soffrire, un mantra dal sapore biblico.Molto spesso, questi dolori, che insorgono qualche giorno prima dell’inizio delle mestruazioni e scompaiono dopo 2-3 giorni, sono di un’intensità tale da compromettere le attività della vita quotidiana. Secondo uno studio recente vengono persi circa nove giorni di lavoro o di studio l’anno a causa della dismenorrea e il problema è ancora più evidente durante l’adolescenza, quando la dismenorrea è molto comune. È facile immaginare come questo fattore influisca negativamente sullo studio e sul rendimento scolastico, relegando ancora una volta le persone che sperimentano l’esperienza delle mestruazioni in una posizione svantaggiata. I dolori legati al ciclo mestruale non devono arrivare a compromettere le attività della vita quotidiana: quando questo succede è necessario rivolgersi ad uno specialista che ci aiuterà a capire come tenere sotto controllo il dolore e studiare una terapia adatta a ciascunə di noi. Ma quali sono le cause della dismenorrea, perché proviamo dolore?Quando alla base del dolore non c’è una causa specifica si parla di dismenorrea primaria: in questo caso sono le prostaglandine, molecole associate all’infiammazione e prodotte dal nostro organismo, le responsabili di crampi e dolore. Si pensa che le prostaglandine e altri mediatori dell’infiammazione prodotti nell’endometrio stimolino le contrazioni uterine che, se prolungate, causano il restringimento dei vasi sanguigni riducendo l’apporto di ossigeno al tessuto. Se invece i sintomi sono legati a patologie dell’apparato riproduttivo come ad esempio endometriosi, adenomiosi, fibromi uterini, infezioni o stenosi della cervice uterina si tratta di dismenorrea secondaria, in cui i sintomi sono causati dalle anomalie pelviche. Come possiamo alleviare i sintomi?Sottolineando l’importanza e la necessità di rivolgersi ad un medico quando il dolore non è gestibile e influisce negativamente sulla nostra vita, ecco qualche rimedio che ci può aiutare a tenere sotto controllo i dolori della dismenorrea primaria (nel caso di dismenorrea secondaria la terapia più adatta dipende dalla patologia associata, e solo trattando quest'ultima è possibile eliminare o ridurre il dolore).L’attività fisica è una strategia altamente efficace per aiutare a controllare il dolore. Il movimento infatti fa produrre al nostro organismo le endorfine, un potentissimo analgesico naturale.Anche una dieta sana, ricca di alimenti antinfiammatori come pesce azzurro, semi oleosi, prodotti freschi e poco raffinati e a basso contenuto di zuccheri, come la carne lavorata, l'alcool e i conservanti, può rappresentare un valido alleato per ridurre la produzione di prostaglandine.Può essere utile ricorrere ad un supplemento di magnesio in fase pre-mestruale, che aiuta a ridurre gonfiore e spasmi muscolari. Così come altre sostanze naturali quali angelica, lavanda e camomilla possono alleviare crampi, dolore e aiutare il rilassamento, così come massaggi circolari al basso ventre, una borsa dell’acqua calda, esercizi di allungamento, posizioni yoga e tecniche di meditazione e respirazione.Tra i farmaci da banco più utilizzati ci sono i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei), che bloccano la produzione di prostaglandine riducendo così il dolore. Anche la pillola anticoncezionale, o altre terapie ormonali a basso dosaggio, possono alleviare i dolori riducendo l’intensità degli spasmi dell’utero. Il nostro medico saprà indicarci la terapia farmacologica più adatta a noi. Ricordiamoci che il ciclo mestruale non deve influenzare negativamente la qualità della vita, ostacolare i successi personali e il raggiungimento dei nostri sogni! BEATRICE UGUAGLIATI pic via anishaspice

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Cistite: conoscere per prevenirla

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Cistite, un fastidioso disturbo che tende a ripresentarsi in autunno, complici i primi freddi e l’abbassamento delle difese immunitarie. Proviamo a conoscerla meglio per capire come prevenirla.

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Monetizziamo il nostro grande amore: le relazioni nel XXI secolo

Monetizziamo il nostro grande amore: le relazioni nel XXI secolo

Tinder monetizza! Non è uno slogan, né un'accusa particolare, ma soltanto l'ultima notizia che riguarda quella che è la più celebre – ci sembra – app di incontri. Tinder monetizza, dicevamo, ovvero: la piattaforma introdurrà una moneta virtuale per consentire agli utenti di comprare una maggiore visibilità del proprio profilo, aumentando di conseguenza le possibilità di incontrare altre persone. Il funzionamento è abbastanza semplice, e lo ha raccontato recentemente Daniele Monaco in un pezzo per Wired: «Lo strumento ideato dall’app di appuntamenti romantici per favorire la propensione degli utenti a spendere è una nuova moneta virtuale che sarà utilizzabile solo all’interno dell’applicazione stessa. Il principio è semplice: i gettoni digitali potranno essere acquisiti nella misura in cui gli utenti restano attivi sulla piattaforma o mantengono aggiornato il profilo, ma potranno anche essere scambiati con il denaro reale». Una sorta di economia interna all'app, dunque, che dipende molto dalla frequenza con cui la si usa e che permette una serie di funzioni avanzate, dal Super like, che consente di far conoscere all'altra persona il proprio interesse, al boost, che comporta una maggiore visibilità del proprio profilo, appunto. Di per sé, che Tinder cominci a monetizzare non stupisce più di tanto (chi non lo fa, oggi?); piuttosto la notizia si porta appresso una serie di implicazioni morali, o etiche, destinate a far discutere. L'amore, già offeso dalla sua controparte tecnologica – l'app d'incontri – si vede ora totalmente snaturato dalla sua commercializzazione. In parole povere: pagando, hai più possibilità di trovare la persona giusta. Il dilemma etico è facile da intendere anche per i più progressisti: non è forse meglio cercare l'amore in maniera tradizionale, come i nostri padri e i loro padri prima ancora? Forse. Forse no. Insomma, non c'è una risposta – e anche ci fosse, noi non la conosciamo. Il discorso, però, è un altro, molto più pratico: Tinder comincia a monetizzare perché Tinder è usato. E parecchio anche. Durante i mesi della pandemia la piattaforma ha visto crescere a dismisura i propri utenti, e anche ora le cifre non sembrano calare più di tanto. Le persone alla ricerca di un partner, di un'avventura o anche solo mosse dalla curiosità entrano a far parte di quel sistema digitale che sempre più fa parte della nostra quotidianità. E pensare che fino a qualche anno fa i siti di incontri – ricorderete forse il tanto pubblicizzato Meetic – non erano visti altro che come l'ultima speranza di uomini e donne già senza speranza. Oggi le cose sono diverse, anche se non del tutto. La popolarità delle app di incontri – di Tinder, certo, ma anche di servizi come Grindr – ha condotto queste ultime sotto un'ottima luce. Godono di una buona reputazione, insomma. Ma solo se – e questo è il nodo – solo se usate per avere rapporti occasionali. Chiunque di noi ha già sentito millantare da qualche bocca orgogliosa l'innominabile tipa di Tinder. Che poi sarebbe la ragazza con cui si è usciti dopo il match sull'app e con cui, una cosa tira l'altra, si è combinato qualcosa. Bene. Meno orgoglio si prova, invece, quando con la persona conosciuta online comincia una relazione seria. E capita. Sempre di più. Eppure c'è una certa premura ad annunciare ad amici e parenti (soprattutto parenti) il non-luogo dove si è conosciut* l'altr*. Si cerca una giustificazione, oppure si ridacchia e si dice qualcosa del tipo: «Eh, su Tinder... ma non so come sia successo!». Tendiamo a mettere le mani avanti, a scusarci con l'altro per aver trovato l'amore su una piattaforma il cui unico utilizzo accettabile è quello degli incontri occasionali. D'altra parte, non sono certo clementi i bisbiglii divertiti di certe persone quando scoprono che un* loro vecchi* amic* ha iniziato una relazione in quel modo. Ma insomma, perché? Pare – pare – che inconsciamente concediamo una maggiore libertà, un più ampio progressismo, al sesso occasionale che non alla relazione amorosa. Questa, nonostante i tempi che viviamo e le battaglie che abbiamo combattuto, resta come inevitabilmente ancorato al passato. Non si vuole, dicendo ciò, sconfessare la tradizione in nome di un progresso a tutti i costi, naturalmente. Soltanto, ci sembra opportuno scrollarci di dosso anche questo pregiudizio. L'amore è amore, insomma, che lo si trovi su Tinder o al parco, ciò che conta è la relazione che si costruisce insieme. L'inizio di questa, in fondo, non è altro che un bell'aneddoto da ricordare ogni tanto con un sorriso. Senza pregiudizi o stigmi di sorta. ENRICO PONZIO

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