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Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto

LA MIA AMENORREA

LA MIA AMENORREA

Sono passati già 4 anni, e credo che non potrei mai più raccontare una parte della mia storia se non ci aggiungessi, ora come ora, le riflessioni fatte durante questo tempo trascorso. Tempo che mi è servito per capire e per imparare da, probabilmente, la lezione più dura che abbia mai ricevuto in vita mia.Non parlo spesso di quando ero ammalata di anoressia e per quanto, di conseguenza, non ho avuto le mestruazioni. Ed è qui che voi direte: ma come non ne parli? e i libri? i tuoi speech? Quando scrivo, entro in una zona protetta, mi rifugio dietro a semplici pagine con la convinzione che queste possano coprirmi, difendermi, nascondermi, da quel mostro chiamato giudizio o, peggio ancora, dalla più totale indifferenza. La stessa cosa vale nel momento in cui decido di fare uno speech, ritrovandomi ad accettare l’incarico solo se svolto in situazioni confortevoli che possano farmi sentire “protetta” dalle stesse parole che decido di usare e, a dirla tutta, dalle persone. In modo che, quello che decido di raccontare, possa essere ascoltato solo da chi ha veramente voglia di sedermi accanto, lasciandomi raccontare. Persi le mestruazioni dopo pochi mesi di malattia. Non ero assolutamente consapevole di soffrire di anoressia nervosa, e per quanto avessi sempre desiderato avere le mestruazioni, per sentirmi più donna nel senso più etimologico del termine, quell’assenza improvvisa di vita non mi turbò affatto. L’anoressia mi aveva completamente infettato la mente, perciò conclusi il tutto con un semplice “eh, vabbè.. niente più dolore e rotture, tanto i figli non li voglio”. Accade qualcosa di strano, quando sei anoressica. Il tuo corpo “deve” adattarsi alla tua rigidità mentale, non è altro che una cosa da sistemare, il punto numero 1 di una lista senza fine appesa al frigorifero, un imprevisto visibile che ti impedisce di essere quella che vorresti: mentalmente leggera. Come se il peso del nostro corpo, in quel momento, potesse definire quella pesantezza dell’anima che si tenta in tutti i modi di alleviare. Come se non fosse altro che una ricerca distorta e disperata di una libertà e un’ indipendenza che sembra andare ben oltre quelle semplici linee che definiscono la forma del nostro corpo. Fu per questo che fui quasi felice di non avere più alcun legame con quella Valentina “pesante” di cui volevo disfarmi da tempo, celebrando la fine biologica di qualcosa che avevo definito male, che avevo sempre visto come un impedimento e non come un segno della salute del mio corpo e, di conseguenza, della mia mente. Volevo sentirmi diversa dalle altre donne, da tutte le altre persone, dimostrando a me stessa che la mia forza di volontà avrebbe potuto fermare ogni flusso naturale della vita. Volevo sentirmi potente. E mi ci sentii. E così, il mio universo si sdoppiò. La realtà mi diceva: “se non hai più le mestruazioni significa che c’è qualcosa che non va. Chiama il dottore” ma la mia mente gridava: “Sta andando tutto come deve andare”. Fu il primo segnale che il mio corpo cercò disperatamente di inviarmi, fu il primo cartello ad indicarmi che, purtroppo, mi ero persa. Se le mestruazioni, nell’immaginario comune, denotano anche un senso di forte appartenenza al gruppo delle donne (cosa che non condivido), io non ne volevo assolutamente fare parte. Non mi ero mai sentita accettata da loro e desideravo, inconsciamente, scostarmi dalle stesse ma soprattutto da quell’idea stereotipata del femminile che, ancora oggi, tende a perseguitarci. Come se l’assenza del ciclo, potesse aiutarmi a farmi sentire così, libera dal sessismo degli uomini ma anche da quello delle donne. Come se, l’assenza del ciclo, potesse proteggermi dalla sessualizzazione e oggettificazione continua che subivo (e subisco) continuamente dagli uomini. Come se, l’assenza del ciclo e il raggiungimento di un corpo di bambina potesse rendermi indifferente a quello sguardo famelico maschile che riusciva a distruggere la mia anima e la mia persona. E, allo stesso tempo, potesse rendermi libera dallo sguardo invidioso e sprezzante delle altre donne. Godevo di un vuoto colmo di rabbia che mi ero minuziosamente creata per riuscire a sopravvivere a qualcosa di reale ma più grande di me, a qualcosa sul quale non potevo avere controllo, qualcosa che mi stava letteralmente divorando dentro. Qualcosa di cui, in realtà, non avevo colpa. “Io non sono più niente, quindi appartengo al vuoto, a quello che non c’è e che non esiste e, di conseguenza, in questo vuoto, devo crearmi una tana nella quale sopravvivere”. Scelsi inconsciamente la via della morte, dopo essere stata rifiutata ripetutamente dalla vita. Ricordo molto bene il giorno in cui mi tornarono le mestruazioni. Era estate, la stagione che odio di più in assoluto. Mi svegliai nella Residenza nella quale ero stata ricoverata molti mesi prima, totalmente ignara che, poco dopo, qualcosa di inaspettato avrebbe nuovamente cambiato il corso degli eventi. Il mio corpo stava di nuovo parlando, dopo tre lunghi anni di silenzio. Quella percentuale di malattia ancora presente nel mio corpo andò completamente fuori controllo ed io ebbi una delle più grandi crisi isteriche della mia vita. Non ero ancora del tutto guarita e accettare che il mio corpo si stesse riprendendo (e quindi tutto quel bagaglio psicologico che ho descritto prima) fu una pessima notizia per il mio disturbo alimentare. Ricordo la nutrizionista sorpresa e sorridente, incapace di nascondere le bellezza di quel momento che io vivevo con feroce rabbia. Fu anche stavolta, il ciclo, il primo segnale che il mio corpo decise di inviarmi per comunicarmi la sua volontà di rinascere, la sua volontà di fidarsi nuovamente di me, di essere pronto a riportarmi tutto quello che avevo tentato di nascondere. Fu il primo mattone visibile che la realtà decise di mettere tra me e la malattia. Mattone che fu di vitale importanza nella costruzione di quel grande muro che ancora oggi mi divide da ciò che è stato. Dalle mie paure e dai miei tormenti. Ritornare alla vita significa affrontare tutto quello che si è tentato in tutti i modi di soffocare, riappropriarsi di quel riflesso donato alle persone sbagliate. Riprendere il pieno possesso della propria vera identità, prendersi cura della propria salute, rinunciare a quell’irraggiungibile perfezione mentale e fisica che questo disturbo ti obbliga ad ottenere. Non potrei negare che quest’esperienza mi abbia cambiata nel profondo, e forse non smetterò mai di analizzarla comprendendo sempre più a fondo le diverse sfaccettature e dietrologie psicologiche che ruotano attorno a questo genere di malattie. Ma una cosa la so. E’ riuscita a svegliarmi, a rendermi molto più connessa alla realtà, alle altre persone che hanno passato situazioni simili alle mie, ai problemi che questa cultura causa alle persone più sensibili e, infine, sorpresa… alle donne. Grazie a questo ho imparato a sentirmi donna, ma donna davvero. Indipendentemente dalle mie forme, dal mio peso, dalle mie mestruazioni. Donna nel coraggio di lottare per la sopravvivenza, donna nella voglia di raccontarlo e sensibilizzarlo, donna nell’affrontare la realtà, donna nel pianto e nello sconforto, donna nella resilienza, donna nell’aiutare e aiutarsi, donna nella sorellanza e nell’empatia, donna nella ribellione e nella ricerca della verità. Donna nell’anima e non solo nel corpo. Donna dentro e nel profondo. Donna e basta. N.B. Questo articolo è relativo ala mia esperienza. Se stai vivendo un disturbo alimentare e sei in cura, non è detto che le mestruazioni tornino sempre autonomamente. Questo non significa che il tuo corpo non si fida di te, ma è tutto molto soggettivo e relativo ai dettagli del disturbo alimentare stesso (da quanto tempo ne soffri, come, eccetera). In alcuni casi, sotto scelta dei dottori supervisori, il ciclo viene stimolato non appena il fisico e la mente sono pronti per tornare alla vita. Non ci sono regole, ovviamente. Quindi nessun caso è “sbagliato”. - Be patient, take care, keep go on and never give up. :) VALENTINA DALLARI

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Il tempo delle donne

Il tempo delle donne

Quante cose si possono fare in 100 anni per le donne?   Quante cose si possono fare in 100 anni? Moltissime. Eppure sembriamo non accorgerci di ciò che accade - ogni attimo - intorno a noi e di quanto peso abbia il tempo sulle nostre vite, soprattutto su quelle delle donne. Perché mentre il mondo fuori corre spasmodicamente, compiendo più azioni possibili secondo per secondo, per le donne il tempo segue un paradigma diverso e forse, leggendo questo, avrete più chiaro il perché.   In 1 secondo un’ape sbatte le ali 230 volte In 1 minuto 6000 fulmini colpiscono in media la terra In 5 minuti vengono tagliati 10.200 alberi dalla foresta pluviale In 20 minuti 8.400 nuovi utenti si iscrivono a Facebook In 1 ora 108.000 stelle esplodono In 1 giorno 120.000 persone fanno sesso In 1 settimana 3 donne, in media, vengono uccise In 10 giorni 960 donne subiscono violenza In 30 giorni la Luna si allinea nuovamente con il Sole e la Terra In 90 giorni si fanno in media 450 match su Tinder In 100 giorni nel mondo si consumano circa 1.497.600.000 lattine di Coca Cola In 9 mesi la vita umana si forma nel grembo materno In 365 giorni vengono prodotti in media 1.279.502.956.800 kg di immondizia In 22 mesi un’elefantessa porta a termine la sua gravidanza In 2 anni si riversano 199.307.520.000 tonnellate d’acqua nelle Cascate del Niagara In 35 anni una donna affronta circa 420 cicli mestruali In 40 anni di fertilità una donna consuma 11.500 assorbenti In 48 anni le donne hanno ottenuto una legge che depenalizza l’aborto In 50 anni le donne hanno ottenuto l’approvazione della legge che vieta il licenziamento fino al primo anno del bambino In 72 anni e 110 giorni una donna ha tenuto in piedi uno dei regni più longevi della storia della monarchia In 85 anni le donne hanno ottenuto il diritto al voto In 92 anni le donne hanno ottenuto l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore In 132 anni (forse) il divario globale tra i sessi sarà colmato.   EMILIA BIFANO

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Artiste e basta

Artiste e basta

L’arte al di là del genere. Non c’è bisogno di numeri o particolare dimostrazioni per dire che la storia dell’arte – l’arte nel senso più lato del termine – conta in prevalenza artisti maschi. È un dato di fatto. Basta pensare a qualunque nostro testo di scuola, dalla storia dell’arte alla letteratura (ma il campo potrebbe allargarsi) per renderci conto che la maggior parte dei nomi che saltano all’occhio, se non tutti, sono nomi di uomini. Bianchi. Non si tratta della solita retorica lamentevole del maschio-bianco-etero-cis che ha monopolizzato un settore della nostra società, e naturalmente – al di là dei gusti personali – i nomi che sono scritti con caratteri cubitali in quei libri è legittimo che stiano lì, ma, in fin dei conti, il nostro punto di vista è effettivamente distorto da una cultura patriarcale bianca (del maschio-bianco-etero-cis eccetera). Ci siamo cascat* di nuovo. Scusate. Naturalmente, il fatto che siano più i maschi consacrati nell’olimpo della nostra storia artistica non significa che le donne non sapessero farla; ma allora perché non ci sono state grandi artiste donne? È la domanda che si era posta, in tempi non sospetti, la storica dell’arte Linda Nochlin nel suo saggio forse più famoso, Why have there been no great women artists?, pubblicato sulla rivista “ARTnews” nel 1971. Nochlin scrive in tempi, gli anni Settanta, in cui la teoria femminista muoveva i suoi primi passi (dopo i primordi del primo Novecento), e decostruisce in maniera interessante il concetto stesso di “genio artistico”, troppo basato su strutture sociali e istituzionali severamente chiuse entro schemi precisi, che hanno contribuito alla costruzione di pregiudizi sociali misogini difficili da superare (le donne non possono fare arte, in poche parole). Non solo: fino all’inizio del Novecento l’istruzione artistica è stata riservata esclusivamente a studenti maschi, creando così un gender-gap notevole nella formazione individuale e nel successo artistico. La donna insomma, e lo sappiamo bene, è stata educata per altro: per essere una madre, una gentildonna, l’angelo del focolare. Non certo per permettersi tali velleità. Nochlin, in poche parole, cerca di andare al di là del concetto di opera d’arte come produzione tutta individuale figlia del genio – idea piuttosto romantica e datata, in effetti – e la interpreta piuttosto come profondamente determinata dalle strutture sociali e dalle istituzioni (le accademie, maschili, il canone, maschile). In una condizione simile, il ruolo della donna-artista era destinato a scomparire in quella stessa società maschilista e patriarcale che per secoli, e in parte ancora oggi, tutto divora e tutto omologa, stabilendo il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto. Dagli anni Settanta, sì, le cose sono cambiate: lo ammette Linda Nochlin stessa, che nel 2001, in occasione del trentennale del saggio, ne ha pubblicato una versione aggiornata dove riflette dei cambiamenti e della strada percorsa da allora, della maggiore inclusività dell’arte e dell’emancipazione dell’opera dal genere dell’artista. Il problema generale, comunque, è di percezione sociale: siamo abituati a immaginare l’artista – il pittore, lo scrittore, il musicista – come a un uomo, e ogni volta che ci interfacciamo con un’artista donna lo facciamo stupiti, concentrandoci sul fatto che sia una donna, e non sull’opera d’arte in sé. Diventa celebre l’artista in quanto tale, meno il suo lavoro (il caso di Frida Kahlo è piuttosto emblematico). Nella letteratura succedeva – ma la percezione è che capiti ancora – una cosa simile. La scrittrice ha sempre avuto bisogno, agli occhi del pubblico, di una giustificazione della scrittura. Una storia personale particolarmente travagliata, una violenza subita: il lavoro veniva ricondotto, anche dai critici, a pura testimonianza. Il testo lo si pubblica, sì, ma per un motivo specifico. Quando Sibilla Aleramo scrisse Una donna, pubblicato nel 1906, la critica letteraria lo accettò e riconobbe in quanto testimonianza autobiografica e, poi, come riflessione (proto)femminista. L’autobiografia c’è, è vero, e ha un grosso peso nella genesi dell’opera, così come ci sono le riflessioni di stampo femminista, ma innanzitutto quel libro è un romanzo, un’opera d’arte! La verità, allora, è che abbiamo sempre faticato, e in un certo senso fatichiamo ancora, ad accettare che una donna possa essere un’artista, che il suo lavoro valga al di là del genere; e non è più lodevole in quanto donna, perché ci siamo anche stufati di accettare la retorica (tutta maschile) del bel lavoro compiuto da una donna. Come a dire, incredibile!, non solo è un bel lavoro, ma l’ha anche fatto una donna! E il tutto condito con le solite frasi di circostanza, appellativi ed epiteti infantilizzanti quali “la reginetta del romanzo” o simili, perché per quanto pronunciati in buona fede continuano a sminuire il lavoro della persona, che nulla ha a che vedere con il genere. Accettiamo, una volta per tutte, la possibilità di essere artiste, al di là di ogni altra implicazione, solo artiste. Artiste e basta.   ENRICO PONZIO

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Un viaggio all’interno della fibromialgia

Un viaggio all’interno della fibromialgia

Il racconto di Susinaandfriends (che racchiude quello di molte altre persone) Quanto conosciamo e comprendiamo la fibromialgia? Personalmente, ne sapevo molto poco, non tanto per la sua sintomatologia, che si può conoscere facendo una rapida ricerca su Google, ma per quanto subdolamente e invisibilmente si intrufola nella vita di chi ne soffre. Così, mi ritrovo un giorno su Instagram a digitare la parola fibromialgia, e mi ritrovo davanti un account avente come immagine del profilo una simpatica susina sorridente. Dietro la susina viola (@susinaandfriends) si cela Susanna, una ragazza di 28 anni che ha deciso di parlare senza filtri della sua malattia (e non solo) e di diventare un’attivista entrando a far parte del  Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo. Un piacevole dialogo che mi ha aperto gli occhi su un mondo che dovremmo tutti esplorare.   Quando hai iniziato ad avere i primi sintomi legati alla fibromialgia? Ho iniziato ad avere i primi sintomi di quella che ora so chiamarsi fibromialgia a 19 anni circa. Mal di testa sempre più frequenti, disturbi gastrici, intolleranze alimentari, una strana stanchezza dal risveglio, un dolore senza spiegazioni alla spalla, poi al collo, poi sempre più diffuso. Sono arrivata alla diagnosi a 26 anni, dopo due anni di disturbi invalidanti e dolori ormai diffusi in tutto il corpo.     Hai pensato che fosse fibromialgia anche prima della diagnosi ufficiale? Non conoscevo neanche l’esistenza di questa malattia. Ne ho sentito parlare per la prima volta nel bel mezzo di un fine settimana a base di Netflix e pisolini sul divano, quando il mio dito ha premuto play sul documentario “Gaga: five foot two” che segue la superstar Lady Gaga mentre lancia il suo nuovo album e si prepara per l’esibizione durante il Super Bowl. L’aspetto umano dell’artista è rappresentato in maniera straordinaria, lasciando intravedere anche le debolezze e le difficoltà dovute alla malattia che la affligge da anni. Stiamo ovviamente parlando della Fibromialgia. Sono bastati 10 minuti o poco più per realizzare che quella cosa che stavo vedendo sullo schermo era anche la “mia cosa”. A quel punto ho deciso di fidarmi del mio istinto e di andare da un reumatologo (anzi in realtà da un paio). È così mi sono ritrovata con in mano la diagnosi di sindrome fibromialgica scritta nero su bianco.   Quali sono, secondo la tua esperienza e quella altrui, i sintomi che non bisogna sottovalutare? Il principio fondamentale, che non vale solo per la fibromialgia, è che il dolore va sempre ascoltato e indagato. Purtroppo, l’invalidazione del dolore, soprattutto delle persone assegnate femmina alla nascita, è una problematica sistemica ancora tristemente attuale.   Susina, che impatto ha avuto la fibromialgia sulla tua vita e sulle tue relazioni? A livello di relazioni non ho avuto particolari difficoltà. Sicuramente in questo ha aiutato la mia predisposizione nel raccontarmi, aprirmi e confrontarmi con le altre persone. Non è sempre facile e non lo è per tutti: non essere capiti, non trovare sostegno ed empatia nelle altre persone può portare a chiudersi in sé stessi, aumentando il senso di solitudine e di esclusione dalla vita sociale ritenuta “standard”, basata sulla mitizzazione del corpo umano come macchina perfetta e valutata nella sua produttività. Mi sono scontrata anche io con questo senso di inadeguatezza rispetto a quello che la società si aspettava da me e al percorso che io stessa avevo scelto per il mio futuro. Ho dovuto mettere in discussione il mio stile di vita e adattarlo alle mie nuove esigenze, trovare un nuovo equilibrio e cambiare il percorso lavorativo che avevo intrapreso.   La malattia ti ha comportato dei problemi anche dal punto di vista del ciclo mestruale? Il dolore per chi soffre di fibromialgia non è costante, oscilla nel tempo in base a condizioni esterne (ad esempio i cambi di stagioni) ma anche alle condizioni e attività della singola persona. Per questo motivo anche l’andamento del ciclo mestruale influenza il dolore che, nei giorni delle mestruazioni, diventa davvero difficile da tollerare.   Come nasce il progetto Susina and friends? Quando ho ricevuto la diagnosi ho iniziato a fare ricerche nel web e mi sono accorta che la narrazione della fibromialgia era spesso vittimistica e riferita a un target di persone over 40.  Così ho deciso di raccontare la malattia dal punto di vista di una ragazza di 25 anni con tanta voglia di scherzare, ridere e divertirsi con gli amici. Il racconto della malattia è utile a farla conoscere a più persone possibile ma è stato anche un atto terapeutico per me stessa, oltre ad avermi dato la possibilità di confrontarmi con molte persone nella mia stessa condizione e ritrovarmi in una meravigliosa rete di sostegno reciproco e disinteressato.     Com’è avvenuto l’incontro col Comitato per la vulvodinia e la neuropatia del pudendo? Nell’ottobre del 2021, con Non Una di Meno, abbiamo portato nelle piazze italiane le testimonianze di tant3 che, come me, soffrono di malattie invisibilizzate, ovvero non riconosciute dal SSN Italiano. Si tratta di fibromialgia, endometriosi, adenomiosi, vulvodinia e neuropatia del pudendo. In questa occasione ho conosciuto alcune delle persone che adesso, insieme a me, sono parte del Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, associazione che si batte per il riconoscimento di queste due malattie. Mi sono subito ritrovata nella loro determinazione e voglia di fare qualcosa di concreto per cambiare le cose e ho deciso di intraprendere questo percorso di attivismo insieme a loro.   Susina, pensi vi sia ancora molto pregiudizio nei confronti di questa malattia? Purtroppo, il pregiudizio su questa malattia è ancora molto presente, anche nella stessa classe medica. Il dolore è un campo di ricerca estremamente complesso, le cui dinamiche sono in gran parte sconosciute. Il dolore femminile viene normalizzato, come se le donne fossero destinate a soffrire e sopportare: anche questa è una forma di discriminazione di genere.   In che modo potremmo fare per bene dell’attivismo affinché  la fibromialgia venga riconosciuta come malattia invalidante? Dobbiamo fare lo sforzo di eliminare la lente abilista, la convinzione che tutte le persone siano sane e considerare «eccezione» tutte le persone che non lo sono. Dobbiamo imparare ad assumere come unico atteggiamento possibile in risposta al dolore altrui quello dell’“Io ti credo”. Dobbiamo usare la nostra voce per diffondere i messaggi di lotta altrui, sostenere le reciproche battaglie: i diritti non si dividono, non sono fette di una torta, i diritti si creano e ce ne sono per tutti.   Antonella Patalano

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Vivere il tabù mestruale

Vivere il tabù mestruale

Ricordo molto bene il giorno in cui arrivarono le mie prime mestruazioni. Avevo 15 anni e tanta voglia di sentirmi, finalmente, una donna. Era una domenica, e com’ero solita a fare in questa giornata, stavo giocando un’importante partita di pallavolo. Me la cavai piuttosto bene e riuscimmo a portare a casa la vittoria. Per raccontare questa breve storia, però, dovrei partire dal contesto. E il contesto era un po’ diverso da quello che si potrebbe immaginare. Non mi sono mai sentita veramente parte della mia squadra. Di nessuna squadra. Ero timida ma verace, e in campo ero molto severa. Sia con me stessa, che con gli altri. La vittoria, per me, ha sempre simboleggiato un senso di rivalsa. In quel caso sull’avversario. Volevo vincere non per dimostrare di essere forte, ma per dimostrare a me stessa e alle avversarie che anch’io meritavo di essere in quello stesso posto. Che, in qualche modo, eravamo uguali. Che il mio impegno, anche se avessimo perso, sarebbe stato all’altezza del loro. Perché era lo stesso e identico. “Siamo comunque uguali”. Con il senno di poi, non mi è difficile capire che stavo inconsciamente cercando un posto, un luogo, una situazione della quale sentirmi fisicamente parte. La stessa cosa, infatti, accadeva già tre volte a settimana nello spogliatoio della palestra. I miei occhi vedevano costantemente le mie compagne svestite, nude, a proprio agio nel loro corpo formoso, lavarsi una accanto all’altra. Parlavano di ragazzi e di mestruazioni; si scambiavano assorbenti. Ero l’unica delle ragazze a non avere avuto ancora “il ciclo”, a non avere ancora un briciolo di seno o di forme. Ero ancora nelle sembianze di una bambina sebbene, dentro, non lo fossi affatto. Il mio corpo acerbo e il mio sviluppo ritardatario rappresentavano, ai miei occhi di ragazzina in quella fase difficile dell’adolescenza, un ostacolo verso quell’accettazione, quel senso di partecipazione e di “vittoria” sopracitato che volevo provare nei confronti delle mie compagne. Al di fuori di quella rete e di quella palla bianca, noi non eravamo affatto uguali. Nemmeno l’argomento “ragazzi” riusciva a farmi uscire dal mio guscio. Dopotutto, la mia forte timidezza e la mia bassa autostima non mi aiutavano di certo nell’approccio spesso disastroso che avevo con l’altro sesso. E, uscire allo scoperto, mi avrebbe fatto sentire giudicata. Cosa che, sicuramente, sarebbe poi accaduta. E così, lo ammetto, iniziai a mentire. Non fu affatto una cosa studiata, successe e basta. Facevo finta di avere le mestruazioni anch’io, dilettandomi nel raccontare qualche breve aneddoto che avevo sentito dire da mia sorella in giro per casa. Mentire, però, non funzionò ugualmente. Perché, arrivata a quel punto, mi sentivo molto più impostore che bambina. E quindi sì, ricordo perfettamente il giorno in cui ebbi la menarca, perché una felicità e un senso di sollievo invase tutto il mio corpo. Rimasi così, incantata e sorpresa, mentre osservavo le mutande abbassate sulle mie ginocchiere e sui miei calzettoni da partita. Toccava, finalmente, a me. Avevo vinto, ma vinto davvero. Improvvisamente, ero “diventata" una donna.   Questa storia, in realtà, raccontandola a distanza di tanti anni e di tanti cicli mestruali, mi ha dato grandi spunti di riflessione. Penso al mio punto di vista, quello che vi ho appena spiegato, a quella celebrazione che è stata per me il mio ciclo mestruale e poi, però, penso a quell’alone di tabù che circonda questo evento naturale e fisiologico che investe ogni donna in età fertile e che spesso, dalla società, viene visto come qualcosa di impuro e minaccioso. Come, citando alcune frasi che ho sentito dire durante la mia vita, “qualcosa di cui non potersi fidare. Sanguina 5 giorni al mese e non muore mai”. Ricordo bene mia madre, dopo l’arrivo delle mestruazioni, rammentarmi di non dirlo assolutamente mai ad alta voce se fossi stata in “quel momento”. Ricordo gli assorbenti nascosti nelle maniche del maglione quando si chiedeva al professore il permesso di andare in bagno, oppure, attualmente, i diversi “shhhhh!” che mi tuonano le mie conoscenti quando dico a voce alta : “Ce l’hai un assorbente?”. Non sono una sociologa esperta e nemmeno una grande intellettuale. Nel corso degli anni e sopratutto crescendo, ho iniziato a notare cose che prima mi era difficile vedere. Vuoi un po’ la cultura con la quale siamo sempre stati cresciuti, vuoi un po’ la società, sua conseguenza, adagiata e creata su schemi ripetitivi e difficilmente influenzabili rispetto ai cambiamenti sociali e storici in atto. Ho sempre pensato che la donna con le mestruazioni fosse vista come una persona “fuori controllo”. Inerme, in preda a un tempesta ormonale che la rende cattiva, pericolosa, nervosa. Fragile. Come se non potesse essere in grado di controllare il proprio corpo.  Come se fosse una sua scelta, un “disturbo”, una sua debolezza e non un fattore fisiologicamente normale. Come se, in quei giorni, fosse in una situazione fisica ed emotiva di cui vergognarsi, da nascondere, in grado di trasformare “la più pura e accomodante donna” in un mostro cattivo e sessualmente impuro. Sarà per questo, chissà, che durante la gravidanza, e quindi in assenza delle mestruazioni, la donna viene sempre adorata e venerata. Viene definita più bella, radiosa, più calma. Più pura. Come se, in qualche modo, potessimo essere definite così solo in quanto madri o in procinto di diventarlo. Tempo fa, inciampai in un articolo molto interessante. La giornalista, ovviamente, era una donna e riportava alcuni estratti del libro di Giuliana Sgrena “Dio odia le donne”. Riassumeva, in 5 minuti di lettura, la visione delle mestruazioni femminili secondo le religioni sparse per mondo le quali, nei secoli, hanno contribuito a rafforzare l’idea secondo cui le donne sono “colpevoli” di avere le mestruazioni andando poi così ad aumentare lo stigma femminile condannandole, appunto, all’isolamento e alla vergogna. Se ne para nel Corano, nell’Ebraismo, l’Induismo fino ad arrivare al Cristianesimo. E considerato quanto impatto abbiano ancora le religioni sulla nostra cultura, questa ricerca fa a dir poco rabbrividire tanto quanto fornisce una serie di risposte a modelli comportamentali patriarcali  ormai fortemente radicati. D’altronde, qualche mese fa, quando chiesi al mio allenatore come si organizzavano le atlete femminili professioniste durante le competizioni importanti qualora avessero avuto il ciclo mestruale, davanti alla mia pura curiosità mi sentii rispondere (non da lui) : “Noi uomini, invece, siamo sempre pronti”. Come se, appunto, fosse una debolezza e una scelta, qualcosa che mi rende ancora più fragile agli occhi di una categoria di uomo, lo stesso che, per avvalorare questa tesi, è contrario al congedo mestruale. Perché: Non puoi avere “trattamenti” extra che io non posso avere. E, dato che ti lamenti, comprati pure i tuoi assorbenti (ormai beni di lusso), dato che non te li riconoscerò mai come beni essenziali.   Detto questo, ho voluto iniziare questo articolo con la mia storia perché, a distanza di tempo, la porto ancora nel cuore. Per mettere in contrasto la netta differenza che vi è tra vivere le mestruazioni, nel bene e nel male, e parlare, senza sapere, di mestruazioni. Per non vederle solo come evento, ma anche come componente psicologica, senso di appartenenza. Penso che, in qualche modo, discutere liberamente di queste possa normalizzarle e contribuire alla perdita del potere negativo che le ha sempre accompagnate. Iniziando a vederle non solo come una “condizione femminile” ma come un argomento che riguarda ognuno di noi. VALENTINA DALLARI

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TUMORE AL SENO E AUTOPALPAZIONE: PERCHÈ NE PARLIAMO SEMPRE TARDI?

TUMORE AL SENO E AUTOPALPAZIONE: PERCHÈ NE PARLIAMO SEMPRE TARDI?

Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione delle malattie femminili, ma è davvero giusto attivarci, parlare di cancro e di prevenzione solo ora?  Per noi no. Informare, discutere e, soprattutto, fare prevenzione devono essere una costante che accompagna le nostre abitudini lungo tutto l’anno, portata avanti grazie all’attivismo e alla condivisione continua: dai professionisti della salute ai pazienti, fino a ognunə di noi.   Ecco perché noi, tuttə insieme, qui su Periodica vogliamo dare il nostro contributo: creare consapevolezza rispetto al cancro della mammella, ma soprattutto su che cosa possiamo fare concretamente per prevenirlo e, nel caso, per diagnosticarlo precocemente. Questo perché una diagnosi precoce corrisponde a maggiori probabilità di guarigione: è cioè la possibilità concreta di salvare vite, se riscontrato in fase iniziale (quasi il 90%).  In particolare, dopo una pandemia che ha bloccato i programmi di screening (infatti, l’80% delle radiologie diagnostiche sono rimaste chiuse durante i mesi di lockdown), provocando un impatto devastante in termini di ritardo diagnostico e di cure adeguate pagate, purtroppo, dai pazienti oncologici e da ogni persona bisognosa di partecipare agli screening (magari semplicemente per l’età, magari per fattori di rischio importanti, come quello genetico e familiare), è doveroso spiegare e informare come fare prevenzione e come mantenere uno stile di vita sano all’interno delle nostre case.   Ogni anno, infatti, in Italia circa 55.000 donne si ammalano di tumori al seno (nonostante siamo abituati a parlarne al singolare, ce ne sono di diversi tipi) e il rischio aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età.  È in forte crescita, però, la percentuale dei tumori della mammella sotto i 50 anni, cioè quella fascia d’età esclusa dall’area di screening, motivo per cui si sta abbassando la soglia di età a 40 anni per l’ingresso nel programma e si sottolinea l’importanza di fare prevenzione attraverso la visita senologica e l’ecografia mammaria già a partire dai 30 anni e l’autopalpazione ogni mese, quest’ultima rivolta a tuttə quantə.   Come eseguire la palpazione in maniera appropriata?  Ecco alcune semplici istruzioni. Iniziamo scegliendo un giorno del mese in cui farla e ripetiamola sempre nello stesso giorno ogni mese (meglio se alla fine del ciclo mestruale, momento in cui il seno sarà meno dolente). Mettiamoci nudə davanti allo specchio e osserviamo la forma e la simmetria del nostro seno: Prima con le braccia lungo il corpo Poi con le mani sui fianchi, ruotando a destra e sinistra per osservare i lati del seno Infine, con le mani dietro la nuca Ora iniziamo la palpazione: Portiamo un braccio dietro alla nuca e con i tre polpastrelli di indice, medio e anulare dell'altra mano palpiamo gentilmente, ma con fermezza, l’intero seno Premiamo il capezzolo per verificare eventuali variazioni di consistenza e secrezioni Tocchiamo anche la zona dell’ascella, perché lì c'è un pezzo di ghiandola mammaria che merita la nostra cura Per essere sicurə di non tralasciare neanche una zona, usiamo uno di questi schemi: Schema a spirale: a partire dall’esterno creiamo una spirale portandoci verso l’interno per terminare sul capezzolo; Schema dall'alto verso il basso: creiamo delle linee immaginarie dall'alto verso il basso; Schema a stella: percorriamo le linee che compongono una stella usando come riferimento centrale il capezzolo. A cosa prestare attenzione? A noduli o a irregolarità; A pelle a buccia d’arancia, a ispessimenti o ad arrossamenti; Alla presenza di secrezioni o di retrazioni del capezzolo; Alla variazione della forma o alla presenza di eruzioni cutanee sul seno. Ripetiamo lo schema allo stesso modo anche sull’altro seno e ripetiamo la stessa procedura, ma questa volta distesə a letto, con un cuscino sotto la nostra schiena.   E se troviamo o sentiamo qualcosa?  Non facciamoci prendere dal panico: i cosiddetti "noduli" non sono, nella maggior parte dei casi, preoccupanti. Le lesioni benigne, infatti, rappresentano circa il 90% delle condizioni che portano una donna a una visita senologica e si manifestano di solito tra i 30 e i 50 anni.  Prenota in fretta una visita dal senologo che professionalmente escluderà che la lesione possa essere un cancro e calcolerà l’eventuale rischio che da tale lesione si sviluppi un tumore, fornendoci le istruzioni sulle cose da fare (tra le altre come accedere a un programma di screening) in futuro.  Un futuro che può essere possibile per molte più persone se tutti noi informiamo, condividiamo e facciamo prevenzione nel nostro piccolo e nel nostro quotidiano. E non solo durante un mese dell’anno. L’autopalpazione diventa, così, la base della prevenzione dei tumori al seno, sia femminile, che maschile (che rappresentano l’1% di tutti i tumori della mammella, circa 500 ogni anno), perché è una patologia che può interessare entrambi i sessi. Sessi che, uniti e costantemente impegnati nella lotta e nella ricerca contro i tumori al seno, portano notizie meravigliose, come quella di qualche giorno fa: le dottoresse Antonella Sistigu e Martina Musella, infatti, hanno condotto uno studio che ha scoperto il meccanismo di resistenza del cancro alle cure e, con una terapia combinata che inibisca l'azione della proteina KDM1B, si potrebbe rallentare la proliferazione cancerosa nel 15% delle pazienti che non rispondono ai farmaci. Ed è grazie alla prevenzione e alla ricerca che la lotta contro questo cancro diventa possibile.   Noi cosa possiamo fare per sostenerla? Ecco alcune possibilità: Comprando Le noci per la ricerca di Fondazione Umberto Veronesi, presenti nella maggior parte dei supermercati; Partecipando e sostenendo l’iniziativa nastro rosa di AIRC (Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro), da sempre in campo nella lotta e nella cura contro i tumori al seno; Attraverso la challenge lanciata da Lookiero #DANCEFORMYBREAST: una coreografia per insegnare in maniera facile i gesti per eseguire l’autopalpazione del seno, primo passo per la prevenzione. Per ogni balletto postato su Instagram o TikTok durante il mese ottobre 1€ sarà dato all’Istituto IEO – Monzino (Istituto Europeo di Oncologia), impegnato nella ricerca contro i tumori; Con l’iniziativa Follow the Pink l’Istituto IEO-Monzino dà il via un’importante raccolta fondi con la partecipazione di vari brand attraverso la vendita dei propri prodotti dedicati al Pink/Peach October; Durante il mese della prevenzione, Avon mette in vendita una candela per una raccolta fondi destinata alla ricerca e invita le persone a condividere le 3 parole che descrivono al meglio il proprio seno utilizzando l’hashtag #NormalePerMe, con l’obiettivo di rendere semplici e normali le conversazioni sulla salute del seno e aiutare le persone a conoscere i segni del cancro al seno e come agire.   Tuttə possiamo partecipare alla lotta contro questo cancro! Sta a noi provare a divulgare ed eseguire regolarmente pratiche di autopalpazione e visite di controllo.   LORENZO CIOL

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Bisessualità e dating (con persone queer)

Bisessualità e dating (con persone queer)

Persona bi+ che leggi questo articolo, mi rivolgo a te per introdurre l’argomento: prima di uscire di casa per andare a un date con una persona del tuo stesso genere o appartenente alla comunità queer, ti è mai capitato di guardarti allo specchio e pensare preoccupata “sembrerò abbastanza gay?”. Se è così, non sei sola.  Ho scritto qualche mese fa, per Periodica, un articolo che affronta le problematiche e le complessità per una persona non monosessuale (cioè attratta sessualmente, romanticamente, o emotivamente da più di un genere) nell’uscire e avere relazioni con persone etero cis, nel mio caso ragazzi. Oggi voglio proporvi l’altra faccia della medaglia: il dating nel mondo queer.  Premetto che in questo articolo riporterò la mia esperienza, che probabilmente troverà punti di incontro con quella di tante altre persone bisessuali. Ma ogni esperienza è diversa e valida, non tuttə vivono il proprio orientamento e la sua celebrazione allo stesso modo.  Partendo dall’origine, ho sempre implicitamente saputo che una persona per piacermi non doveva avere connotazioni di genere specifiche: se ripenso alla mia infanzia, i personaggi dei cartoni di cui ero follemente innamorata erano Kim Possible, Doppia D di Ed, Edd ed Eddy, Junior di Dragonball, Cornelia delle Witch. Però davo per scontato che fosse così per tuttə, e che l’orientamento sessuale/romantico fosse la preferenza di un genere sull’altro (quando ero piccolə non avevo consapevolezza delle realtà non binarie e gender non conforming, per ovvie motivazioni culturali). E siccome l’eterosessualità per me era non solo una possibilità, ma sicuramente l’orientamento più comodo, con più rappresentazione, preferito e perpetuato da tutte le persone che caratterizzavano il mio quotidiano (genitori, parenti, amici, docenti) e dalla società (media, libri, cinema) ho deciso, o sono statə portatə a decidere, per circostanze, che era il mio orientamento romantico. Anche perché se puoi scegliere, perché scegliere la strada difficile?  L’eterosessualità è un comodo divano su cui ho lasciato il mio corpo assopito per tanto tempo, prima di accorgermi di quanti spilli ci fossero tuttavia fra i cuscini sotto il mio sedere. Invisibilità e cancellazione passano rapidamente da essere una tana in cui nascondersi a una gabbia da cui è complicato uscire.  Perché nonostante la parola bisessuale spicchi al terzo posto della sigla LGBTQIA+, alla rappresentazione e validazione delle persone bi+ non spetta molto spazio nella società sistemicamente monosessista in cui siamo immersə. Se non si hanno modelli, è difficile vedersi. Tantoché per me non era neanche un’opzione.  Così ho passato la mia prima adolescenza a sviluppare un modello relazionale romantico funzionale per le relazioni etero e nel momento in cui ho iniziato ad uscire dall’armadio (fare coming out), mi sono accorta di quanto fosse diverso, complicato e spaventoso per me relazionarmi in modo romantico con persone del mio stesso genere.  In primo luogo, perché crollano tutte le dinamiche implicite di ruolo/stereotipo di genere: anni dedicati inconsciamente a interiorizzare e ricalcare dinamiche patriarcali, a imparare a performare in modo più piacevole per lo sguardo maschile, essere accomodante, assertiva, comprensiva, accudente, ma anche sensuale e ammiccante diventano fuorvianti in una relazione in cui con il partner condividi il non-privilegio di genere.  In secondo luogo, perché fondamentalmente da persona bisessuale, non ci si sente mai appieno parte della comunità queer. La delegittimazione si articola su due livelli, quello personale, la sindrome dell’impostore per avere e aver avuto vissuti romantici tacciabili come “etero”, che ci fanno sentire di “non meritarci” un posto all’interno degli spazi queer di fianco a gay e lesbiche, e quello sociale/culturale esercitato, purtroppo spesso, da parte della comunità queer monosessuale (persone con orientamento gay o lesbico), noto come straight passing privilege. Il termine definisce il pensiero, errato, secondo cui una persona bisessuale subisce solo in parte una discriminazione omo-lesbofobica in quanto, all’occasione, può esercitare il privilegio di stare in una relazione percepita come “eterosessuale”. Questo tipo di ragionamento è bi-cancellante perché vuole inserire forzatamente l’oppressione bifobica all’interno delle discriminazioni omo-lesbofobiche, come se la bisessualità fosse una sottocategoria dell’omosessualità. Ma sono due cose diverse.  La bifobia e la bi-erasure si articolano sulla negazione e cancellazione delle realtà non-monosessuali. Significa subire il pregiudizio di essere vistə come inaffidabile, promisquə, indecisə, in cerca di attenzioni. Vedere definito il proprio orientamento in base al genere del partner. Significa ricordare alle persone che se frequento un ragazzo non sono “ritornata etero”, se frequento una ragazza o persona queer non sono “diventata lesbica”: nel primo caso sono in una  relazione (comunque queer) con un partner con un genere diverso dal mio, nel secondo caso in una relazione saffica, o queer. E che questo non fa di me una persona confusa sul proprio orientamento, o in transizione, in uno step intermedio, verso un altro orientamento. Fa di me una persona bisessuale.  Sebbene le persone omosessuali subiscano lo stesso tipo di oppressione eterosessista che subiscono le persone bisessuali quando sono in una relazione con persone dello stesso genere, è tuttavia importante, ai fini della liberazione bi+, parlare di monosessismo sistemico, come oppressione specifica subita dalle persone bisessuali.  E questa specificità è riscontrabile nei dati raccolti circa l’esperienza della comunità bisessuale. Uno studio condotto da Stonewall UK nel 2017 che ha coinvolto più di 5000 persone queer, ha infatti messo in luce che le persone bisessuali tendono a fare meno coming out in ogni aspetto del loro quotidiano.  Solo il 20% delle persone bisessuali è out con la propria famiglia, contro il 63% di persone gay o lesbiche, e il 36% con gli amici, contro il 74% di persone gay e lesbiche. Solo il 23% di studenti bi+ è out nel contesto universitario, contro il 44% di studenti gay o lesbiche. In ambiente lavorativo, il 22% di lavoratorə bisessuali è out, contro il 57% di persone gay o lesbiche. Inoltre, alla domanda “ti sentiresti supportatə/credutə (dal datore di lavoro) nel riportare di essere statə vittima di bullismo o molestia” solo il 28% di lavoratorə bisessuali si definisce molto d’accordo, contro il 41% di persone gay o lesbiche.  Percentuali comparabili sono riscontrabili quando si parla di servizi medico-sanitari: il 40% di uomini bi e il 29% di donne bi non specificano il loro orientamento sessuale durante le visite mediche contro il 10 % di uomini gay e l’11% di donne lesbiche.  Per quanto riguarda gli spazi queer (come locali, eventi, pride), lo studio evidenzia che il 43% di persone bisessuali afferma di non averne mai preso parte contro il 29% di persone gay o lesbiche, perché percepitə come non benvenutə a causa della loro identità: il 27% di donne bi e il 18% di uomini bi affermano di aver subito discriminazioni all’interno della comunità (contro il 9% di donne lesbiche e il 4% di uomini gay).  Per queste motivazioni, è facile capire come un’esperienza comune per le persone bisessuali sia non sentirsi “abbastanza” bisessuali, o bisessuali nel “modo giusto”. Ed è poi il motivo per cui prima di uscire di casa per andare a un date con una persona queer può succedere che ci chiediamo se saremo credibili, e se verremo credutə.  E allora che cosa si può fare?  Sia che ci si identifichi in un orientamento etero, sia che si faccia parte della comunità queer, riconosciamo e combattiamo la bifobia e la bi-erasure, quando la vediamo o la sentiamo, non lasciando le persone bi+ da sole. Non mettiamo in discussione o sindachiamo la validità dell’orientamento delle persone bisessuali. Non facciamo assunzioni sull’orientamento di qualcuno solo in base al suo partner e utilizziamo un linguaggio inclusivo: una coppia formata da due donne non è necessariamente lesbica e una formata da due uomini non è necessariamente gay. Non riconoscerlo è bi cancellante. Supportiamo la comunità bi+ negli spazi queer, e validiamo il suo contributo storico nei movimenti di liberazione LGBTQIA+.  Riconosciamo la bisessualità come un orientamento vero e completo, non come 50% etero e 50% gay. Smettiamo di giudicare con parametri monosessuali un orientamento che non lo è.  Rendiamo possibile, per chi lo voglia, alzarsi con semplicità dal divano pieno di spilli.  Rendiamo semplice, per le persone bisessuali, non vivere più nell’invisibilità.  VALERIA REGIS   Fonti statistiche riportate nell’articolo:  Sophie Melville, Eloise Stonborough (Stonewall UK), Becca Gooch (YouGov), LGBT in Britain, Bi Report, 2020:  https://www.stonewall.org.uk/system/files/lgbt_in_britain_bi.pdf  Attivistə bisessuali per chi volesse saperne di più:  https://www.instagram.com/anything.that.moves/  https://www.instagram.com/notdefining/  Bisexual Manifesto 1990:  https://bimanifesto.carrd.co/#manifesto 

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SPORT E CICLO MESTRUALE

SPORT E CICLO MESTRUALE

«Quando ero adolescente è stata mia madre a dire al mio allenatore che non mi sentivo a mio agio nei giorni del ciclo con l’abbigliamento da piscina. Bisogna parlare, confrontarsi. Inserire il fattore mestruazioni negli schemi degli allenamenti, non semplicemente dire prendi la pillola». Parola di Federica Pellegrini: la campionessa infatti ha da poco ricevuto una laurea honoris causa, portando una tesi su «La Donna e la Performance: come il ciclo mestruale può influenzare la prestazione». Un tema che lei ha affermato essere importante, per generare informazioni – spesso mancanti –  che ostacolano lo sport nelle persone che vivono l'esperienza delle mestruazioni. Purtroppo anche nello sport, che per la stragrande maggioranza delle persone fa parte della propria quotidianità, esiste ancora un grosso tabù, riguardo all’allenamento durante i giorni del ciclo mestruale. Spesso molte donne tendono ad interrompere qualsiasi attività fisica e sportiva durante le mestruazioni. Nel periodo premestruale e mestruale si palesano una serie di sintomi e manifestazioni che impediscono un regolare allenamento, come: aumento di peso, ritenzione idrica, aumento del volume uterino, pesantezza, gonfiore e dolore addominale. Il periodo post-mestruale è, invece, una fase ottimale per l'allenamento e per un miglior rendimento muscolare. Un altro parametro che spesso scoraggia nella pratica di un’attività sportiva è dato anche dal flusso mestruale. Le persone che hanno un flusso abbondante tendono ancor di più a sospendere l’attività fisica rispetto a chi invece ha un flusso leggero. L’abbondanza del flusso mestruale è sicuramente un problema per chi pratica attività durature poiché la carenza di ferro, o l’abbassamento dell’emoglobina, influisce negativamente sulle performance. Non esiste alcuna controindicazione allo svolgimento di attività fisica durante le mestruazioni, anche se è comunque consigliabile mantenere un'intensità di allenamento più bassa.Vediamo ora come pianificare al meglio l’allenamento in base alle fasi del ciclo mestruale.   Per organizzare al meglio i propri impegni sportivi, un’atleta, e in particolare un’atleta agonista, deve conoscere perfettamente le fasi del ciclo ovarico, in modo da sapere quali sono i periodi in cui è vantaggioso sottoporsi a un determinato tipo di allenamento, in armonia con gli ormoni che si producono. Ma questo vale anche per chi fa sport a livello amatoriale, per allenarsi in modo più proficuo e senza stress. Le fasi del ciclo e gli allenamenti Per pianificare il lavoro sportivo bisogna tener presente che: Nella fase premestruale e mestruale, caratterizzata dalla presenza di estrogeni e progesterone, è bene dedicarsi ad un allenamento più leggero. In questo periodo il corpo deve anche adattarsi ad una serie di cambiamenti quali l’aumento di peso e la ritenzione idrica. Si consiglia di praticare sport come yoga e pilates, queste discipline, oltre al corpo, tengono in grande conto il benessere della psiche. Anche il nuoto è consigliato se si soffre di sindrome premestruale in quanto aumenta i livelli di serotonina e dopamina. Il consiglio degli esperti è quello di evitare esercizi con pesi e allenamenti che coinvolgono la parte bassa addominale. Fare sport, quindi, non solo riduce i sintomi della sindrome premestruale ma aiuta anche a prevenire i dolori del ciclo che sta per arrivare; Nella fase post mestruale, caratterizzata dall’ormone FSH, o ormone follicolo stimolante, vi è un sensibile aumento della capacità di concentrazione e coordinazione: è il momento allora di fare un allenamento dove si richiedono queste particolari abilità, grazie anche al miglior rendimento muscolare. Per questo motivo si consigliano attività più o meno intense come i workout in sala pesi. Di seguito un approfondimento su quali sono le migliori attività fisiche da svolgere durante le fasi del ciclo mestruale: https://fitprime.com/it/magazine/allenamento-e-ciclo-mestruale La miglior regola per effettuare una corretta attività fisica durante il ciclo mestruale è ascoltare il proprio corpo. Generalmente durante il primo giorno di ciclo ci sentiamo con meno energie, dunque è consigliabile effettuare una sessione meno intensa e ridurre magari la durata dell’allenamento. Se il nostro corpo è abituato ad allenarsi 4-5 giorni alla settimana non c’è motivo di non continuare anche nei giorni del ciclo mestruale. L’unica cosa importante è osservare i segnali del tuo corpo, ricordarti di bere tanto per idratarti, integrare nell’alimentazione alimenti ricchi in ferro e vitamine come verdure a foglia verde, legumi, frutta secca e ricordarti che è scientificamente provato che fare attività aiuta ad alleviare i dolori mestruali. Durante l’attività fisica aumentano le endorfine, anche dette “ormoni della felicità”: una sorta di anestetico naturale che il nostro cervello produce e che si rivela quindi particolarmente utile per contrastare alcuni disturbi legati al ciclo mestruale, come dolori addominali, mal di testa e "menstrual blues”, modo più poetico per sottolineare la malinconia della sindrome premestruale. Inoltre è dimostrato che una moderata attività fisica: diminuisce la ritenzione dei liquidi, sviluppa una maggiore tolleranza e resistenza al dolore, aiuta a ridurre i sintomi nel periodo premestruale e mestruale; si rivela utile per contrastare l’ansia ed altri disturbi di tipo psicologico – grazie alla componente sociale tipica dello sport – e aiuta a diminuire lo stress. In conclusione non ci sono regole standard, ma siamo liberi di gestire l’allenamento durante il ciclo mestruale come più ci sentiamo a nostro agio, assecondando la nostra psiche e il nostro corpo.  «Per sentirmi veramente bene nell’acqua ed essere più serena è stato essenziale per me capire che il mio corpo doveva seguire il suo ritmo spontaneo. [...] Ai tecnici di nuova generazione conviene prendere dimestichezza con l’argomento perché le ragazze ne vogliono parlare. Poi per i parametri scientifici servono medici, persone competenti che ti aiutino a esaltare ciò che in quelle date funziona come sempre, la resistenza per esempio».   È arrivato dunque il momento di aprire una nuova conversazione legata alle mestruazioni: quella legata allo sport e in particolare all'agonismo, per abbattere lo stigma e la vergogna con i quali siamo stat* portat* a viverlo. Grazie anche a Federica Pellegrini che con la sua testimonianza ha portato attenzione su un tema che sta a cuore a moltissime atlete professioniste e donne come lei.   Simona Danos  

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Il ritorno delle mestruazioni

Il ritorno delle mestruazioni

Come cambia il rapporto con sé e con gli altri dal menarca al primo figlio? Ne parliamo con Stella Pulpo! Il menarca, l’inizio di una convivenza a cadenza più o meno mensile con le mestruazioni. Emozioni, gioie e dolori pervadono il corpo di tuttə nel corso della età fertile, influenzando anche i rapporti con le persone che ci circondano. Durante questo periodo, le mestruazioni possono interrompersi: ad esempio, con l’arrivo di una gravidanza (per poi ricomparire a seguito del parto).Ma cosa ne sappiamo a riguardo?  Ne parliamo oggi con Stella Pulpo, scrittrice e fondatrice del blog “Memorie di Una Vagina”. Uno spazio, quest’ultimo, dove tuttə, negli anni, hanno avuto modo di parlare di sesso, amore, mestruazioni, relazioni, amicizia, lavoro, di parità, gravidanza e molto altro. Da un anno, inoltre, Stella è diventata madre di una splendida bambina.   Stella, ricordi quando hai avuto il menarca? Ti avevano raccontato qualcosa sull’argomento? Certo, lo ricordo alla perfezione. Era il giorno del mio 12esimo compleanno! Tornai a casa da scuola e trovai le mutande sporche, vidi una macchia molto scura e, sinceramente, non capii subito che si trattava di sangue. Mi lavai, mi cambiai e feci finta di nulla. Dopo poche ore, però, ecco di nuovo comparire la macchia. Chiamai mia madre, e l’arcano fu svelato: ero “diventata signorina” (così usava dire ai tempi).Ero preparata, in generale, perché alle mie amiche stavano arrivando, sapevo che sarebbe successo anche a me, sebbene nessuno mi avesse spiegato dettagliatamente cosa questo significasse per la mia vita e quali cambiamenti avrebbe portato al mio corpo (mi sarebbero cresciute le tette, questo sì, lo sapevo e lo aspettavo).   Negli anni, qual è stato il tuo rapporto con le mestruazioni? Abbastanza positivo. Ho imprecato tutte le volte che si sono presentate in concomitanza di un viaggio, naturalmente, ma abbiamo avuto sempre un rapporto piuttosto pacifico. Puntuali, regolari e brevi. Solo negli ultimi anni, invecchiando (ahimè) sono diventate più dolorose.    Quando hai scoperto di essere incinta, da cosa te ne sei accorta? Una settimana di ritardo. Essendo sempre state puntuali, appunto, la cosa mi ha insospettita. Ho pensato dipendesse dallo stress di quel periodo, ma quando una mattina ho vomitato, ho deciso fosse giunto il momento di comprare un test.     Come hai vissuto il fatto di essere in amenorrea durante la gravidanza? Con naturalezza. La gravidanza modifica il corpo (le forme, i volumi, i colori – penso ai capezzoli e alla vulva che diventano violacei) e le sue abitudini (attività concesse e proibite, alimentazione, sonno), pertanto la sospensione delle mestruazioni è solo uno degli aspetti che segnano un cambiamento rispetto allo stadio precedente.Nel complesso, però, l’ho vissuta come una pausa positiva, un effetto benefico, un po’ come la pelle radiosa e i capelli foltissimi.   E il ritorno delle mestruazioni, invece, che effetto ti ha fatto? Ho avuto il capoparto a un mese e mezzo dal parto, diciamo presto, e la cosa da un lato mi ha fatto pensare: “Oh no! Di già?!”, dall’altro è stato un segnale che il mio corpo stava pian piano tornando alla sua “normalità”.   Dal punto di vista relazionale, com’è cambiato il rapporto col tuo partner durante queste fasi? Il cambiamento del corpo, delle abitudini, dello stile di vita, delle priorità, è un qualcosa che necessariamente modifica la relazione con se stessi, prima ancora che con il partner. C’è l’interruzione delle narrazioni precedenti; c’è la sospensione degli impegni professionali (che spesso contribuiscono ad alimentare la nostra autostima e la nostra vitale indipendenza); c’è il bisogno di rimettersi a fuoco dopo un lungo periodo in cui la quasi totalità delle nostre energie viene indirizzata alla gestazione, espulsione (è gergo tecnico) e accudimento di un minuscolo esemplare della specie.Quando finalmente alzi la testa e ti guardi allo specchio, devi capire dove sei, superare l’inconciliabilità apparente tra chi eri e chi sei diventata, trovare un modo per comprenderti e per riammettere l’altro. Non vale per tutte, sia chiaro. Ma per molte è così: creare le basi solide di una identità nuova, allargata, che tiene il meglio della precedente e aggiunge, è un processo essenziale, ma lento. Richiede consapevolezza. Richiede pazienza.Il partner a volte capisce, a volte no. A volte riusciamo a spiegare cosa proviamo, altre volte siamo troppo confuse per agevolare all’altro un diagramma di flusso della nostra emotività. Di certo, bisogna darsi tempo, avere pazienza, essere clementi, non rinunciare a comunicare, evitare risentimenti inutili, chiedere aiuto senza vergognarsi e senza sentirsi in colpa di qualsiasi cosa. Col partner bisogna ritrovarsi, e ti dirò che è anche bello, superato l’impatto iniziale, scoprirsi in un ruolo nuovo, più ricco (metaforicamente, s’intende, i figli costano), più complesso, più familiare se mi passi il termine.   Stella, alla luce della tua prima gravidanza e del tuo primo anno da mamma: cosa ritieni siano dei falsi miti (sulla gravidanza, il parto e il post partum) e cosa è vero? Vabbè ma qui potrei scrivere un’enciclopedia e mi pare di essere stata già sufficientemente prolissa. Mi limito a dire che, in generale, non esiste una narrazione normativa o universale di questi momenti cruciali nella vita di una donna.Qualsiasi tentativo in questa direzione è inefficace, o disonesto. I falsi miti arrivano da ogni parte (dai social su cui la gravidanza è raccontata con le stesse tinte pastello di una ricetta per fare i cupcakes, come dal consesso di zie/nonne/amiche che sanno sempre il modo giusto in cui devi fare delle cose che tu, povera inadeguata, certamente ignori). L’unica cosa trasversale che, mi sento di dire, viene spesso elusa, è l’ambivalenza che c’è in questi momenti. I significati sono forti, i colori sono saturi, la neomadre vive picchi molto alti di gioia e pienezza, come pure picchi molto bassi di stanchezza, solitudine, angoscia. La mia impressione è che spesso si dia voce ai primi e si tacciano i secondi, magari per paura di essere giudicate male, per il timore che la propria umanità possa essere equivocata come scarso amore materno. Ecco, secondo me sarebbe importante rendere noto che un momento tanto indelebile nella vita, è un momento che include delle tonalità fosche (oltre a quelle bellissime).Che è normale. Che non siamo sbagliate. Che non siamo sole. Che non si tratta solo della stanchezza a star dietro ai pargoli (chi l’avrebbe mai immaginato, che non sarebbe stato rilassante come un soggiorno in un resort di lusso), ma di una forza creatrice talmente potente da modificare l’inclinazione del nostro asse interiore. Che è una cosa straordinaria e spaventosa insieme, alla quale essere un po’ più preparate male non fa. Cosa pensi debba cambiare nel modo di informare le donne riguardo le mestruazioni e la gravidanza? Credo che, oggigiorno, ci siano moltissimi canali per accedere a informazioni anche di discreta qualità su entrambi gli argomenti (questo vale nella nostra cornice culturale, ovviamente, se ci spostiamo ad altre latitudini la situazione è estremamente più critica, basti pensare allo stigma che le mestruazioni rappresentano ancora in molti paesi – spesso in relazione alle religioni – e alla Period poverty che, comunque, è un problema anche da noi, più di quanto si immagini).Detto ciò, penso che sarebbe ora di cambiare la cultura del corpo, lo sguardo che gli rivolgiamo. Imparare a conoscerlo invece di giudicarlo. Accoglierlo e scoprirlo, invece di alimentare disagi e repulsioni. Studiarlo, nel caso del corpo femminile, poiché alcuni suoi funzionamenti (o malfunzionamenti) sono ancora poco noti, dato che per la scienza il corpo standard è quello maschile. Mestruazioni, gravidanza, menopausa, piacere sessuale, sono tutti temi di cui dovremmo discutere di più e meglio, per comprenderli davvero, normalizzarli e liberarli da una quantità imponderabile di falsi miti e pregiudizi.   ANTONELLA PATALANO

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