Salta al contenuto

Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto

Vivere il tabù mestruale

Vivere il tabù mestruale

Ricordo molto bene il giorno in cui arrivarono le mie prime mestruazioni. Avevo 15 anni e tanta voglia di sentirmi, finalmente, una donna. Era una domenica, e com’ero solita a fare in questa giornata, stavo giocando un’importante partita di pallavolo. Me la cavai piuttosto bene e riuscimmo a portare a casa la vittoria. Per raccontare questa breve storia, però, dovrei partire dal contesto. E il contesto era un po’ diverso da quello che si potrebbe immaginare. Non mi sono mai sentita veramente parte della mia squadra. Di nessuna squadra. Ero timida ma verace, e in campo ero molto severa. Sia con me stessa, che con gli altri. La vittoria, per me, ha sempre simboleggiato un senso di rivalsa. In quel caso sull’avversario. Volevo vincere non per dimostrare di essere forte, ma per dimostrare a me stessa e alle avversarie che anch’io meritavo di essere in quello stesso posto. Che, in qualche modo, eravamo uguali. Che il mio impegno, anche se avessimo perso, sarebbe stato all’altezza del loro. Perché era lo stesso e identico. “Siamo comunque uguali”. Con il senno di poi, non mi è difficile capire che stavo inconsciamente cercando un posto, un luogo, una situazione della quale sentirmi fisicamente parte. La stessa cosa, infatti, accadeva già tre volte a settimana nello spogliatoio della palestra. I miei occhi vedevano costantemente le mie compagne svestite, nude, a proprio agio nel loro corpo formoso, lavarsi una accanto all’altra. Parlavano di ragazzi e di mestruazioni; si scambiavano assorbenti. Ero l’unica delle ragazze a non avere avuto ancora “il ciclo”, a non avere ancora un briciolo di seno o di forme. Ero ancora nelle sembianze di una bambina sebbene, dentro, non lo fossi affatto. Il mio corpo acerbo e il mio sviluppo ritardatario rappresentavano, ai miei occhi di ragazzina in quella fase difficile dell’adolescenza, un ostacolo verso quell’accettazione, quel senso di partecipazione e di “vittoria” sopracitato che volevo provare nei confronti delle mie compagne. Al di fuori di quella rete e di quella palla bianca, noi non eravamo affatto uguali. Nemmeno l’argomento “ragazzi” riusciva a farmi uscire dal mio guscio. Dopotutto, la mia forte timidezza e la mia bassa autostima non mi aiutavano di certo nell’approccio spesso disastroso che avevo con l’altro sesso. E, uscire allo scoperto, mi avrebbe fatto sentire giudicata. Cosa che, sicuramente, sarebbe poi accaduta. E così, lo ammetto, iniziai a mentire. Non fu affatto una cosa studiata, successe e basta. Facevo finta di avere le mestruazioni anch’io, dilettandomi nel raccontare qualche breve aneddoto che avevo sentito dire da mia sorella in giro per casa. Mentire, però, non funzionò ugualmente. Perché, arrivata a quel punto, mi sentivo molto più impostore che bambina. E quindi sì, ricordo perfettamente il giorno in cui ebbi la menarca, perché una felicità e un senso di sollievo invase tutto il mio corpo. Rimasi così, incantata e sorpresa, mentre osservavo le mutande abbassate sulle mie ginocchiere e sui miei calzettoni da partita. Toccava, finalmente, a me. Avevo vinto, ma vinto davvero. Improvvisamente, ero “diventata" una donna.   Questa storia, in realtà, raccontandola a distanza di tanti anni e di tanti cicli mestruali, mi ha dato grandi spunti di riflessione. Penso al mio punto di vista, quello che vi ho appena spiegato, a quella celebrazione che è stata per me il mio ciclo mestruale e poi, però, penso a quell’alone di tabù che circonda questo evento naturale e fisiologico che investe ogni donna in età fertile e che spesso, dalla società, viene visto come qualcosa di impuro e minaccioso. Come, citando alcune frasi che ho sentito dire durante la mia vita, “qualcosa di cui non potersi fidare. Sanguina 5 giorni al mese e non muore mai”. Ricordo bene mia madre, dopo l’arrivo delle mestruazioni, rammentarmi di non dirlo assolutamente mai ad alta voce se fossi stata in “quel momento”. Ricordo gli assorbenti nascosti nelle maniche del maglione quando si chiedeva al professore il permesso di andare in bagno, oppure, attualmente, i diversi “shhhhh!” che mi tuonano le mie conoscenti quando dico a voce alta : “Ce l’hai un assorbente?”. Non sono una sociologa esperta e nemmeno una grande intellettuale. Nel corso degli anni e sopratutto crescendo, ho iniziato a notare cose che prima mi era difficile vedere. Vuoi un po’ la cultura con la quale siamo sempre stati cresciuti, vuoi un po’ la società, sua conseguenza, adagiata e creata su schemi ripetitivi e difficilmente influenzabili rispetto ai cambiamenti sociali e storici in atto. Ho sempre pensato che la donna con le mestruazioni fosse vista come una persona “fuori controllo”. Inerme, in preda a un tempesta ormonale che la rende cattiva, pericolosa, nervosa. Fragile. Come se non potesse essere in grado di controllare il proprio corpo.  Come se fosse una sua scelta, un “disturbo”, una sua debolezza e non un fattore fisiologicamente normale. Come se, in quei giorni, fosse in una situazione fisica ed emotiva di cui vergognarsi, da nascondere, in grado di trasformare “la più pura e accomodante donna” in un mostro cattivo e sessualmente impuro. Sarà per questo, chissà, che durante la gravidanza, e quindi in assenza delle mestruazioni, la donna viene sempre adorata e venerata. Viene definita più bella, radiosa, più calma. Più pura. Come se, in qualche modo, potessimo essere definite così solo in quanto madri o in procinto di diventarlo. Tempo fa, inciampai in un articolo molto interessante. La giornalista, ovviamente, era una donna e riportava alcuni estratti del libro di Giuliana Sgrena “Dio odia le donne”. Riassumeva, in 5 minuti di lettura, la visione delle mestruazioni femminili secondo le religioni sparse per mondo le quali, nei secoli, hanno contribuito a rafforzare l’idea secondo cui le donne sono “colpevoli” di avere le mestruazioni andando poi così ad aumentare lo stigma femminile condannandole, appunto, all’isolamento e alla vergogna. Se ne para nel Corano, nell’Ebraismo, l’Induismo fino ad arrivare al Cristianesimo. E considerato quanto impatto abbiano ancora le religioni sulla nostra cultura, questa ricerca fa a dir poco rabbrividire tanto quanto fornisce una serie di risposte a modelli comportamentali patriarcali  ormai fortemente radicati. D’altronde, qualche mese fa, quando chiesi al mio allenatore come si organizzavano le atlete femminili professioniste durante le competizioni importanti qualora avessero avuto il ciclo mestruale, davanti alla mia pura curiosità mi sentii rispondere (non da lui) : “Noi uomini, invece, siamo sempre pronti”. Come se, appunto, fosse una debolezza e una scelta, qualcosa che mi rende ancora più fragile agli occhi di una categoria di uomo, lo stesso che, per avvalorare questa tesi, è contrario al congedo mestruale. Perché: Non puoi avere “trattamenti” extra che io non posso avere. E, dato che ti lamenti, comprati pure i tuoi assorbenti (ormai beni di lusso), dato che non te li riconoscerò mai come beni essenziali.   Detto questo, ho voluto iniziare questo articolo con la mia storia perché, a distanza di tempo, la porto ancora nel cuore. Per mettere in contrasto la netta differenza che vi è tra vivere le mestruazioni, nel bene e nel male, e parlare, senza sapere, di mestruazioni. Per non vederle solo come evento, ma anche come componente psicologica, senso di appartenenza. Penso che, in qualche modo, discutere liberamente di queste possa normalizzarle e contribuire alla perdita del potere negativo che le ha sempre accompagnate. Iniziando a vederle non solo come una “condizione femminile” ma come un argomento che riguarda ognuno di noi. VALENTINA DALLARI

Saperne di più
TUMORE AL SENO E AUTOPALPAZIONE: PERCHÈ NE PARLIAMO SEMPRE TARDI?

TUMORE AL SENO E AUTOPALPAZIONE: PERCHÈ NE PARLIAMO SEMPRE TARDI?

Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione delle malattie femminili, ma è davvero giusto attivarci, parlare di cancro e di prevenzione solo ora?  Per noi no. Informare, discutere e, soprattutto, fare prevenzione devono essere una costante che accompagna le nostre abitudini lungo tutto l’anno, portata avanti grazie all’attivismo e alla condivisione continua: dai professionisti della salute ai pazienti, fino a ognunə di noi.   Ecco perché noi, tuttə insieme, qui su Periodica vogliamo dare il nostro contributo: creare consapevolezza rispetto al cancro della mammella, ma soprattutto su che cosa possiamo fare concretamente per prevenirlo e, nel caso, per diagnosticarlo precocemente. Questo perché una diagnosi precoce corrisponde a maggiori probabilità di guarigione: è cioè la possibilità concreta di salvare vite, se riscontrato in fase iniziale (quasi il 90%).  In particolare, dopo una pandemia che ha bloccato i programmi di screening (infatti, l’80% delle radiologie diagnostiche sono rimaste chiuse durante i mesi di lockdown), provocando un impatto devastante in termini di ritardo diagnostico e di cure adeguate pagate, purtroppo, dai pazienti oncologici e da ogni persona bisognosa di partecipare agli screening (magari semplicemente per l’età, magari per fattori di rischio importanti, come quello genetico e familiare), è doveroso spiegare e informare come fare prevenzione e come mantenere uno stile di vita sano all’interno delle nostre case.   Ogni anno, infatti, in Italia circa 55.000 donne si ammalano di tumori al seno (nonostante siamo abituati a parlarne al singolare, ce ne sono di diversi tipi) e il rischio aumenta progressivamente con l’avanzare dell’età.  È in forte crescita, però, la percentuale dei tumori della mammella sotto i 50 anni, cioè quella fascia d’età esclusa dall’area di screening, motivo per cui si sta abbassando la soglia di età a 40 anni per l’ingresso nel programma e si sottolinea l’importanza di fare prevenzione attraverso la visita senologica e l’ecografia mammaria già a partire dai 30 anni e l’autopalpazione ogni mese, quest’ultima rivolta a tuttə quantə.   Come eseguire la palpazione in maniera appropriata?  Ecco alcune semplici istruzioni. Iniziamo scegliendo un giorno del mese in cui farla e ripetiamola sempre nello stesso giorno ogni mese (meglio se alla fine del ciclo mestruale, momento in cui il seno sarà meno dolente). Mettiamoci nudə davanti allo specchio e osserviamo la forma e la simmetria del nostro seno: Prima con le braccia lungo il corpo Poi con le mani sui fianchi, ruotando a destra e sinistra per osservare i lati del seno Infine, con le mani dietro la nuca Ora iniziamo la palpazione: Portiamo un braccio dietro alla nuca e con i tre polpastrelli di indice, medio e anulare dell'altra mano palpiamo gentilmente, ma con fermezza, l’intero seno Premiamo il capezzolo per verificare eventuali variazioni di consistenza e secrezioni Tocchiamo anche la zona dell’ascella, perché lì c'è un pezzo di ghiandola mammaria che merita la nostra cura Per essere sicurə di non tralasciare neanche una zona, usiamo uno di questi schemi: Schema a spirale: a partire dall’esterno creiamo una spirale portandoci verso l’interno per terminare sul capezzolo; Schema dall'alto verso il basso: creiamo delle linee immaginarie dall'alto verso il basso; Schema a stella: percorriamo le linee che compongono una stella usando come riferimento centrale il capezzolo. A cosa prestare attenzione? A noduli o a irregolarità; A pelle a buccia d’arancia, a ispessimenti o ad arrossamenti; Alla presenza di secrezioni o di retrazioni del capezzolo; Alla variazione della forma o alla presenza di eruzioni cutanee sul seno. Ripetiamo lo schema allo stesso modo anche sull’altro seno e ripetiamo la stessa procedura, ma questa volta distesə a letto, con un cuscino sotto la nostra schiena.   E se troviamo o sentiamo qualcosa?  Non facciamoci prendere dal panico: i cosiddetti "noduli" non sono, nella maggior parte dei casi, preoccupanti. Le lesioni benigne, infatti, rappresentano circa il 90% delle condizioni che portano una donna a una visita senologica e si manifestano di solito tra i 30 e i 50 anni.  Prenota in fretta una visita dal senologo che professionalmente escluderà che la lesione possa essere un cancro e calcolerà l’eventuale rischio che da tale lesione si sviluppi un tumore, fornendoci le istruzioni sulle cose da fare (tra le altre come accedere a un programma di screening) in futuro.  Un futuro che può essere possibile per molte più persone se tutti noi informiamo, condividiamo e facciamo prevenzione nel nostro piccolo e nel nostro quotidiano. E non solo durante un mese dell’anno. L’autopalpazione diventa, così, la base della prevenzione dei tumori al seno, sia femminile, che maschile (che rappresentano l’1% di tutti i tumori della mammella, circa 500 ogni anno), perché è una patologia che può interessare entrambi i sessi. Sessi che, uniti e costantemente impegnati nella lotta e nella ricerca contro i tumori al seno, portano notizie meravigliose, come quella di qualche giorno fa: le dottoresse Antonella Sistigu e Martina Musella, infatti, hanno condotto uno studio che ha scoperto il meccanismo di resistenza del cancro alle cure e, con una terapia combinata che inibisca l'azione della proteina KDM1B, si potrebbe rallentare la proliferazione cancerosa nel 15% delle pazienti che non rispondono ai farmaci. Ed è grazie alla prevenzione e alla ricerca che la lotta contro questo cancro diventa possibile.   Noi cosa possiamo fare per sostenerla? Ecco alcune possibilità: Comprando Le noci per la ricerca di Fondazione Umberto Veronesi, presenti nella maggior parte dei supermercati; Partecipando e sostenendo l’iniziativa nastro rosa di AIRC (Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro), da sempre in campo nella lotta e nella cura contro i tumori al seno; Attraverso la challenge lanciata da Lookiero #DANCEFORMYBREAST: una coreografia per insegnare in maniera facile i gesti per eseguire l’autopalpazione del seno, primo passo per la prevenzione. Per ogni balletto postato su Instagram o TikTok durante il mese ottobre 1€ sarà dato all’Istituto IEO – Monzino (Istituto Europeo di Oncologia), impegnato nella ricerca contro i tumori; Con l’iniziativa Follow the Pink l’Istituto IEO-Monzino dà il via un’importante raccolta fondi con la partecipazione di vari brand attraverso la vendita dei propri prodotti dedicati al Pink/Peach October; Durante il mese della prevenzione, Avon mette in vendita una candela per una raccolta fondi destinata alla ricerca e invita le persone a condividere le 3 parole che descrivono al meglio il proprio seno utilizzando l’hashtag #NormalePerMe, con l’obiettivo di rendere semplici e normali le conversazioni sulla salute del seno e aiutare le persone a conoscere i segni del cancro al seno e come agire.   Tuttə possiamo partecipare alla lotta contro questo cancro! Sta a noi provare a divulgare ed eseguire regolarmente pratiche di autopalpazione e visite di controllo.   LORENZO CIOL

Saperne di più
Bisessualità e dating (con persone queer)

Bisessualità e dating (con persone queer)

Persona bi+ che leggi questo articolo, mi rivolgo a te per introdurre l’argomento: prima di uscire di casa per andare a un date con una persona del tuo stesso genere o appartenente alla comunità queer, ti è mai capitato di guardarti allo specchio e pensare preoccupata “sembrerò abbastanza gay?”. Se è così, non sei sola.  Ho scritto qualche mese fa, per Periodica, un articolo che affronta le problematiche e le complessità per una persona non monosessuale (cioè attratta sessualmente, romanticamente, o emotivamente da più di un genere) nell’uscire e avere relazioni con persone etero cis, nel mio caso ragazzi. Oggi voglio proporvi l’altra faccia della medaglia: il dating nel mondo queer.  Premetto che in questo articolo riporterò la mia esperienza, che probabilmente troverà punti di incontro con quella di tante altre persone bisessuali. Ma ogni esperienza è diversa e valida, non tuttə vivono il proprio orientamento e la sua celebrazione allo stesso modo.  Partendo dall’origine, ho sempre implicitamente saputo che una persona per piacermi non doveva avere connotazioni di genere specifiche: se ripenso alla mia infanzia, i personaggi dei cartoni di cui ero follemente innamorata erano Kim Possible, Doppia D di Ed, Edd ed Eddy, Junior di Dragonball, Cornelia delle Witch. Però davo per scontato che fosse così per tuttə, e che l’orientamento sessuale/romantico fosse la preferenza di un genere sull’altro (quando ero piccolə non avevo consapevolezza delle realtà non binarie e gender non conforming, per ovvie motivazioni culturali). E siccome l’eterosessualità per me era non solo una possibilità, ma sicuramente l’orientamento più comodo, con più rappresentazione, preferito e perpetuato da tutte le persone che caratterizzavano il mio quotidiano (genitori, parenti, amici, docenti) e dalla società (media, libri, cinema) ho deciso, o sono statə portatə a decidere, per circostanze, che era il mio orientamento romantico. Anche perché se puoi scegliere, perché scegliere la strada difficile?  L’eterosessualità è un comodo divano su cui ho lasciato il mio corpo assopito per tanto tempo, prima di accorgermi di quanti spilli ci fossero tuttavia fra i cuscini sotto il mio sedere. Invisibilità e cancellazione passano rapidamente da essere una tana in cui nascondersi a una gabbia da cui è complicato uscire.  Perché nonostante la parola bisessuale spicchi al terzo posto della sigla LGBTQIA+, alla rappresentazione e validazione delle persone bi+ non spetta molto spazio nella società sistemicamente monosessista in cui siamo immersə. Se non si hanno modelli, è difficile vedersi. Tantoché per me non era neanche un’opzione.  Così ho passato la mia prima adolescenza a sviluppare un modello relazionale romantico funzionale per le relazioni etero e nel momento in cui ho iniziato ad uscire dall’armadio (fare coming out), mi sono accorta di quanto fosse diverso, complicato e spaventoso per me relazionarmi in modo romantico con persone del mio stesso genere.  In primo luogo, perché crollano tutte le dinamiche implicite di ruolo/stereotipo di genere: anni dedicati inconsciamente a interiorizzare e ricalcare dinamiche patriarcali, a imparare a performare in modo più piacevole per lo sguardo maschile, essere accomodante, assertiva, comprensiva, accudente, ma anche sensuale e ammiccante diventano fuorvianti in una relazione in cui con il partner condividi il non-privilegio di genere.  In secondo luogo, perché fondamentalmente da persona bisessuale, non ci si sente mai appieno parte della comunità queer. La delegittimazione si articola su due livelli, quello personale, la sindrome dell’impostore per avere e aver avuto vissuti romantici tacciabili come “etero”, che ci fanno sentire di “non meritarci” un posto all’interno degli spazi queer di fianco a gay e lesbiche, e quello sociale/culturale esercitato, purtroppo spesso, da parte della comunità queer monosessuale (persone con orientamento gay o lesbico), noto come straight passing privilege. Il termine definisce il pensiero, errato, secondo cui una persona bisessuale subisce solo in parte una discriminazione omo-lesbofobica in quanto, all’occasione, può esercitare il privilegio di stare in una relazione percepita come “eterosessuale”. Questo tipo di ragionamento è bi-cancellante perché vuole inserire forzatamente l’oppressione bifobica all’interno delle discriminazioni omo-lesbofobiche, come se la bisessualità fosse una sottocategoria dell’omosessualità. Ma sono due cose diverse.  La bifobia e la bi-erasure si articolano sulla negazione e cancellazione delle realtà non-monosessuali. Significa subire il pregiudizio di essere vistə come inaffidabile, promisquə, indecisə, in cerca di attenzioni. Vedere definito il proprio orientamento in base al genere del partner. Significa ricordare alle persone che se frequento un ragazzo non sono “ritornata etero”, se frequento una ragazza o persona queer non sono “diventata lesbica”: nel primo caso sono in una  relazione (comunque queer) con un partner con un genere diverso dal mio, nel secondo caso in una relazione saffica, o queer. E che questo non fa di me una persona confusa sul proprio orientamento, o in transizione, in uno step intermedio, verso un altro orientamento. Fa di me una persona bisessuale.  Sebbene le persone omosessuali subiscano lo stesso tipo di oppressione eterosessista che subiscono le persone bisessuali quando sono in una relazione con persone dello stesso genere, è tuttavia importante, ai fini della liberazione bi+, parlare di monosessismo sistemico, come oppressione specifica subita dalle persone bisessuali.  E questa specificità è riscontrabile nei dati raccolti circa l’esperienza della comunità bisessuale. Uno studio condotto da Stonewall UK nel 2017 che ha coinvolto più di 5000 persone queer, ha infatti messo in luce che le persone bisessuali tendono a fare meno coming out in ogni aspetto del loro quotidiano.  Solo il 20% delle persone bisessuali è out con la propria famiglia, contro il 63% di persone gay o lesbiche, e il 36% con gli amici, contro il 74% di persone gay e lesbiche. Solo il 23% di studenti bi+ è out nel contesto universitario, contro il 44% di studenti gay o lesbiche. In ambiente lavorativo, il 22% di lavoratorə bisessuali è out, contro il 57% di persone gay o lesbiche. Inoltre, alla domanda “ti sentiresti supportatə/credutə (dal datore di lavoro) nel riportare di essere statə vittima di bullismo o molestia” solo il 28% di lavoratorə bisessuali si definisce molto d’accordo, contro il 41% di persone gay o lesbiche.  Percentuali comparabili sono riscontrabili quando si parla di servizi medico-sanitari: il 40% di uomini bi e il 29% di donne bi non specificano il loro orientamento sessuale durante le visite mediche contro il 10 % di uomini gay e l’11% di donne lesbiche.  Per quanto riguarda gli spazi queer (come locali, eventi, pride), lo studio evidenzia che il 43% di persone bisessuali afferma di non averne mai preso parte contro il 29% di persone gay o lesbiche, perché percepitə come non benvenutə a causa della loro identità: il 27% di donne bi e il 18% di uomini bi affermano di aver subito discriminazioni all’interno della comunità (contro il 9% di donne lesbiche e il 4% di uomini gay).  Per queste motivazioni, è facile capire come un’esperienza comune per le persone bisessuali sia non sentirsi “abbastanza” bisessuali, o bisessuali nel “modo giusto”. Ed è poi il motivo per cui prima di uscire di casa per andare a un date con una persona queer può succedere che ci chiediamo se saremo credibili, e se verremo credutə.  E allora che cosa si può fare?  Sia che ci si identifichi in un orientamento etero, sia che si faccia parte della comunità queer, riconosciamo e combattiamo la bifobia e la bi-erasure, quando la vediamo o la sentiamo, non lasciando le persone bi+ da sole. Non mettiamo in discussione o sindachiamo la validità dell’orientamento delle persone bisessuali. Non facciamo assunzioni sull’orientamento di qualcuno solo in base al suo partner e utilizziamo un linguaggio inclusivo: una coppia formata da due donne non è necessariamente lesbica e una formata da due uomini non è necessariamente gay. Non riconoscerlo è bi cancellante. Supportiamo la comunità bi+ negli spazi queer, e validiamo il suo contributo storico nei movimenti di liberazione LGBTQIA+.  Riconosciamo la bisessualità come un orientamento vero e completo, non come 50% etero e 50% gay. Smettiamo di giudicare con parametri monosessuali un orientamento che non lo è.  Rendiamo possibile, per chi lo voglia, alzarsi con semplicità dal divano pieno di spilli.  Rendiamo semplice, per le persone bisessuali, non vivere più nell’invisibilità.  VALERIA REGIS   Fonti statistiche riportate nell’articolo:  Sophie Melville, Eloise Stonborough (Stonewall UK), Becca Gooch (YouGov), LGBT in Britain, Bi Report, 2020:  https://www.stonewall.org.uk/system/files/lgbt_in_britain_bi.pdf  Attivistə bisessuali per chi volesse saperne di più:  https://www.instagram.com/anything.that.moves/  https://www.instagram.com/notdefining/  Bisexual Manifesto 1990:  https://bimanifesto.carrd.co/#manifesto 

Saperne di più
SPORT E CICLO MESTRUALE

SPORT E CICLO MESTRUALE

«Quando ero adolescente è stata mia madre a dire al mio allenatore che non mi sentivo a mio agio nei giorni del ciclo con l’abbigliamento da piscina. Bisogna parlare, confrontarsi. Inserire il fattore mestruazioni negli schemi degli allenamenti, non semplicemente dire prendi la pillola». Parola di Federica Pellegrini: la campionessa infatti ha da poco ricevuto una laurea honoris causa, portando una tesi su «La Donna e la Performance: come il ciclo mestruale può influenzare la prestazione». Un tema che lei ha affermato essere importante, per generare informazioni – spesso mancanti –  che ostacolano lo sport nelle persone che vivono l'esperienza delle mestruazioni. Purtroppo anche nello sport, che per la stragrande maggioranza delle persone fa parte della propria quotidianità, esiste ancora un grosso tabù, riguardo all’allenamento durante i giorni del ciclo mestruale. Spesso molte donne tendono ad interrompere qualsiasi attività fisica e sportiva durante le mestruazioni. Nel periodo premestruale e mestruale si palesano una serie di sintomi e manifestazioni che impediscono un regolare allenamento, come: aumento di peso, ritenzione idrica, aumento del volume uterino, pesantezza, gonfiore e dolore addominale. Il periodo post-mestruale è, invece, una fase ottimale per l'allenamento e per un miglior rendimento muscolare. Un altro parametro che spesso scoraggia nella pratica di un’attività sportiva è dato anche dal flusso mestruale. Le persone che hanno un flusso abbondante tendono ancor di più a sospendere l’attività fisica rispetto a chi invece ha un flusso leggero. L’abbondanza del flusso mestruale è sicuramente un problema per chi pratica attività durature poiché la carenza di ferro, o l’abbassamento dell’emoglobina, influisce negativamente sulle performance. Non esiste alcuna controindicazione allo svolgimento di attività fisica durante le mestruazioni, anche se è comunque consigliabile mantenere un'intensità di allenamento più bassa.Vediamo ora come pianificare al meglio l’allenamento in base alle fasi del ciclo mestruale.   Per organizzare al meglio i propri impegni sportivi, un’atleta, e in particolare un’atleta agonista, deve conoscere perfettamente le fasi del ciclo ovarico, in modo da sapere quali sono i periodi in cui è vantaggioso sottoporsi a un determinato tipo di allenamento, in armonia con gli ormoni che si producono. Ma questo vale anche per chi fa sport a livello amatoriale, per allenarsi in modo più proficuo e senza stress. Le fasi del ciclo e gli allenamenti Per pianificare il lavoro sportivo bisogna tener presente che: Nella fase premestruale e mestruale, caratterizzata dalla presenza di estrogeni e progesterone, è bene dedicarsi ad un allenamento più leggero. In questo periodo il corpo deve anche adattarsi ad una serie di cambiamenti quali l’aumento di peso e la ritenzione idrica. Si consiglia di praticare sport come yoga e pilates, queste discipline, oltre al corpo, tengono in grande conto il benessere della psiche. Anche il nuoto è consigliato se si soffre di sindrome premestruale in quanto aumenta i livelli di serotonina e dopamina. Il consiglio degli esperti è quello di evitare esercizi con pesi e allenamenti che coinvolgono la parte bassa addominale. Fare sport, quindi, non solo riduce i sintomi della sindrome premestruale ma aiuta anche a prevenire i dolori del ciclo che sta per arrivare; Nella fase post mestruale, caratterizzata dall’ormone FSH, o ormone follicolo stimolante, vi è un sensibile aumento della capacità di concentrazione e coordinazione: è il momento allora di fare un allenamento dove si richiedono queste particolari abilità, grazie anche al miglior rendimento muscolare. Per questo motivo si consigliano attività più o meno intense come i workout in sala pesi. Di seguito un approfondimento su quali sono le migliori attività fisiche da svolgere durante le fasi del ciclo mestruale: https://fitprime.com/it/magazine/allenamento-e-ciclo-mestruale La miglior regola per effettuare una corretta attività fisica durante il ciclo mestruale è ascoltare il proprio corpo. Generalmente durante il primo giorno di ciclo ci sentiamo con meno energie, dunque è consigliabile effettuare una sessione meno intensa e ridurre magari la durata dell’allenamento. Se il nostro corpo è abituato ad allenarsi 4-5 giorni alla settimana non c’è motivo di non continuare anche nei giorni del ciclo mestruale. L’unica cosa importante è osservare i segnali del tuo corpo, ricordarti di bere tanto per idratarti, integrare nell’alimentazione alimenti ricchi in ferro e vitamine come verdure a foglia verde, legumi, frutta secca e ricordarti che è scientificamente provato che fare attività aiuta ad alleviare i dolori mestruali. Durante l’attività fisica aumentano le endorfine, anche dette “ormoni della felicità”: una sorta di anestetico naturale che il nostro cervello produce e che si rivela quindi particolarmente utile per contrastare alcuni disturbi legati al ciclo mestruale, come dolori addominali, mal di testa e "menstrual blues”, modo più poetico per sottolineare la malinconia della sindrome premestruale. Inoltre è dimostrato che una moderata attività fisica: diminuisce la ritenzione dei liquidi, sviluppa una maggiore tolleranza e resistenza al dolore, aiuta a ridurre i sintomi nel periodo premestruale e mestruale; si rivela utile per contrastare l’ansia ed altri disturbi di tipo psicologico – grazie alla componente sociale tipica dello sport – e aiuta a diminuire lo stress. In conclusione non ci sono regole standard, ma siamo liberi di gestire l’allenamento durante il ciclo mestruale come più ci sentiamo a nostro agio, assecondando la nostra psiche e il nostro corpo.  «Per sentirmi veramente bene nell’acqua ed essere più serena è stato essenziale per me capire che il mio corpo doveva seguire il suo ritmo spontaneo. [...] Ai tecnici di nuova generazione conviene prendere dimestichezza con l’argomento perché le ragazze ne vogliono parlare. Poi per i parametri scientifici servono medici, persone competenti che ti aiutino a esaltare ciò che in quelle date funziona come sempre, la resistenza per esempio».   È arrivato dunque il momento di aprire una nuova conversazione legata alle mestruazioni: quella legata allo sport e in particolare all'agonismo, per abbattere lo stigma e la vergogna con i quali siamo stat* portat* a viverlo. Grazie anche a Federica Pellegrini che con la sua testimonianza ha portato attenzione su un tema che sta a cuore a moltissime atlete professioniste e donne come lei.   Simona Danos  

Saperne di più
Il ritorno delle mestruazioni

Il ritorno delle mestruazioni

Come cambia il rapporto con sé e con gli altri dal menarca al primo figlio? Ne parliamo con Stella Pulpo! Il menarca, l’inizio di una convivenza a cadenza più o meno mensile con le mestruazioni. Emozioni, gioie e dolori pervadono il corpo di tuttə nel corso della età fertile, influenzando anche i rapporti con le persone che ci circondano. Durante questo periodo, le mestruazioni possono interrompersi: ad esempio, con l’arrivo di una gravidanza (per poi ricomparire a seguito del parto).Ma cosa ne sappiamo a riguardo?  Ne parliamo oggi con Stella Pulpo, scrittrice e fondatrice del blog “Memorie di Una Vagina”. Uno spazio, quest’ultimo, dove tuttə, negli anni, hanno avuto modo di parlare di sesso, amore, mestruazioni, relazioni, amicizia, lavoro, di parità, gravidanza e molto altro. Da un anno, inoltre, Stella è diventata madre di una splendida bambina.   Stella, ricordi quando hai avuto il menarca? Ti avevano raccontato qualcosa sull’argomento? Certo, lo ricordo alla perfezione. Era il giorno del mio 12esimo compleanno! Tornai a casa da scuola e trovai le mutande sporche, vidi una macchia molto scura e, sinceramente, non capii subito che si trattava di sangue. Mi lavai, mi cambiai e feci finta di nulla. Dopo poche ore, però, ecco di nuovo comparire la macchia. Chiamai mia madre, e l’arcano fu svelato: ero “diventata signorina” (così usava dire ai tempi).Ero preparata, in generale, perché alle mie amiche stavano arrivando, sapevo che sarebbe successo anche a me, sebbene nessuno mi avesse spiegato dettagliatamente cosa questo significasse per la mia vita e quali cambiamenti avrebbe portato al mio corpo (mi sarebbero cresciute le tette, questo sì, lo sapevo e lo aspettavo).   Negli anni, qual è stato il tuo rapporto con le mestruazioni? Abbastanza positivo. Ho imprecato tutte le volte che si sono presentate in concomitanza di un viaggio, naturalmente, ma abbiamo avuto sempre un rapporto piuttosto pacifico. Puntuali, regolari e brevi. Solo negli ultimi anni, invecchiando (ahimè) sono diventate più dolorose.    Quando hai scoperto di essere incinta, da cosa te ne sei accorta? Una settimana di ritardo. Essendo sempre state puntuali, appunto, la cosa mi ha insospettita. Ho pensato dipendesse dallo stress di quel periodo, ma quando una mattina ho vomitato, ho deciso fosse giunto il momento di comprare un test.     Come hai vissuto il fatto di essere in amenorrea durante la gravidanza? Con naturalezza. La gravidanza modifica il corpo (le forme, i volumi, i colori – penso ai capezzoli e alla vulva che diventano violacei) e le sue abitudini (attività concesse e proibite, alimentazione, sonno), pertanto la sospensione delle mestruazioni è solo uno degli aspetti che segnano un cambiamento rispetto allo stadio precedente.Nel complesso, però, l’ho vissuta come una pausa positiva, un effetto benefico, un po’ come la pelle radiosa e i capelli foltissimi.   E il ritorno delle mestruazioni, invece, che effetto ti ha fatto? Ho avuto il capoparto a un mese e mezzo dal parto, diciamo presto, e la cosa da un lato mi ha fatto pensare: “Oh no! Di già?!”, dall’altro è stato un segnale che il mio corpo stava pian piano tornando alla sua “normalità”.   Dal punto di vista relazionale, com’è cambiato il rapporto col tuo partner durante queste fasi? Il cambiamento del corpo, delle abitudini, dello stile di vita, delle priorità, è un qualcosa che necessariamente modifica la relazione con se stessi, prima ancora che con il partner. C’è l’interruzione delle narrazioni precedenti; c’è la sospensione degli impegni professionali (che spesso contribuiscono ad alimentare la nostra autostima e la nostra vitale indipendenza); c’è il bisogno di rimettersi a fuoco dopo un lungo periodo in cui la quasi totalità delle nostre energie viene indirizzata alla gestazione, espulsione (è gergo tecnico) e accudimento di un minuscolo esemplare della specie.Quando finalmente alzi la testa e ti guardi allo specchio, devi capire dove sei, superare l’inconciliabilità apparente tra chi eri e chi sei diventata, trovare un modo per comprenderti e per riammettere l’altro. Non vale per tutte, sia chiaro. Ma per molte è così: creare le basi solide di una identità nuova, allargata, che tiene il meglio della precedente e aggiunge, è un processo essenziale, ma lento. Richiede consapevolezza. Richiede pazienza.Il partner a volte capisce, a volte no. A volte riusciamo a spiegare cosa proviamo, altre volte siamo troppo confuse per agevolare all’altro un diagramma di flusso della nostra emotività. Di certo, bisogna darsi tempo, avere pazienza, essere clementi, non rinunciare a comunicare, evitare risentimenti inutili, chiedere aiuto senza vergognarsi e senza sentirsi in colpa di qualsiasi cosa. Col partner bisogna ritrovarsi, e ti dirò che è anche bello, superato l’impatto iniziale, scoprirsi in un ruolo nuovo, più ricco (metaforicamente, s’intende, i figli costano), più complesso, più familiare se mi passi il termine.   Stella, alla luce della tua prima gravidanza e del tuo primo anno da mamma: cosa ritieni siano dei falsi miti (sulla gravidanza, il parto e il post partum) e cosa è vero? Vabbè ma qui potrei scrivere un’enciclopedia e mi pare di essere stata già sufficientemente prolissa. Mi limito a dire che, in generale, non esiste una narrazione normativa o universale di questi momenti cruciali nella vita di una donna.Qualsiasi tentativo in questa direzione è inefficace, o disonesto. I falsi miti arrivano da ogni parte (dai social su cui la gravidanza è raccontata con le stesse tinte pastello di una ricetta per fare i cupcakes, come dal consesso di zie/nonne/amiche che sanno sempre il modo giusto in cui devi fare delle cose che tu, povera inadeguata, certamente ignori). L’unica cosa trasversale che, mi sento di dire, viene spesso elusa, è l’ambivalenza che c’è in questi momenti. I significati sono forti, i colori sono saturi, la neomadre vive picchi molto alti di gioia e pienezza, come pure picchi molto bassi di stanchezza, solitudine, angoscia. La mia impressione è che spesso si dia voce ai primi e si tacciano i secondi, magari per paura di essere giudicate male, per il timore che la propria umanità possa essere equivocata come scarso amore materno. Ecco, secondo me sarebbe importante rendere noto che un momento tanto indelebile nella vita, è un momento che include delle tonalità fosche (oltre a quelle bellissime).Che è normale. Che non siamo sbagliate. Che non siamo sole. Che non si tratta solo della stanchezza a star dietro ai pargoli (chi l’avrebbe mai immaginato, che non sarebbe stato rilassante come un soggiorno in un resort di lusso), ma di una forza creatrice talmente potente da modificare l’inclinazione del nostro asse interiore. Che è una cosa straordinaria e spaventosa insieme, alla quale essere un po’ più preparate male non fa. Cosa pensi debba cambiare nel modo di informare le donne riguardo le mestruazioni e la gravidanza? Credo che, oggigiorno, ci siano moltissimi canali per accedere a informazioni anche di discreta qualità su entrambi gli argomenti (questo vale nella nostra cornice culturale, ovviamente, se ci spostiamo ad altre latitudini la situazione è estremamente più critica, basti pensare allo stigma che le mestruazioni rappresentano ancora in molti paesi – spesso in relazione alle religioni – e alla Period poverty che, comunque, è un problema anche da noi, più di quanto si immagini).Detto ciò, penso che sarebbe ora di cambiare la cultura del corpo, lo sguardo che gli rivolgiamo. Imparare a conoscerlo invece di giudicarlo. Accoglierlo e scoprirlo, invece di alimentare disagi e repulsioni. Studiarlo, nel caso del corpo femminile, poiché alcuni suoi funzionamenti (o malfunzionamenti) sono ancora poco noti, dato che per la scienza il corpo standard è quello maschile. Mestruazioni, gravidanza, menopausa, piacere sessuale, sono tutti temi di cui dovremmo discutere di più e meglio, per comprenderli davvero, normalizzarli e liberarli da una quantità imponderabile di falsi miti e pregiudizi.   ANTONELLA PATALANO

Saperne di più
Le prime mestruazioni

Le prime mestruazioni

Tutto quello che vorremmo esserci sentitə dire al posto di “sei diventata una signorina”.   Se potessi tornare indietro e fare visita allə te stessə alla comparsa delle tue prime mestruazioni, cosa ti diresti?È una domanda che mi sono fatta di recente, e penso che ora risponderei: “Benvenuta nel Patriarcato 2.0! Hai appena sbloccato un nuovo livello!”. In realtà mi reputo abbastanza fortunata per la mia prima esperienza con le mestruazioni, soprattutto da un punto di vista familiare.La prima volta che ho visto del sangue sulle mie mutande era sera, stavo per andare a letto. Era piuttosto inequivocabile e sapevo cosa stava succedendo, ma il mio primo approccio è stato la negazione. Le ho tirate su e sono andata a dormire, semplicemente non lo volevo e speravo che il giorno dopo sparisse magicamente. Provavo una sensazione di disagio e vergogna, nessuno doveva saperlo. Non sopportavo che stesse succedendo a me, l’ho vissuta come un vero e proprio alto tradimento del mio corpo. In un momento in cui non faceva altro che deludermi, cambiando, modificandosi, gonfiandosi in curve nuove e ai miei occhi orribilmente sproporzionate, il ciclo mestruale era l’ultima coltellata alla mia autostima già precaria. Ma la mattina dopo non solo non se ne era andato, ma urlava ancora più forte e imperante la sua presenza ingombrante nelle mie lenzuola. Non si poteva più fare finta di nulla, così con il passo di chi non ha scampo di fronte al suo destino, mi sono diretta in bagno, e lì ho chiamato mia madre, come se casualmente lo avessi appena scoperto. Le ho mostrato preoccupata la situazione, e lei molto dolcemente è andata a prendermi delle mutande pulite e comode. Mi ha messo il primo assorbente, facendomi vedere come si faceva, poi mi ha chiesto se stessi bene e se preferissi non andare a scuola. Ed io che ero già stata abbastanza svilita da tutta la situazione e volevo resettare una parvenza di normalità il prima possibile, ho deciso che certo che sarei andata a scuola. Ma le medie sono un periodo difficile, specie se hai una presenza enorme e ingombrante in mezzo alle gambe, che si muove ad ogni passo e ti fa sentire costantemente sporcə e diversə. Ricordo che quando sono entrata in classe, era come se tuttə lo sapessero. Facevo attenzione a muovermi nel più naturale dei modi possibile, e prima della campanella dell’intervallo ripassavo mentalmente in modo maniacale i passaggi per prendere l’assorbente nello zaino, metterlo in tasca, alzarmi senza sporcarmi, arrivare fino in bagno, cambiarmi senza fare rumore e buttare l’assorbente usato nel cestino (rigorosamente fuori dai bagni) senza farmi vedere da nessuno. Perché nessuno doveva sapere che io avevo le mestruazioni. Ora, prima di scrivere questo articolo, ho deciso di intervistare confidenzialmente un po’ di persone con mestruazioni, per confrontare le esperienze e capire in poche parole, se solo io avessi vissuto il ciclo mestruale alle medie in modo tanto traumatico o se fosse un’esperienza condivisa e generalizzabile.Ed effettivamente ciò che è emerso si articola su due livelli: come la tematica è stata affrontata in contesto familiare, e in seguito a livello scolastico-educativo. Nel primo caso le testimonianze spaziano in modo più assoluto: in molte famiglie le mestruazioni sono state nascoste ed escluse dagli argomenti da tavolo, liquidate dalle madri con un “sai già tutto, no?”, in altre acclamate e festeggiate con telefonate ai parenti e alle amiche di famiglia, accompagnate da discorsi commossi sulla vita e l’ingresso nel “mondo delle donne”. Entrambi gli approcci demonizzano le mestruazioni: rendendole un argomento tabù si finisce per parlare di ciclo mestruale solo quando e se diventa un problema, come di fronte ai dolori dei crampi. Viene così patologizzato, esiste solamente quando si manifesta sopra le righe. E comunque spesso non validato, neanche nel dolore fisico. Invece, esaltandolo e caricandolo di chissà quale significato simbolico legato alla femminilità, al divenire donne, si ottiene un risultato simile: il ciclo mestruale viene denaturalizzato e la sua comparsa viene vissuta collettivamente in un’ottica culturale binaria che lo attribuisce all’esistere in quanto donne. Come se per essere donna si debba necessariamente mestruare, un tipo di discorso ingenuo (e inevitabilmente tradizionalista) che non solo è escludente per donne transgender, persone in menopausa o con condizioni che impediscono la presenza di mestruazioni, ma che misgendera (ovvero attribuisce un genere a una persona che non si identifica in tale), in modo piuttosto violento, persone non binarie e ragazzi transgender con mestruazioni. E riduce la “donna”, ancora una volta, alle sue semplici funzioni biologiche. Ma l’esperienza più significativa spesso è quella vissuta in ambito educativo-scolastico. Alla maggior parte delle persone le prime mestruazioni compaiono durante il periodo delle medie (intorno ai dodici anni). Ora, l’Italia non prevede nessun tipo di formazione obbligatoria in materia di educazione sessuale nelle scuole, perciò ogni istituto decide in modo autonomo, influenzato dal contesto socioculturale e dalle correnti politiche o religiose dietro all’istituto. Non è così sorprendente perciò che molte persone, di fronte alle loro prime mestruazioni, non ne abbiano mai sentito parlare, se non in modo molto teorico durante qualche frettolosa lezione di scienze alle elementari e medie, in cui al massimo vengono illustrate le fasi del ciclo mestruale e il viaggio dell’ovulo all’interno del sistema riproduttivo femminile. Per quanto mi riguarda, nessun istituto educativo mi ha mai insegnato a mettere un assorbente. Nessun istituto ha mai accennato all’esistenza delle malattie ginecologiche invisibili connesse ai dolori mestruali (come l’endometriosi), o mi ha insegnato a riconoscerne i sintomi. Nessun istituto mi ha mai spiegato nel pratico come convivere con il mio corpo durante le varie fasi del ciclo mestruale, come i diversi ormoni che entrano in gioco influenzano il mio umore e come vivere serenamente la loro comparsa. E penso che queste considerazioni, se riguardiamo al nostro passato, valgano per moltə. E se sommiamo a questo il fatto che il sangue mestruale si dimostri solamente a livello rappresentativo un enorme tabù culturale (pensiamo alle goccioline azzurre che ci vengono mostrate in televisione nelle pubblicità di assorbenti), è facile spaventarsi e andare nel panico quando a dodici anni insieme a un po’ di mal di pancia per la prima volta il tuo corpo sputa sulle tue mutande qualcosa di totalmente nuovo e incontrollabile. Ed è facile comprendere come il terrore più grande per unə ragazzinə con mestruazioni sia sporcarsi i pantaloni o che scappi un assorbente fuori dallo zaino. Tutta la società intorno a noi, su vari livelli, in modo implicito o esplicito, ci spinge a vivere le mestruazioni come un’esperienza privata, che va nascosta e gestita con discrezione e contegno, che è bene non parlarne. Così finisci a chiedere sussurrando alle tue compagne se hanno un assorbente perché ti sono arrivate “le tue cose”, perché anche il loro nome è motivo di imbarazzo, e a fare passaggi di assorbenti sotto-banco neanche fossero illegali. Poi crescendo, le cose migliorano, si acquisisce consapevolezza e sicurezza, e impariamo sulla nostra pelle che tutto sommato non ci importa, politicizzandoci. Ma questo dopo essere diventatə forti e sicurə, cosa che quando hai dodici anni, da solə di fronte alle tue prime mestruazioni, non sei. Perciò, per tornare alla domanda iniziale, se potessi tornare indietro e fare visita allə te stessə alla comparsa del tuo primo ciclo mestruale, cosa ti diresti?Che sarebbe stato bello se di questo tipo di formazione se ne fosse occupato un ente pubblico formato e specializzato, come la scuola. Che sarebbe stato molto meglio se l’istruzione a riguardo fosse stata orizzontale e accessibile a tuttə, ragazzi, ragazze e ragazzə, e non lasciata in mano a riti e spiegazioni fai-da-te delle famiglie. Che non è e non deve essere un argomento da tenere chiuso in bagno, che non ti rende più o meno donna, che anzi non ha proprio niente a che fare con la tua identità di genere, e non ti rende più o meno valida come persona. Che non è sporco, nè fisicamente, nè culturalmente. Che può essere doloroso o può non esserlo, ma che se lo sarà eccessivamente, sarai ascoltatə e credutə, almeno dalla tua rete, che ti aiuterà a rivolgerti allə specialistə adeguatə. Ma soprattutto, anche se sembra che nessuno ne parli, forse non sarà così per sempre. Che non sei solə, e non sono solo tue, sono le mestruazioni di tuttə.   VALERIA REGIS

Saperne di più
Perché le app per monitorare il ciclo mestruale sono diventate un problema per le donne americane?

Perché le app per monitorare il ciclo mestruale sono diventate un problema per le donne americane?

Le app per monitorare il ciclo mestruale sono veri e propri diari di salute: non solo permettono di registrare le date del ciclo, ma anche eventuali ritardi e rapporti non protetti. Dati che, negli Stati Uniti dove l’aborto è diventato illegale, potrebbero venire usati per avviare procedimenti penali. È per questo che negli ultimi giorni, da quando la Corte Suprema degli USA ha revocato il diritto federale all’aborto, in particolare ribaltando la storica sentenza “Roe vs. Wade” del 1973 che legalizzava il diritto all’interruzione di gravidanza, molte donne americane si stanno affrettando a disinstallare queste app dai loro cellulari. Questo perché, negli Stati dove l’interruzione di gravidanza va contro legge, i pubblici ministeri, potrebbero richiedere le informazioni raccolte dalle app. Le donne americane, si stanno così organizzando per correre ai ripari, consce che in moltissimi Stati – la metà, dicono gli analisti, una ventina di Stati a guida repubblicana hanno già approvato o sono pronti a varare leggi che eliminano il diritto di scelta delle donne, gli Stati a guida democratica dovrebbero invece mantenere legislazioni che consentono l’aborto – a breve sarà contro la legge procedere all'interruzione di gravidanza. Intanto, come primo provvedimento, la popolazione sta cancellando le app per il monitoraggio del ciclo mestruale dai loro telefoni, spinta dalla paura che lo Stato possa accedere ai dati su corpo, ciclo mestruale risalendo quindi ad una loro eventuale gravidanza e a un loro eventuale aborto. Non è pura fantascienza, purtroppo: come spiega il Guardian, in uno Stato in cui l'aborto è un reato, i pubblici ministeri potrebbero richiedere le informazioni raccolte da queste app durante le indagini (anche se l'azienda ha sede all'estero, tra l'altro). "Se stanno cercando di perseguire una donna per aver abortito illegalmente, possono citare in giudizio qualsiasi app presente sul loro dispositivo, comprese quelle di monitoraggio del ciclo". Quasi una donna americana su tre fa uso di queste app per monitorare le mestruazioni, che tornano utili per molti aspetti, dalla pianificazione familiare, al rilevamento dei primi segni di problemi di salute, fino alla scelta del momento più adatto per una vacanza. Ma quanto sono protetti i dati archiviati su queste app? Ogni azienda ha la propria politica di privacy, ma secondo uno studio del 2019 pubblicato sul British Medical Journal, il 79% delle app sanitarie disponibili su Google Play Store condividono regolarmente i dati degli utenti. È anche possibile che, da allora, le app abbiano cambiato politica. Ad esempio, l’app Clue per il monitoraggio del ciclo (con sede a Berlino ed è una delle due più popolari in Usa insieme a Flo), dichiara di non archiviare dati personali sensibili senza l'esplicito consenso dell'utente e di essere «impegnata a proteggere» i dati sanitari privati ​​degli utenti, operando secondo le rigide leggi europee del GDPR (General Data Protection Regulation, il Garante della Privacy).  Ma, al Guardian, l’avvocato Lucie Audibert, della Ong Privacy International, spiega che «solo perché i dati vengono elaborati da una società europea, non significa che l'app sia del tutto immune dall'azione penale statunitense». Quando si tratta di una richiesta legale legittima da parte delle autorità statunitensi, le aziende europee di solito si attengono. Inoltre, una società europea potrebbe ospitare dati al di fuori dell'Unione Europea, rendendoli soggetti a diversi quadri giuridici e accordi transfrontalieri. L'app Flo, sul suo sito, assicura di utilizzare solo dati «per attività di ricerca». Nel 2021, la Federal Trade Commission (FTC) ha raggiunto un accordo con Flo, secondo cui la app deve ottenere le autorizzazioni dell'utente prima di condividere le informazioni sulla salute personale. Flo ha annunciato che presto lancerà una «modalità anonima» per mantenere i dati degli utenti al sicuro in qualsiasi circostanza. Il consiglio di Evan Greer, vicedirettore del gruppo per la protezione dei diritti digitali Fight for the Future, per proteggere i dati sanitari sensibili è quello di utilizzare solo app che archiviano i dati localmente anziché nel cloud, anche quando questo implica più ricerca a livello di informazione.   SIMONA DANOS

Saperne di più
Inciampare nel poliamore (e restarci)

Inciampare nel poliamore (e restarci)

Come sono passata dal considerare la monogamia l’unico modello relazionale percorribile, a non immaginarmi in nessun altro rapporto romantico al di fuori del poliamore. E tutti gli errori che ho fatto (finora).   Cosa spinge una ventitreenne che ha chiuso da poco la prima relazione seria e lunga (e monogama) ad approcciarsi al mondo delle non monogamie consensuali? Prima, qualche definizione: per poliamore si intende una relazione consapevole, impegnata, in cui lə partner(s) sono liberə di avere diverse relazioni romantiche, emotive e sessuali, con più persone, senza una gerarchia relazionale (solitamente).Ma questo l’ho scoperto dopo esserci inciampata per sbaglio. E dopo qualche incomprensione e malinteso.In seguito alla chiusura della mia relazione, tutto ciò di cui avevo voglia era conoscere tante persone, non impegnarmi e avere una vita sentimentale spensierata e perché no, anche frivola. Ma in poco tempo sono dovuta scendere a patti con la dura realtà che ha distrutto il mio sogno libertino: non riesco a provare attrazione per una persona se prima non si è instaurato un qualche legame emotivo.Così tutto l’amore che avevo immagazzinato negli anni e riversato solo nei confronti di una persona, mi è esploso fra le mani. E ho fatto una grande scoperta: si può essere innamoratə di più persone, contemporaneamente. Perché le persone con cui uscivo mi piacevano tutte, e davvero molto. Ma non mimetteva a mio agio l’idea che, col passare del tempo, avrei dovuto scegliere, anche per rispetto delle persone che frequentavo.Perché, come tuttə, sono cresciuta con l’idea che alla fine l’unico modello relazionale impegnato, serio e riconosciuto, fosse la monogamia. E perché all’inizio, appunto, neanche sapevo con chiarezza cosa fosseuna relazione poliamorosa. Non avevo neanche considerato l’idea che superata la prima fase di frequentazione, le persone con cui stavo uscendo sarebbero state disposte a mantenere il rapporto così com’era, nel lungo termine.Parlandone con lə amicə, i consigli che raccoglievo passavano da “è solo un momento, poi quando ti affezioni davvero a qualcunə verrà naturale lasciare le altre frequentazioni indietro” a “mantieni una relazione aperta, dedica le tue attenzioni emotive e romantiche a unə partner, e continua nel mentre adavere frequentazioni disimpegnate con lə altrə”. Ma io non volevo scegliere una persona “preferita”. E l’idea di chiudermi ancora in una relazione esclusiva mi metteva agitazione.Peccato che mentre io affondavo in queste profonde riflessioni introspettive, stessi deliberatamente evitando di spiegare la situazione alle persone con cui uscivo, un po’ per timore di perderle, un po’ perché speravo che le cose si sarebbero definite da sole con il tempo, un po’ perché sembra sempre troppo presto per fare assunzioni su potenziali future relazioni. E un po’ per procastinazione.Fortunatamente una sera, davanti a una birra, parlando con un ragazzo con cui uscivo da circa un mese, e con cui mi sentivo molto tranquilla a comunicare emotivamente, è uscito l’argomento. Ho deciso di raccontargli che la sera prima avevo rivisto una ragazza con cui ero uscita per un periodo, ma che poi avevoperso di vista, e che insomma ci eravamo ritrovate.Pensavo lo avrebbe subito interpretato come un modo per chiudere la nostra frequentazione, invece, semplicemente incuriosito, mi ha chiesto come fosse andata. Così gliel’ho raccontato.Ho scoperto in quel momento quanto fosse complicato per me parlare di una persona che mi piace ad un’altra persona che mi piace, perché il preconcetto che l’amore è uno solo è davvero radicato, ed è difficile da decostruire. Non volevo devalidare l’interesse che provavo nei suoi confronti durante ilracconto, quindi goffamente, di tanto in tanto, provavo a rassicurarlo sul fatto che effettivamente la nostra frequentazione dal mio punto di vista non ne avrebbe risentito.Quando ho finito di parlare, avendo notato il mio disagio, mi ha riportato l’esperienza di sua sorella, che da alcuni anni ha diverse relazioni romantiche stabili, durature, affezionate. Mi ha raccontato della sua polecola e di come nella loro famiglia la cosa fosse stata normalizzata tempo fa. E che tutto sommato anche a lui la monogamia stesse stretta. È stato un momento di grande rivelazione per me. Da quel momento ho iniziato ad informarmi, a leggere e a seguire attivistə poliamorosə per andare più in profondità nell’argomento, e farmi un’idea più solida.Inutile dire che, pervasa da questa nuova energia e avendo focalizzato tutte le mie ricerche e attenzioni sulla realtà delle relazioni poliamorose, ho finito per dimenticare che alla fine viviamo in un mondo prevalentemente culturalmente monogamo, e così ho mandato a monte tutte le altre frequentazioni, pereccesso di entusiasmo. Ho capito se non altro che è una di quelle cose che è bene dire subito, per evitare fraintendimenti. Da quel momento è andato tutto meglio.Tutta la vicenda mi ha fatto riflettere su quanti modelli relazionali esistano al di fuori delle relazioni esclusive tradizionali che, per motivi culturali, siamo quasi tuttə abituatə a vedere come unica via percorribile per una relazione stabile e seria.Mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con una serie di nuove problematiche che si aprono nel momento in cui si concorda con lə partner(s) un modello relazionale fondato sulla non monogamia consensuale, come la gestione consapevole della gelosia e la sua accettazione e decostruzione, l’organizzazione del tempo, la definizione di accordi e la chiarezza e la trasparenza del love language. Il dialogo diventa uno strumento fondamentale per confrontarsi sulle proprie insicurezze, per responsabilizzarsi delle proprie emozioni, e per imparare a stringere rapporti a partire dalla libertà, propria e dellə partner(s).Per quella che è la mia esperienza, il percorso di decostruzione dell’amatonormatività, ovvero l’assunto che vede nello stare in una relazione romantica, esclusiva e a lungo temine, un obbiettivo universalmentecondiviso, richiederà molto tempo e molto lavoro sulla mia persona. E sono sicura che farò tanti altri errori.Però quantomeno, ora sono sicura che questo modello relazionale sia quello che mi si addice di più, in questo momento.Purchè ci sia accordo e rispetto fra partner, non esistono modelli relazionali più giusti, o più sani o efficaci, ma solo che si adattano meglio alle persone coinvolte nel rapporto.Perciò perché non dare una possibilità e spazio ad altri tipi di relazione?   VALERIA REGISAttivistə, informazioni e approfondimenti su poliamore e NMC:https://www.instagram.com/polycarenze/https://www.instagram.com/polyphiliablog/https://www.instagram.com/faqthepolypodcast/https://www.instagram.com/marjanilane/https://www.instagram.com/bygabriellesmith/https://www.instagram.com/unapolygetically/

Saperne di più
Reality show bizzarri e quote arcobaleno

Reality show bizzarri e quote arcobaleno

Tra gli orrori quotidiani che si sentono a proposito della Russia era uscito, circa un mese fa, uno scandalo che per qualche ora ha spostato l'attenzione della nostra – legittima – indignazione a proposito della guerra verso qualcosa di diverso. Il colpevole di tale momentaneo cambio d'obiettivo è stato un reality show dal titolo quantomai inequivocabile: I'm not gay. Si tratta di un gioco in cui, mimetizzato tra una massa di virilissimi giovani maschi eterosessuali, si nasconde un gay. E va scovato. Il pezzo, a questo punto, potrebbe finire: l'assurdità della sfida è tale che non varrebbe nemmeno la pena di parlarne (e infatti non sono stati molti i giornali a farlo), tuttavia crediamo che da qui possano derivare alcune riflessioni. Lo scandalo, se c'è stato, ha avuto un'eco ben lieve, se non tra una buona fetta della comunità LGBTQ+. Ciò è dovuto in parte al fatto che il conflitto ucraino è tornato presto a imporsi sulla scena mediatica, e in parte perché in Europa conosciamo bene le apertissime posizioni omofobe della Russia, tanto da non stupirci neanche più. E forse non colpisce neanche che il reality sia stato ideato e condotto da un parlamentare russo, Vitaly Milonov, già noto per i suoi aspri estremismi nel campo. Non ci stupiamo, perché gli orrori che può commettere la Russia sono così ampi che un gioco innocente – non lo è, noi lo sappiamo bene – passa di gran lunga in secondo piano; ma soprattutto ci consoliamo dall'alto della nostra superiorità culturale perché qua da noi non succede. Non può. È vero. In parte. È indubbio che la nostra sensibilità è ben cambiata negli ultimi anni, e che la nostra apertura verso tutto ciò che non è cis/etero sta poco a poco crescendo, ma è allo stesso tempo vero che fino a qualche anno fa esistevano nella nostra televisione programmi (quasi) altrettanto orribili. Fino a pochi anni fa la cultura ultra-machista, maschilista e sessista entrava quotidianamente nei nostri salotti in prima serata, o all'ora di cena, tramite quella infinita serie di produzioni che esponevano come bambole corpi di ragazze semi nude e senza nome, lasciandole mute a sorridere allo schermo mentre il presentatore di turno, maschio, aspettava il momento giusto per farle l'ennesima battuta a sfondo sessuale, con tanto di risate di pubblico e famiglie. Lentamente, tuttavia, grazie alla nuova sensibilità acquisita, abbiamo cercato di lasciarci alle spalle certi modelli, ma sostituendoli con che cosa? A ben osservare il palinsesto odierno, specialmente di certi canali, pare che il problema sia stato soltanto arginato. Gli astuti produttori, per evitare di cascare malamente in qualche inevitabile critica, hanno cominciato a piazzare strategicamente qualche specchietto per le allodole qua e là, quanto basta per avere il fondoschiena al riparo in caso di attacchi. Così il vecchio La pupa e il secchione, reality show in cui una ragazza molto bella e necessariamente stupida cercava le attenzioni del maschio bruttino ma naturalmente intelligente, è stato tramutato ora in La pupa e il secchione e viceversa, come se in quell'avverbio ci fosse la soluzione a tutti i problemi impliciti di discriminazione di genere che aveva il programma. Allo stesso modo, di recente si cominciano a vedere uomini valletti di fianco alle solite ragazze: così adesso sono entrambi i generi a sorridere alla telecamera e a mostrare con qualche ammiccamento il loro bel fisico. Non che ora alla ragazza venga riconosciuta qualche qualità, ma per lo meno c'è un uomo al suo fianco a salvare tutti da una spaventosa accusa di sessismo. Che poi le battutine continui a riceverle lei, poco importa. È come se si fosse improvvisamente sentita la necessità, in televisione, di una quota azzurra, il bisogno di uomini in ruoli in cui generalmente venivano piazzate e discriminate le donne. E lo stesso, se non peggio, vale per la comunità omosessuale. In quel caso sembra che le quote gay – quote arcobaleno, forse? - siano inevitabili per sempre più programmi, perché così si dimostra al mondo l'inclusività nella scelta dei protagonisti. Ma devono essere omosessuali più che palesi, stereotipati al massimo grado, perché il pubblico a casa si deve accorgere che quella persone è gay, e chissà, magari nel privato del suo salotto, ridere dell'eccentricità di quel personaggio. Devono essere vestiti in modo kitsch, devono parlare come la più scadente delle imitazioni di un omosessuale, e sovente – ma forse questa è puramente una nostra impressione – devono essere uomini. Le lesbiche non hanno tutto questo spazio, o comunque non sono così palesate. Chissà, evidentemente non fanno piglio, non stupiscono. Beate loro. Non è chiaro se tutto ciò sia un goffo tentativo di inclusività o soltanto un contentino per far star zitt* chiunque in questi anni abbia protestato contro il sessismo – e non solo – presente sulla nostra televisione. Quello che è certo, però, è che da noi il reality I'm not gay non potrebbe mai e poi mai (e poi mai) esistere; e di questo possiamo consolarci. Perché in fondo siamo dei bravi maschi bianchi etero. E viceversa.    ENRICO PONZIO

Saperne di più