Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto
MALE GAZE (lo sguardo maschile al mondo)
Ogni volta in cui provo a spiegare a un uomo i numerosi significati che troviamo nell’essere donna in una società di stampo patriarcale, sento sempre sbuffare, vedo tanti occhi al cielo, sento diverse risatine e vengo immediatamente accusata di essere “così esagerata”. Il tema di cui vorrei parlare oggi è quello che cerco di spiegare agli uomini che mi circondano, sentendo di avere il compito di donargli un punto di vista che non possono conoscere e con il quale non hanno mai avuto a che fare nonostante, questa società di stampo patriarcale, in qualche modo, vada indirettamente a colpire anche loro stessi. Ho letto tantissime cose riguardo al “male gaze” ovvero allo “sguardo maschile”, di come abbia influito moltissimo nella definizione popolare del “ruolo” ( e dell’aspetto ideale) della donna nella nostra società e di come abbia indirettamente influito anche sull’uomo stesso, andando a stimolare in esso l’imitazione continua di un modello tossico fino alla formazione, ovviamente, di una cultura nociva vera e propria. Per “sguardo maschile”, quindi, non s’intende soltanto uno sguardo sessualizzante, ma s’intende anche la genesi di questo modello culturale che affonda le proprie radici nella narrazione, nell’unico punto di vista maschile (non neutro) attraverso il quale il mondo è sempre stato abituato a vedere. Lo troviamo nel cinema, da dove ho scoperto nasce proprio questo nome “male gaze”, nella televisione e anche, ovviamente, nella vita quotidiana. Una delle cose che mi viene più difficile è spiegare a un uomo che cosa significa questo sguardo per noi donne e di come sia stato difficile accorgersi, crescendo, di come questa subdola manipolazione abbia effettivamente creato inconsciamente una convinzione radicata in noi donne (e con effetti sulla cultura) per la quale il nostro valore fosse solo giudicabile tramite quello sguardo (quindi un punto di vista) maschile e tramite le sensazioni ed emozioni scatenate in questi ultimi con l’inconscia convinzione, fin dalla nascita, che il nostro ruolo fosse solamente legato al puro e semplice scopo di appagare, sostenere, accomodare e di conseguenza farsi accettare, farsi definire ed eventualmente farsi scegliere da questo “uomo protagonista”. Come se dovessimo anche essere “degne” di essere scelte. Svegliarsi è come ricevere una mattonata in faccia, una doccia fredda tramite la quale prendere atto della quantità di luoghi/situazioni/sistemi e comportamenti tossici di cui siamo sempre state circondate, e di come essi vengano socialmente giustificati e considerati “normali” e, di conseguenza, messi in atto meccanicamente dalla società con lo scopo di andare a rimarcare questo “male gaze” che noi donne, purtroppo, abbiamo saldamente scolpito dentro di noi. (Non è una colpa, crescere in un ambiente così ci ha portate ad avere questo sguardo/pinto di vista dentro di noi). Chiaramente, questo sguardo, questa narrazione maschile, ha dato un significato al corpo della donna posizionandola non solo come soggetto dipendente dall’uomo ma, di conseguenza, anche come oggetto sessuale con l’unico scopo di soddisfare le pulsioni del maschio eterosessuale. Un corpo, in pratica, di proprietà dell’altro, facente parte di una donna senza alcun sentimento, desiderio o controllo. Da qui, potremmo collegarci tranquillamente anche al significato vero e proprio del problema del “Cat Calling”, di come l’uomo si senta in diritto (spinto da quello che viene schifosamente giustificato come istinto animale) di osservare e commentare il corpo della donna e di come lei, di conseguenza, non possa ribellarsi e di cui, secondo loro, dovrebbe sentirsi compiaciuta per il valore sessuale e quindi sociale dell’attenzione che lui ci sta REGALANDO. In fin dei conti, secondo questo sguardo maschile, il valore di una donna è direttamente proporzionale alla sua desiderabilità, alla sua bellezza e al desiderio sessuale che essa è in grado di smuovere nell’uomo (tramite il proprio corpo). Essere guardate e di bell’aspetto è infatti qualcosa che ci viene inculcato fin dalla tenera età e da cui, nel mio parere, ne deriva anche una parte di causa della famosa “competizione femminile” come se, inconsciamente, facessimo a gara tra di noi per ricevere le attenzioni (capaci di farci sentire importanti e valorose) del narratore della nostra storia lasciandogli il potere e il controllo di incasellarci/indicarci un ruolo (chiaramente sbagliato) che, in realtà, per colpa di questa società di stampo patriarcale, la donna fatica a trovare da sola. Se ci pensiamo, infatti, nella nostra società la donna considerata “valorosa” e “degna di attenzioni” viene sempre dipinta come una persona passiva, accomodante, dipendente dall’uomo, amorevole, bisognosa d’aiuto e, perchè no, anche futura madre (spoiler, anche le religioni hanno messo un bel carico). Inutile dire che questo, infatti, influisca letteralmente sul modo in cui noi donne percepiamo noi stesse ( e le altre) sia fisicamente ma anche nella comprensione della nostra funzione nella società. Questa continua oggettificazione della donna porta inevitabilmente ad annullare la persona, ad annullare la sua identità e il suo reale ruolo nel mondo e, di conseguenza, smuove nel soggetto colpito un’insicurezza riguardo alle sue capacità professionali, un’insicurezza e senso di estraneità con il proprio corpo e una vergogna, un senso di colpa riguardo alla propria presenza fisica. Io stessa, avendo sempre lavorato in ambienti maschili, sono stata spesso accusata di lavorare solo grazie alla mia bellezza o, allo stesso tempo, sono stata sminuita professionalmente tramite allusioni al mio corpo o, di recente, rimproverata per non aver usato il mio corpo per ottenere più rilevanza lavorativa. Non a caso, con il senno di poi, credo che in qualche modo il mio disturbo alimentare sia stato anche un modo di inconscia (è una malattia) ribellione riguardo allo sguardo sessualizzante dell’uomo e, purtroppo, lo sguardo invidioso delle donne che ho incontrato nella mia vita. Quell’invidia nata, come dicevamo precedentemente, da una massiccia quantità di sguardi maschili che ho sempre ricevuto nel corso della mia vita e che sono sempre stati decifrati erroneamente, dalle altre donne, come metro sociale, come se io fossi appunto più “valorosa” di loro. In un modo o nell’altro, da entrambe le parti, il mio ruolo veniva sempre ridotto unicamente alla mia presenza fisica, senza che io fossi mai davvero, realmente, ascoltata / vista come una persona. Questo continuo rifiuto a livello umano che ho sempre subito (non voglio fare la vittima, ma questa è la realtà) da parte di entrambi i sessi e del mio rifiuto di essere definita donna secondo la definizione maschilista e non quella reale, credo abbia sicuramente influito molto nell’aspetto psicologico e profondo del mio disturbo alimentare e quindi, di conseguenza, al mio rifiuto nell’ avere un corpo che fosse considerato desiderabile sessualmente/eccitante dagli uomini, che fosse considerato oggetto di invidia dalle donne e, infine, che fosse considerato ingombrante dalla sottoscritta, e che andasse a minare la mia credibilità lavorativa. Questa introduzione lunghissima che ho scritto l’ho fatta perchè chiunque leggesse questo articolo potesse in qualche modo calarsi lentamente in un punto di vista femminile, per arrivare quindi a empatizzare con un argomento che purtroppo oggi viene spesso deformato, banalizzato e, purtroppo, non considerato veritiero da una certa fetta di popolazione maschile (non tutta) e, ahimè, femminile. Credo che nel 2023 sia doveroso informarsi, sia in qualità di donne che anche in qualità di uomini, abbracciando l’idea che un nuovo tipo di cultura possa renderci persone elevate e migliori, cittadini di un mondo che rispetta i diritti umani delle donne e che si presta a considerarci tutti uguali, senza essere vittime di discriminazioni, divari di genere e stereotipi di genere. Sperando di essere sempre di più, a far rumore, a scardinare, a unire le forze, per lottare contro una società e, di conseguenza, una cultura che ha sempre fatto di tutto per non ascoltarci. VALENTINA DALLARI
Saperne di piùRadical chic senza radical
Che la rivoluzione che ci sforziamo di portare avanti accolga dentro di sé numerose esigenze - le lotte di genere, l’ambiente, le ingiustizie sociali, il razzismo - è un fatto riconosciuto: diversə attivistə o influencer (spesso le due categorie si accavallano) si impegnano in ambiti differenti e distanti in nome, anche, dell’intersezionalità. Tutto ciò, pensiamo, è positivo: non possiamo relegare ogni singola lotta a un misero individualismo, senza alcuna possibilità di dialogo o incontro. Si parla di tanto, è vero, e perciò capita talvolta che gli argomenti vengano appena sorvolati, sfiorati e poi lasciati da parte per passare al prossimo, impellente come qualunque altro. Ci si batte, sì, con impegno, ma non sempre con la necessaria profondità o preparazione, non sempre con le armi adatte. È ad ogni modo un problema facilmente risolvibile: compito dellə attivistə o influencer non è scavare nel dettaglio dei problemi, ma sollevarli. Che se ne parli è già di per sé un traguardo - soprattutto se pensiamo a certe minoranze, dimenticate oltre che discriminate - ed è un traguardo ancora maggiore il fatto che la gente ascolti. Forse a causa della velocità dei mezzi di informazione o forse per una maggiore sensibilità delle nuove generazioni, l’espansione mediatica di certi dibattiti è notevole rispetto a pochi anni fa, quando tali discorsi erano relegati ai più intimi circoli. La gente ascolta, dunque, legge, parla. E inesorabilmente, come sempre quando si è sulla bocca di tuttə, giungono le critiche. Uno dei cavalli di battaglia di coloro che, infatiditə da queste lotte, vi si oppongono fermamente, è l’accusa di buonismo. Termine vago, in effetti, e piuttosto vuoto, che però può essere sintetizzato con un concetto più specifico, quello di radical chic. Chi è attento ai problemi degli ultimi, chi si batte per l’uguaglianza di genere o si schiera dalla parte dei migranti è, sempre e comunque, un radical chic. Nel dibattito pubblico italiano, tale espressione viene utilizzata - pare - con una frequenza sempre maggiore, e quasi sempre in senso dispregiativo. Il termine è composto da due parole, una inglese e una francese, che indicano rispettivamente una tendenza radicale (appunto) e di sinistra, e un senso di raffinatezza e di moda - chic. Spulciando l’Oxford Dictionary leggiamo che si tratta, in poche parole, dell’ostentazione, molto di moda, di idee radicali e di sinistra. Non solo. Oltre al suo valore estetico, il termine chic sembra implicare un senso di agiatezza economica. Insomma, di ricchezza. Radical chic sarebbe quindi chi, ricco e forse annoiato, si diletta in battaglie sociali dall’alto della sua posizione di privilegiato. L’accusa, se ci pensiamo bene, è proprio quella. Il problema (forse meglio dire uno dei) della sinistra è proprio quello di relegarsi in circoli ristretti, intellettuali o pseudo intellettuali e borghesi, e da questa prospettiva giudicare, proporre, criticare. Ed ecco che in questo modo, negli anni, i suoi consensi sono non solo sprofondati, ma hanno cambiato bacino, nutrendosi di quei pochi laureati, spesso figli di laureati, che forse ancora la ascoltano. E allo stesso tempo sembra non esserci la volontà, da parte della sinistra, di dialogare con il popolo (esiste ancora questo concetto?). E così ci si allontana dalla realtà, le battaglie diventano chiacchiere, e si diventa radical chic. Ora, le lotte di cui parlavamo e nelle quali crediamo fortemente, pur essendo lotte politiche non sono sempre condivise o discusse dalla politica. Sono attivistiə e personaggi pubblici che si battono quotidianamente per far sì che questi argomenti vengano portati alla luce. Tuttavia, e questo è il punto, capita che anche queste discussioni, queste lotte di cui noi stessə facciamo parte, limitino il loro pubblico a una manciata di persone. O meglio: a una categoria sociale specifica, che ancora una volta è composta da giovane laureatə che hanno tutti gli strumenti - neanche sempre - per comprendere il focus della lotta. Il discorso spesso rimane chiuso, limitato a quellə di noi che leggono certi articoli, che seguono le riflessioni di certə attivistə, e che complicano il discorso ripiegandolo su se stesso, ogni giorno di più, senza accorgersi che al di fuori c’è un mondo che non l’ha capito, né vuole seguirlo. L’impressione è che a volte commettiamo il vecchio peccato della sinistra, quello di spaccarsi in microgruppi interni, litigiosi o anche soltanto eccessivamente retorici, che perdono il punto di vista, l’obiettivo. La lotta che portiamo avanti - le battaglie di genere, sociali, antirazziste eccetera - è giusta, senza dubbio. Ma è un’operazione inutile continuare a ripetercelo a noi stessə come a farci i complimenti da solə, è inutile crogiolarci nella consapevolezza di avere ragione puntando il dito contro chiunque non la pensi come noi, tacciandolə come poverə ignorantə. Combattiamo contro questo nuovo pregiudizio che ci pesa sulle spalle, riprendiamoci tutte quelle persone che una laurea non ce l’hanno, che non conoscono l’articolo, o l’attisìvista o l’influencer: convinciamo loro che abbiamo ragione! Che ciò per cui ci battiamo è giusto, che è utile per tuttə, ma facciamolo con umiltà, con ascolto, con il dialogo. Non releghiamoci nei circoli e nei salotti, reali o virtuali che siano. Perché altrimenti, alla fine, diventeremo davvero radical chic. Sì, ma senza radical.
Saperne di piùAnche gli uomini mestruano
Mestruazioni e luoghi pubblici, quando si è transgender: la storia di Elia Bonci tw: disforia, mestruazioni, discriminazione Qualche mese fa ho scoperto un bar col bagno gender neutral. La cosa mi ha sorpreso molto, anche perché vi era una simpatica vignetta che rappresentava un uomo, una donna e un alieno. Alieno, etimologicamente parlando, significa altro. Un altro che, in realtà, nessuno dovrebbe essere costretto a dover rivelare. Come sappiamo, invece, nei bagni pubblici, regna ancora sovrano il binarismo uomo-donna, costringendo le persone ad outing forzati. Pur essendo una persona cisgender, ho compreso in quel momento quanto un posto possa diventare inclusivo, sicuro ed accogliente con pochi e semplici accorgimenti. Infatti in quel bar ci torno sempre volentieri. Per questo motivo, per l’intervista di questo mese ho deciso di contattare Elia Bonci, scrittore e attivista lgbtqia+, autore di tre libri: Diphylleia. Solo l'amore può distruggere l'omofobia;Distruttori di felicità e, infine, Controcuore. Non avere paura di essere chi sei. Da anni sul suo profilo Instagram @elia.lien si batte per sensibilizzare le persone sul tema dell’omofobia e ogni tipo di discriminazione. Inoltre, rende il pubblico partecipe del suo percorso gender affirming e delle peripezie che bisogna affrontare prima di ricevere i nuovi documenti d’identità e accettarsi per quello che si è. Elia, come hai vissuto l’arrivo del menarca? Ho vissuto quel momento come fosse una vera e propria tragedia, che solo a ripensarci mi viene un nodo alla gola. Non avevo informazioni su di me, non avevo gli strumenti adatti per comprendere cosa stesse succedendo al mio corpo e per quale motivo quello che accadeva mi faceva sentire così sbagliato, sporco e inadeguato. Non avevo neanche idea di chi fossero le persone transgender e che, anche io, lo ero. Le informazioni che mi mancavano per comprendermi e conoscermi hanno finito per ferirmi, lasciando spazio a stereotipi, falsi miti e tanto altro. Qual è stata la tua esperienza con i bagni pubblici? Ècambiata nel tempo? Credo che i bagni pubblici siano per me un po’ come quando arrivi alla fine di un videogioco e devi sconfiggere il mostro finale: un’impresa. Andare in bagno in un luogo pubblico ha sempre rappresentato un problema sia perché non esistono (ora ne esistono un po’) bagni neutri sia perché i bagni degli uomini non sono inclusivi e sicuri. Quando devo andare in un bagno pubblico è sempre la solita storia: se entro nel bagno delle donne vengo cacciato e mi viene detto che quello non è il mio bagno, se entro nel bagno degli uomini vengo guardato male, ricevo battutine e non mi sento al sicuro. Oltretutto, nel bagno degli uomini non ci sono mai cestini per gettare assorbenti, confezioni di assorbenti per l’occorrenza e spesso in alcuni ci sono solo orinatoi che, come puoi ben immaginare, sono un problema concreto per una persona trans che deve andare semplicemente in bagno. Si potrebbe risolvere il tutto creando bagni neutri ma forse siamo ancora lontani da questo traguardo. Come ricordi l’acquisto degli assorbenti al supermercato? Anche qui, la situazione che si viene a creare è molto imbarazzante. Spesso gli assorbenti si trovano nel reparto dell’igiene intima femminile, accanto a prodotti di bellezza o comunque su scaffali in cui c’è scritto a caratteri cubitali ‘prodotti per donne’. Questo non è per niente inclusivo, ti fa sentire sporco, sbagliato e inadeguato. Anche le indicazioni sopra alle stesse confezioni dei prodotti sono tutte al femminile, come lo sono le immagini, gli spot e le pubblicità. Le persone transgender non vengono solo escluse dall’immaginario collettivo quando si parla di mestruazioni ma anche dal dibattito che vi si crea intorno, rendendo poco accessibili prodotti per l’igiene personale e per la cura. Ricordi qualche episodio in cui ti sei sentito particolarmente a disagio, quando avevi le mestruazioni? Tutta l’adolescenza. Avere le mestruazioni, essere un ragazzino transgender e non avere gli strumenti per comunicare il mio dolore è stato terribile. Non uscivo di casa, non volevo andare a scuola, ho smesso di fare sport. Privarmi delle cose era l’unico strumento che avevo per cercare di non sentirmi così a disagio. Alla luce del tuo percorso gender affirming, che dura da diversi anni, com’è il rapporto col tuo corpo ora? Il percorso gender affirming mi ha cambiato e salvato la vita. Se prima odiavo il mio corpo, se prima lo ritenevo sbagliato, ora ho imparato a farci la pace. Ho capito che non devo cambiarlo, gettarlo, sostituirlo o distruggerlo. Questo è il mio corpo, è il mezzo tramite il quale sono e vivo il mondo. E non ha niente che non va e niente che lo renda una schifezza, è un corpo come un altro e merita amore, rispetto e cura. Il percorso gender affirming mi ha insegnato a prendermi cura anche delle cose che non mi piacciono di me. Cosa pensi si debba fare per rendere le mestruazioni più inclusive? Come prima cosa, credo sia importante includere nel personetransgender nel dibattito sulle mestruazioni. E per includere non intendo fare spot pubblicitari in cui compaiono (che potrebbe anche andar bene) ma farci parlare e smetterla di parlare al posto nostro. È arrivato il momento di chiedere a noi personetransgender di cosa abbiamo bisogno e non che qualcuno lo decida a priori per noi, basandosi su falsi stereotipi e falsa rappresentanza. Altra cosa che ritengo importante, oltre alla creazione di bagni neutri, è quella di creare prodotti per l’igiene mestruale anch’essi neutri, che non siano tutti al femminile e non escludano nessunə. Infine, non perché di meno importanza, credo che dobbiamo modificare il nostro linguaggio quando parliamo di mestruazioni: non donne che mestruano ma persone con le mestruazioni, non prodotti per l’igiene femminile ma prodotti per l’igiene mestruale e così via. ANTONELLA PATALANO
Saperne di piùVulvodinia e sessualità
Come vivere l’intimità senza dolore Come sappiamo, la vulvodinia è una malattia ginecologica caratterizzata da dolore cronico a carico della vulva e dei tessuti che circondano l'accesso alla vagina, classificata come una condizione invalidante che colpisce più aspetti della vita quotidiana: dalle cistiti ricorrenti, le sensazioni di bruciore, irritazione, secchezza e tensione, all’impossibilità di sedersi, di indossare vestiti stretti, fino alla dispareunia, conosciuta anche come “dolore da rapporto sessuale”. Meno colloquialmente possiamo dire che, con il termine dispareunia, si intende il dolore genitale che si verifica durante il rapporto, e si distingue in superficiale (in sede di penetrazione con dolore urente all’introito vaginale), e profondo (in sede vaginale profonda e nello scavo pelvico). Esso si scatena nella maggior parte di casi in concomitanza con i tentativi di penetrazione, anche se può insorgere ed essere avvertito anche durante o dopo il coito: una condizione che rende difficoltoso vivere appieno l’esperienza senza timori o sensazioni spiacevoli e che risulta essere uno dei principali ostacoli al vivere il piacere sessuale. Di conseguenza, anche il modo stesso di vivere la sessualità, per chi è affettə da vulvodinia, cambia e si differenzia rispetto a quello normalmente (o potremmo dire solamente maggiormente, perché chi definisce cos’è normale o meno per ognunə di noi?) conosciuto. Una delle sfide più importanti che spesso ci si trova ad affrontare è quella di “accantonare” momentaneamente o per sempre (il tutto in base alla propria volontà, alle proprie scelte personali e al proprio monitoraggio del dolore) una parte del sesso per com’è sempre stato vissuto e per come ci è stato imposto dalla società: una società fallocentrica che ci ha spintə a pensare per troppo tempo che il fulcro del rapporto sessuale fosse necessariamente la penetrazione e, che senza di essa, per chi ha un apparato genitale femminile, fosse impossibile godere a pieno. Ovviamente queste affermazioni sono profondamente false: esistono vari modi di vivere la sessualità che non sono legati all’esclusivo atto della penetrazione e che possono essere delle validissime alternative per personə con vulvodinia. Non solo: il mito della penetrazione come unico modo di avere un rapporto sessuale non è l’unico scoglio da superare. È essenziale anche trovare una persona che comprenda il vostro personale modo di vivere la sessualità, rispetti quelli che sono i vostri bisogni e limiti: è importante infatti non sottovalutare mai il disagio fisico che si prova e fermarsi qualora si dovesse sentire dolore. Quali sono dunque le soluzioni alternative per essere intimi e praticare dell’attività erotica che non includa la penetrazione sessuale? Dry humping: ossia lo sfregamento dei propri genitali (o una parte del corpo) contro i genitali e il corpo del proprio partner (potete scegliere di sfregare il clitoride contro il suo pene così come tra le sue cosce o altre zone erogene). Si può fare con i vestiti addosso oppure senza e permette di vivere l’intimità secondo le proprie regole: sarete infatti voi a decidere come e quanto spingervi e muovervi sul partner, gestendovi personalmente in base al dolore. Masturbazione reciproca: masturbarsi a vicenda può essere estremamente sensuale e non comprende necessariamente la penetrazione. Basterà lasciare che il partner tocchi la vulva (clitoride, labbra) senza entrare nella vagina mentre voi masturberete lui - magari guardandosi negli occhi o parlandosi per rendere il tutto più intimo. Masturbare sè stessi mentre si guarda il parthner: questa tecnica lascia ancora più liberə di toccarsi secondo le proprie regole e/o bisogni (è utile soprattutto quando si conosce da poco il partner, che non è totalmente a conoscenza dei nostri limiti/sta ancora imparando, oppure nei momenti in cui si è più sensibili). Tribadismo: detta anche sforbiciata - per la posizione a forbice che la caratterizza - è una tecnica che prevede lo sfregamento di due vulve, per stimolarsi vicendevolmente il clitoride. Fellatio: praticare del sesso orale al proprio partner stimolandolo tramite la bocca è un modo per far eccitare l’altra persona e auto eccitarsi guardandolo. Potete scegliere di concentrarvi esclusivamente sulle sue espressioni di piacere e sui suoi movimenti oppure al contempo sfregarvi sul suo corpo con la vulva stimolando il clitoride. Cunnilingus: è considerata una delle pratiche sessuali che più riescono a dare piacere a una donna e farla arrivare all’orgasmo, di conseguenza può essere una delle alternative più apprezzate alla penetrazione. In più, siccome per le personə affette da vulvodinia è molto importante la lubrificazione, è una delle tecniche che più la stimolano, mischiando fluidi vaginali a saliva. Se non ve la sentite di essere penetrate con la lingua, basterà concentrarsi sul resto della vulva e sul clitoride. Sex toys: al giorno d’oggi esistono tantissimi sex toys progettati per essere usati solo esternamente. Basta pensare ai succhia clitoride a pulsazioni, vibratori esterni che vibrano da capo a piedi - perfetti per essere applicati anche sul perineo o sui capezzoli e in qualsiasi altra zona preferiate - fino ai plug anali. Da usare sia quando siete solə che in coppia! Massaggio erotico: divertimento per tutto il corpo! Farsi toccare, accarezzare e sfregare una ad una le zone erogene fino ad arrivare lentamente e gradualmente, tenendoci sulle spine, alla vulva. MARTA BORASO
Saperne di piùMENTE E CORPO (in conversazione con Sblam Italia)
Mente e corpo sono inseparabili: non esiste l'una senza l'altro. Quando il benessere della mente si crea e si rafforza allora riverbera nel corpo. Quando il corpo sta bene la mente può migliorare liberamente. Questo avviene perché la mente e il corpo sono coinquilini, è quindi importante imparare a prendersi cura di tutto il pacchetto. Ascoltati: che cosa dice la tua testa? Che cosa dice la tua pancia? Cominciamo a pensare a questo. La testa è il tuo ragionamento razionale, il pensiero cognitivo, mentre la pancia è il tuo istinto, la voce del tuo corpo, la bussola emotiva. Se la pancia suona l'allarme rosso qualcosa non va. Cominciando ad ascoltarti e ad avere consapevolezza dei segnali puoi imparare aessere gentile con te e con il tuo corpo, tappa fondamentale nel percorso verso ilbenessere mentale. Mostra gratitudine e apprezzamento per il tuo corpo, non per il suo aspetto, ma per tutti processi che sostiene ogni giorno e che ti mantengono in vita e in salute (i polmoni che trasformano l’ossigeno in anidride carbonica, il cuore che pompa il sangue nelle vene, gli occhi che ti consentono di vedere, le gambe che ti permettono di muoverti...). Cerca di riconnetterti con i segnali del tuo corpo: questo può voler dire che a voltepreferirai riposarti e recuperare le energie piuttosto che andare in palestra, ma può anche voler dire che altre volte troverai il tempo di uscire per andare a correre perché sai che è ciò di cui il tuo corpo ha bisogno in quel momento. Chiediti (e cerca di rispondere) che cosa ami del tuo corpo. Cerca di non concentrarti solo sugli aspetti estetici e prendi in considerazione anche gli aspetti funzionali e pratici del tuo corpo. Pensa a tutto ciò che il tuo corpo ti permette di fare ogni giorno. Potrebbe anche solo essere camminare, respirare o digerire il cibo che mangi! Queste cose possono sembrare di importanza relativa, ma sono fondamentali per mantenerti in vita, felice e in salute. Chiediti (e cerca di rispondere) quali siano le cose del tuo corpo per cui sei grat*. Il tuo corpo fa molto per te: ogni giorno ti permette di muoverti attraverso la vita e sperimentare tutto ciò che ha da offrire, non importa quanto tu sia in forma, o che cosa pensi del tuo aspetto. Rispettare il tuo corpo significa trattarlo con dignità e con l’intenzione di soddisfare i suoi bisogni. Apprezzare il tuo corpo è il primo passo di un percorso che ti porta a sviluppare una connessione più profonda con te stess*. Certo, non è sempre facile: la società in cui viviamo tende a premiare l’aspetto fisico con canoni molto rigidi e privilegia i corpi che si conformano a un modello ideale. Questi messaggi vengono pesantemente rinforzati da televisione, social media, riviste, settore della moda, pubblicità alimentari e in generale dalla cultura pop. Ricordati, però, che il rispetto per il tuo corpo viene da dentro e non riguardal’aspetto fisico. È un atteggiamento incondizionatamente positivo nei confronti della tua umanità e di te stesso o te stessa in quanto persona. La dignità e il rispetto sono diritti umani e non dipendono dalla taglia del tuo corpo, ma prevedono che tu abbia cura di esso. Avere rispetto per il proprio corpo significa anche accettare la propria genetica. E imparare ad apprezzarsi. Parti da un presupposto: non tutto è modificabile. Ci sono alcune parti di te che sono lavorabili e altre che devi imparare ad accettare, sei un essere umano quindi avere dei limiti è parte stessa della tua esistenza. Il confronto con il limite e l’accettazione dello stesso sono inevitabili passaggi verso il vero amor di te. E quando parliamo di accettazione non descriviamo un processo disottomissione o di rassegnazione. L’accettazione non porta alla passività di fronte ai sentimenti spiacevoli e dolorosi, ma prende atto che esistano e ti consente di viverli senza soccombere, per diventare più forte. Lavora sulla tua immagine corporea interna. L'immagine corporea risponde sostanzialmente alla domanda: "Come ti vedi quando ti guardi allo specchio o quando ti immagini nella tua mente?". In senso più ampio, include anche le sensazioni che hai riguardo agli aspetti del tuo corpo che dipendono principalmente dalla genetica e non sono sotto il tuo controllo e include anche il come percepisci e controlli il tuo corpo quando ti muovi o ti trovi in situazioni sociali. Tieni presente che l'immagine corporea non è limitata soltanto all’immagine fisica del tuo corpo ma include anche le tue opinioni sul tuo aspetto (compresi i tuoi ricordi, le cose che dai per scontate e le generalizzazioni, ad esempio il modo in cui ti vedi quando guardi delle tue foto). Le persone con un'immagine corporea negativa hanno una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo alimentare e hanno maggiori probabilità di soffrire di depressione, isolamento, bassa autostima e di sviluppare ossessioni per la perdita di peso. Un’immagine corporea negativa può manifestarsi in questi modi:● Avere una percezione distorta delle tue forme: percepisci alcune parti del tuo corpo diversamente da come sono realmente.● Sentirti a disagio nel tuo corpo.● Credere che solo le altre persone siano attraenti e che la taglia o la forma del tuo corpo siano praticamente fallimento personale. Vergognarti, provare ansia e imbarazzo per il tuo corpo. Un’immagine corporea positiva invece è: ● Avere una percezione chiara e reale della tua figura, che ti permetta di vederele varie parti del tuo corpo per come sono realmente.● Sentirti a tuo agio e sicur* di te nel tuo corpo.● Sentirti fier* e accettare il tuo corpo per come è pur non ritenendolo perfetto.● Apprezzare la tua forma fisica e credere che l'aspetto fisico dica poco sul carattere e sul valore di una persona. Capita a tutt* di avere “giorni no”, in cui ci sentiamo a disagio nei nostri corpi, ma la chiave per sviluppare un'immagine corporea positiva è esplorarti, conoscerti, accettarti e valorizzarti. E puoi imparare a fare tutto questo!
Saperne di piùGender fluids
Identità non binarie/trans* e prodotti per mestruazioni Trigger Warning: disforia, mestruazioni Immaginiamo di essere al supermercato, e di stare girando per i reparti. Ad un tratto entriamo nella corsia dei prodotti per mestruazioni. Immediatamente veniamo travoltз da uno tsunami di sfumature di rosa, violetti, colori pastello, font farfallosi, frasi motivazionali dal retrogusto artificiale, delicati petali di rosa, che si innalzano imponenti fino sopra la nostra testa, tutti allineati in un enorme esercito in miniatura che odora di fiore sintetico. È una cosa a cui siamo abituatз, non ci facciamo neanche più caso, ma perché in questa corsia sembra esplosa una bomba di zucchero filato alla caramella? Il rosa è un colore bellissimo, come lo sono i fiori e le farfalle, non è chiaramente questo il problema. Però perché quando si parla di prodotti per mestruazioni allora tutto diventa esclusivamente rosa e fiorelloso? Perché è difficile trovare un qualsiasi altro tipo di rappresentazione, grafica e cromatica, in questo tipo di prodotti? L’equazione mestruazioni = “cosa da donne (cis)”, è tanto immediata e consolidata nella mentalità dominante tradizionale quanto sbagliata, o meglio, escludente: non tutte le persone che mestruano sono donne, così come non tutte le donne mestruano. E, se da un lato la narrativa del “rosa = donna” ha già esasperato le donne cisgender per prime, si rivela decisamente più dannosa e problematica per le persone con mestruazioni che non sono donne. Ma chi sono lз esclusз di questa rappresentazione stereotipizzante? Esiste una vastità di identità di genere che non si identifica, o non si identifica esclusivamente, nel binarismo di genere uomo/donna, o nel genere assegnato alla nascita: persone non binarie, genderqueer, gender nonconforming, genderfluid, agender, e ragazzi e uomini transgender (per semplificazione nell’articolo saranno riportate come identità non binarie/trans*). Persone che mestruano, ma che restano invisibili nelle rappresentazioni dei prodotti per mestruazioni. Infatti, proprio a causa di questa marcata femminilizzazione dei prodotti per mestruazioni, le persone non binarie/trans* possono provare disforia nel momento in cui devono interfacciarsi con un intero sistema-prodotto che non è pensato per loro, ma di cui non possono fare a meno (avere o non avere le mestruazioni in molti casi non è una scelta). Se tutta la società non fa altro che ripetere che l’esperienza di mestruare è solo delle donne, è difficile vedersi, e diventa doloroso e faticoso essere continuamente schiacciatз e appiattitз in un genere a cui non si appartiene, e dalla cui rappresentazione stereotipica ci si vuole allontanare. La disforia di genere infatti (gender dysphoria), è una sensazione di malessere, disagio, alienazione, che una persona non binaria/trans* può provare quando percepisce un disallineamento fra la propria identità di genere e le caratteristiche sessuali assegnate alla nascita. Può essere triggerata utilizzando i pronomi sbagliati (misgendering) o costringendo una persona a rientrare in una categoria binaria (M o F) in cui non si identifica. Come nel caso dei prodotti mestruali. Ma che cosa significa nel pratico? Ho intervistato confidenzialmente alcune persone non binarie/trans* che provano, o hanno provato in passato, disforia in connessione alle mestruazioni, con l’obiettivo condiviso di mettere in luce nel quotidiano cosa comporta convivere con un disagio, causato da una cultura binaria, che viene costantemente invisibilizzato. Lз intervistatз si sono anche resз disponibili nell’offrire spunti utili per immaginare un possibile sistema-prodotto di articoli per mestruazioni meno triggerante e più inclusivo, partendo dalle soluzioni individuali per cui optano nel loro piccolo per marginare, almeno in parte, la disforia (nb: la disforia non viene tuttavia innescata dagli stessi trigger per tutte le persone trans*/non binarie, si è cercato di evidenziare i trigger più condivisi. Non provare disforia non rende una persona “meno” non binaria/trans*, e assumere che una persona provi disforia solo perché non binaria/trans* è sbagliato, ogni esperienza è tanto singolare quanto valida. Ultima precisazione, non tutte le persone trans*/non binarie necessariamente mestruano). Uno dei principali punti è “l’outing al supermercato”: per tornare all’inizio dell’articolo, per molte persone non binarie/trans* acquistare prodotti per mestruazioni è stressante e disforico. Significa recarsi al supermercato, affrontare una corsia di prodotti tutti rosa specificatamente dedicati alle donne, in cui troppo spesso ci sono solo donne, poi arrivare alla cassa e subire misgendering perché gli assorbenti “tradiscono” la propria identità di genere, costringendo all’outing. Per questo alcune persone non binarie/trans* preferiscono, se possono, delegare l’acquisto ad amicз o parenti, acquistare prodotti per le mestruazioni in un quartiere lontano da casa (anche per proteggersi da possibili discriminazioni transfobiche), acquistare i prodotti online, e farseli recapitare a casa, o adottare soluzioni non usa e getta, come la coppetta mestruale, che oltre ad essere più gender neutral (ne esistono trasparenti, o di vari colori, non ha odore, né una forma iconica), risolve il problema di dover reperire ogni mese assorbenti o tamponi. Inoltre, va svuotata meno spesso rispetto ai comuni assorbenti, evitando sia i frequenti cambi in luoghi pubblici, sia di doversi muovere con assorbenti o tamponi in tasca. Un altro punto è “l’universale femminile”: basta navigare nel sito di qualsiasi grande azienda di prodotti per mestruazioni, o guardare qualsiasi pubblicità di assorbenti o tamponi, per accorgersi che sono prodotti “adatti a tutte le donne”, con cui “ogni donna può sentirsi libera di essere sé stessa” e “meravigliosamente unica”. Anche le aziende che stanno provando a svecchiare la loro comunicazione, dando un’immagine più inclusiva e diversificata delle persone con mestruazioni (rappresentando perciò persone disabili, grasse, non bianche, con peli, non giovani e addirittura, in rarissimi casi, trans*), quando si devono rivolgere al loro pubblico consumatore, si rivolgono alle donne e utilizzano i pronomi femminili. E se questo avviene sul piano della comunicazione verbale, è ancora più radicato ed evidente nella comunicazione non verbale: un altro punto è “il rosa imperante”. La scelta di palette-colore nei packaging è nella maggior parte dei casi sui toni del rosa/lilla, i segni grafici sono morbidi e delicati (fiori, gocce, stelline luccicanti, linee curve), i font scelti sono sempre dei corsivi arrotondati: non ci sono spigoli o elementi appuntiti, dinamici, duri. In prima analisi, ingenuamente, si può pensare che una comunicazione così “morbida” possa essere una scelta progettuale consapevole dovuta allo scopo del prodotto, destinato a stare a contatto con parti delicate del corpo. Ma è sufficiente cercare prodotti degli stessi brand destinati ad un pubblico “maschile” (ad esempio assorbenti/salva slip “maschili”) per poter constatare che la comunicazione di immagine del prodotto cambia radicalmente: i colori si fanno cupi (nero, grigio e blu scuro poco saturato), le linee diventano appuntite e nette, i font dritti, imponenti, austeri, non c’è spazio per farfalline e fiorellini. La scritta “men”, per togliere ogni dubbio, è sempre la più grande, al centro del prodotto. Anche in questo caso, per non dover entrare in contatto con questo tipo di comunicazione estremamente binaria, le persone non binarie/trans* con mestruazioni preferiscono adottare soluzioni long lasting (coppetta mestruale, slip assorbenti lavabili), o rivolgersi a brand online più nuovi e attenti ad una rappresentazione inclusiva. In ogni caso, adottare soluzioni a livello personale per scendere a compromessi e convivere il meno a disagio possibile con le mestruazioni non elimina completamente la disforia: la radice del problema è da ricercarsi nella società trans-escludente che invisibilizza tutto ciò che non rientra nei margini di un’ottica cisnormata, e che non offre la giusta rappresentazione e i giusti strumenti di affermazione a tuttз nello stesso modo. Costringere il singolo a giostrarsi fra pochi prodotti involontariamente inclusivi, non è tutelante da un punto di vista sociale, e non troppo brillante da un punto di vista commerciale, perché resta inesplorata una nicchia voraginosa di mercato, che accontenterebbe tuttз, donne cis comprese. Perciò, cosa potrebbe essere fatto? Nel microcosmo, possiamo informarci, ascoltare l’esperienza di chi appartiene alla community non binaria/trans*, educarci al rispetto e ad un linguaggio più inclusivo, co-partecipando alla loro battaglia, soprattutto davanti ad atteggiamenti e affermazioni trans-escludenti, anche se involontarie o inconsapevoli. Correggiamo nei nostri contesti sociali di riferimento le persone che quando parlano di mestruazioni utilizzano l’universale femminile. Se abbiamo amicз/partner non binary/trans* che provano disforia, validiamo e rispettiamo il loro dolore, informandoci senza essere inopportunз su quale sia il modo migliore per essere realmente di supporto in questi momenti (anche farci da parte, se questo è ciò che ci viene richiesto). Se possiamo, acquistiamo da aziende di prodotti mestruali che hanno adottato politiche inclusive, preferendole a quelle che ancora non lo fanno. Nel macrocosmo, d’altra parte, le grandi aziende produttrici di assorbenti dovrebbero rendere i propri prodotti e la propria comunicazione genderfree: superare il binomio rosa/blu scegliendo colori e termini non genderizzanti. L’intero sistema-prodotto dovrebbe essere riprogettato, tenendo a mente che gli assorbenti non sono solo per le donne. Non è un enorme sacrificio parlare di “persone con mestruazioni” anziché di “donne”, non esclude e non offende nessunǝ. Non viene sottratto spazio o rappresentazione alle consumatrici, ma aggiunta e finalmente concessa visibilità al pubblico non binario/trans*. In fondo, tutto sommato, sarebbe così male se un giorno il reparto di prodotti per mestruazioni nei supermercati fosse un’esplosione variopinta di colori? Attivistз non binary/trans* che hanno trattato il tema: https://www.instagram.com/elia.lien/ Video-esperienza utili per approfondire: Dealing with Dysphoria, The Monthly Cycle (For all Genders): https://www.youtube.com/watch?v=deSVNdR_q-I&t=207s Period advice for trans guys: https://www.youtube.com/watch?v=4dcondd69vY
Saperne di piùQuesta sono io e qui comando io
C’è una società diretta esclusivamente da una regina, che va avanti da oltre 100 milioni di anni e si estende su tutto il pianeta. No, come potete immaginare non ha nulla a che vedere con l’Inghilterra, anche se l’inno dei Sex Pistols le si addice comunque. Si tratta della società, osiamo dire matriarcale, delle api. Il capo supremo è appunto la regina, membro dominante e - letteralmente - madre di tutte le api presenti nell'alveare. È l'unica femmina che viene fecondata e che è quindi in grado di deporre uova e di conseguenza preservare la colonia. L'ape regina è anche responsabile della regolazione della temperatura e dell'umidità all'interno dell'alveare e della difesa dalle minacce esterne. All'interno della colonia vige una gerarchia ben definita e le api operaie (anch’esse tutte femmine) lavorano insieme per svolgere le diverse attività necessarie. Forse per ironia della sorte, in una società così longeva i fuchi, ovvero i maschi, non hanno affatto ruolo dominante: sono più piccoli e non hanno il pungiglione, non possono dunque difendere l'alveare. Il loro compito è principalmente quello di fecondare la regina, a volte di curare i piccoli e ‘pulire’ le celle in cui vengono deposte le uova. Il resto del tempo lo passano letteralmente a gironzolare perché, a differenza delle femmine operaie, non sono per genetica in grado di bottinare nettare e polline. Il matriarcato, in generale Tornando a parlare più in generale, il matriarcato - come facile intuire - è una forma di società in cui le donne svolgono un ruolo dominante nella famiglia, nella comunità e nella politica. Detengono loro il potere decisionale finale su questioni importanti che riguardano la famiglia o la comunità. Il matriarcato è da sempre al centro di studi e di dibattiti e le posizioni su di esso sono ancora molto contrastanti. Alcuni vi riconoscono un modello di società più equo e armonioso rispetto ad altri e soprattutto al patriarcato, mentre altri sostengono che sia meno efficiente e meno adatto a promuovere lo sviluppo economico e sociale. Altri invece sostengono che, alla stregua delle api, il matriarcato tra gli esseri umani si sia sviluppato ben prima del patriarcato: c’è infatti un dibattito sulla possibilità che il matriarcato fosse presente già nel neolitico. Tuttavia, le prove a sostegno di questa tesi sono ancora poche e controverse. Società matriarcali e dove trovarle Società matriarcali sono state osservate ovunque, ma sono più comunemente associate con le società indigene e tribali in Africa, Asia e America Latina. Tuttavia, alcuni studiosi sostengono che il matriarcato sia stato presente anche in alcune società antiche dell'Europa. Seppur non esista un vero elenco ufficiale, ecco alcune delle più note e interessanti realtà matriarcali del mondo: Umoja, Kenya: in questa società la presenza di uomini è totalmente vietata. A Umoja vivono al sicuro tutte le donne di Samburu che hanno subito stupri, matrimoni forzati, abusi domestici e mutilazioni genitali. I Khasi, India: quella dei Khasi è considerata la più grande cultura matrilineare del mondo. La loro popolazione è di oltre 1 milione di persone ed è guidata da donne. Qui i bambini prendono il cognome della madre e la nascita di una bambina è sempre motivo di grandi celebrazioni, mentre la nascita di un maschio è semplicemente accettata. Popolo Mosuo, Cina: come per le api, qui il capo di tutto è la matriarca che si occupa della maggior parte delle questioni tra cui il denaro, il lavoro, i rapporti tra le persone. Una curiosità: qui marito e moglie vivono in case separate e si vedono solo di notte. I Navajo, USA: in passato erano tradizionalmente un popolo matriarcale. Il capofamiglia era sempre la donna ‘la prima persona a svegliarsi e l'ultima ad addormentarsi ogni giorno’. Lignaggio, beni e proprietà erano generalmente passati attraverso il lato materno della famiglia. Oggi la loro società è ormai quasi totalmente priva di gerarchia. Seppur il matriarcato sia stato spesso descritto come un sistema basato sulla cooperazione e il mutuo sostegno, in cui le donne lavorano insieme per il benessere comune della famiglia e della comunità, alcuni critici riconoscono nelle società matriarcali disuguaglianze di genere, nonostante l'assunzione di ruoli di leadership da parte delle donne. Per altri studiosi il matriarcato resta solo una forma di resistenza al patriarcato e alle relative pratiche oppressive, piuttosto che come una forma alternativa di organizzazione sociale. Bonus track: il Re Leone è una bufala Oltre alle api, il regno animale è pieno di società matriarcali: elefanti, bombi, orche, lemuri e formiche sono solo alcuni esempi. Forse dicendo questo vi rovineremo un po’ l'infanzia, ma dovete saperlo: il leone non è il re della giungla. Sono le leonesse, infatti, ad essere incaricate della sopravvivenza dell’intero branco (maschi compresi). Sono loro a cacciare e inseguire le prede oltre che a garantire lo sviluppo della prole e ad avere ‘potere decisionale’ su ciò che concerne il branco. EMILIA BIFANO
Saperne di piùIl diritto all’aborto esiste realmente in Italia?
“L'altra sera c'era un vecchio ad un programma serale Inveiva contro casi come il nostro, indi per cui Avrei stretto la mia mano sulla sua giugulare Per dirgli: "È facile ingrassare facendo la morale alla morale altrui” È emblematico Ernia nel ricordare a tutti come il diritto delle donne all’accesso all’interruzione di gravidanza (IVG), cioè di abortire in modo sicuro e legale, sia ancora continuamente attaccato nel dibattito pubblico e come alle donne venga fatta pesare questa scelta, come se fosse una colpa.Una colpa che, però, non esiste.Sono soprattutto gli uomini, infatti, a pensare di poter prendere le decisioni per le donne, riguardo ai loro diritti, alla loro vita e alle loro scelte. Che anche la salute di una donna sia una loro decisione. “Vedi, io stavo fuori già dall'arrivo Aveva un che di punitivo, tipo un messo in castigo Ma nelle sale d'attesa ho capito Temono che l'uomo possa fare pressione di qualche tipo” Purtroppo, non sono solo questi a fare questo tipo di pressioni, nonostante Ernia sottolinei in maniera esemplare come si comporti la figura maschile: in maniera autoritaria, egoista, patriarcale.Sono altrettante, però, le donne che commentano, condannano e insultano altre donne per l’applicazione di quello che è un loro diritto e, conseguentemente, una loro scelta. Un diritto che è da difendere più che mai. Anche se per Eugenia Roccella, la Ministra per la Famiglia, la Natalità e per le pari opportunità l’aborto non è un diritto.Anzi, è il “lato oscuro del materno”, a detta sua.Una dichiarazione preoccupante da parte di una ministra del governo italiano, anche se, senza troppe sorprese, è ciò che ci si aspettava da questo nuovo governo.Un governo votato alla negazione dei diritti e dell’inclusività, alla negazione di una corretta informazione scientifica - come dimenticarsi delle affermazioni del sottosegretario al Ministero della Salute Gemmato nei riguardi dei vaccini – e una visione distorta dell’Italia, fatta di bigottismo, nazionalismo e, per non far mancare nulla, di fascismo.“Dio, patria e famiglia”, come avrebbero detto i balilla una volta. E quelli che ci sono ancora adesso, dentro e fuori i palazzi di governo.Una trinità che non comprende le diversità culturali e l’immigrazione, ma, anzi, che ricolma i propri gesti di razzismo, molte volte esplicito.Una realtà che è avversa alla comunità LGBTQIA+ e al diritto delle donne all’aborto, soprattutto se consideriamo che lo Stato italiano è uno stato laico.Non cattolico.Quante, infatti, sono le pressioni anche da parte della Chiesa sull’Italia in termini di diritti umani e di aborto, andando a negarli come diritti in quanto tali, in direzione completamente opposta agli altri Stati europei. Non è sbagliato, però, affermare che l’aborto non sia un diritto. Perché nel nostro Stato non lo è.La 194, infatti, non si basa sull’affermazione positiva del diritto all’aborto, ma regolamenta i casi in cui l’aborto non viene considerato un reato.La legge si intitola “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e all’Art. 1 dice che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Questa, infatti, nasce per limitare il problema degli aborti clandestini, a livello sanitario, e tutela esclusivamente il diritto alla salute fisica e psichica della donna, ma non lascia spazio all’autodeterminazione personale della donna. Sin dalla sua approvazione, la legge è stata fortemente e continuamente attaccata, sia cercando di sfruttarne alcune sue ambiguità, sia giocando sulla sua applicazione, che di fatto rimane ancora molto limitata, nonostante il 12 agosto 2020 sia stata diffusa la circolare sull’aggiornamento delle Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza fino a nove settimane compiute di età gestazionale (quindi non più sette) presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori oppure day hospital.Fin da subito i movimenti femministi segnalarono che nel testo della 194 fossero e sono ancora presenti criticità importanti, che minano lo stesso diritto alla salute, prima fra tutti quella dell’obiezione di coscienza (che non si limita al solo al personale medico, ma comprende anche quello amministrativo), utilizzata come deliberata azione di boicottaggio e che, purtroppo, non rimane l’unica.Al momento in Italia la maggior parte degli aborti volontari viene eseguita entro la decima settimana di gravidanza, anche se una piccola percentuale di donne chiede l’IVG quando il limite è ormai superato, magari dopo aver ricevuto una diagnosi tardiva di grave patologia o malformazione fetale, costringendo a un’unica alternativa, ossia quella di recarsi all’estero per accedere all’aborto terapeutico.Infatti, anche se raccomandato dalle principali società scientifiche internazionali, in Italia nessuno esegue l’aborto “terapeutico” oltre la ventiduesima settimana, per non rischiare di dover rianimare un feto gravemente malato che dovesse nascere vivo.Una legge che nega il diritto alla salute e che obbliga ad andare all’estero anche una sola donna non è una legge giusta.E non garantisce veramente un diritto. C’è bisogno di una legge nuova, che possa finalmente intrecciare due diritti fondamentali, quello alla salute e quello all’autodeterminazione.A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, la legge ha mostrato, infatti, non solo i moltissimi problemi legati alla sua mancata applicazione - per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalle istituzioni europee - ma anche i limiti che dipendono direttamente da quello che contiene.E a proposito di applicazione, Fratelli d’Italia, partito capitanato da Giorgia Meloni, propone «la piena applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, a partire dalla prevenzione – quindi di non arrivarci mai all’aborto per loro – e l’istituzione di un fondo per aiutare le donne sole e in difficoltà economica a portare a termine la gravidanza». Sempre la Meloni continua: «Non mi risulta sia accaduto da nessuna parte che una donna che voleva interrompere la gravidanza non abbia potuto farlo. Il diritto all’aborto in Italia è sempre stato garantito».Ed è qui che ti sbagli Giorgia.Riferendosi a quei contestatori che dicono che in Italia c’è un problema di accessibilità all’interruzione volontaria di gravidanza a causa dell’alto numero di obiettori di coscienza, sempre la Meloni ha detto: «Però c’è anche la coscienza delle persone, non possiamo costringere le persone a fare cose che in coscienza non si sentono di fare. Bisogna garantire la libertà. Io credo che l’equilibrio che si è creato sia un equilibrio che attualmente tiene».Come può, allora, una donna essere libera di scegliere se nella propria città e nella propria regione non resta neppure un medico non obiettore? Come può esserle garantito un suo diritto? Che razza di equilibrio è questo?Allora perché non dimostra la stessa preoccupazione nel garantire la libertà di poter accedere a un diritto sacrosanto? Questa, però, è una cosa che i loro partiti e le associazioni pro-vita, alle quali strizzano gli occhi, non vogliono garantire. E a tal proposito Emma Bonino, in risposta alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, dice: “Nessuno obbliga un medico a fare il ginecologo se è obiettore di coscienza e nessuno può obbligare una donna ad andare in una regione diversa dalla sua per abortire. Le istituzioni devono garantire questo diritto conquistato, punto. Se la legittima libertà di coscienza dei medici mette a rischio la libertà e la salute delle donne, semplicemente si trasforma in violazione di un diritto». Infatti, com’è possibile garantire l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza se la situazione è questa? Dall’analisi dei dati ottenuti da Regioni, aziende ospedaliere e ASL, ne è risultata una prima mappa che ha mostrato chiaramente che le cifre ottenute e che sono sottostimate: vi sono infatti molti specialisti che pure non essendo espressamente obiettori, di fatto non praticano l’IVG. L’inchiesta ha individuato 31 strutture (24 ospedali e 7 consultori) con il 100% di obiettori di coscienza, a cui se ne aggiungono quasi 50 con una percentuale superiore al 90% e più di 80 con un tasso di obiezione superiore all’80%. Il problema è che la Relazione ministeriale non fa emergere il dettaglio territoriale, che permette di capire veramente dove manca il servizio che possa garantire il diritto all’IVG. La 194 stabilisce, però, dei limiti molto chiari all’obiezione di coscienza: dice innanzitutto che lo status di obiettore riguarda esclusivamente la pratica, ma niente che sia tecnicamente precedente o successivo alla pratica stessa, come ad esempio la consegna del documento che attesti lo stato di gravidanza e la volontà della donna di interromperla, documento che è necessario per l’aborto. Stabilisce che l’attestazione necessaria per accedere all’IVG possa essere rilasciata da un medico del consultorio, della struttura sociosanitaria o dal medico di fiducia e dice che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute in ogni caso ad assicurar» che l’IVG si possa svolgere.Stabilisce quindi che l’obiezione debba riguardare il singolo medico e non l’intera struttura.Come in Lombardia, una delle regioni dove si spende meno per la medicina territoriale e dove i consultori privati accreditati di ispirazione cattolica hanno già dal 2000 la possibilità di fare “obiezione di coscienza di struttura”.Una situazione illegale e completamente ingiusta.Per questo, l’obiezione di coscienza entra in conflitto con il diritto alla tutela della salute della donna quando non c’è equilibrio tra il numero di obiettori e di non obiettori, perché ci sono delle responsabilità nell’erogazione di un servizio che deve essere garantito per legge. Per questo, come dice Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, è necessario un albo pubblico dei medici obiettori, perché le donne che vogliono interrompere una gravidanza devono sapere quale sia l’orientamento del loro medico. E soprattutto sapere che possono accedere facilmente all’interruzione, favorendo sempre più quella di tipo farmacologico, senza dover intervenire chirurgicamente e senza obbligo di ricovero. De-ospedalizzare l’aborto significa, da una parte, riorganizzare i servizi ma, d’altra parte, una maggiore possibilità di autogestione da parte delle donne. Anche qui, però, i problemi non sembrano finire, nonostante le nuove linee guida del 2020 a favore dell’interruzione farmacologica e della de-ospedalizzazione di quest’ultima, costituita dall’assunzione al giorno uno di mifepristone (la famosa RU486) e del misoprostolo (prostaglandine), che si assume il terzo giorno per via buccale o sublinguale (la pasticca va sciolta lentamente tra le pareti della bocca e non inghiottita intera) o vaginale e che provoca l’espulsione. Infatti, i partiti di destra e le organizzazioni integraliste pro-vita hanno fatto un fronte comune: in alcune regioni hanno apertamente boicottato il diritto delle donne di poter scegliere per la propria salute. Nel 2019, in Umbria, Donatella Tesei, esponente della Lega, aveva firmato un “Manifesto valoriale” promosso da sette associazioni antiabortiste per sostenere «la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna» e «la vita, dal concepimento fino alla morte naturale». Una volta eletta, e coerentemente con quanto sottoscritto, Tesei aveva abrogato una legge regionale approvata dalla precedente amministrazione di centrosinistra che prevedeva l’assunzione della RU486 in day hospital, costringendo le donne al ricovero per l’accesso all’IVG. A fine gennaio, la maggioranza di centrodestra delle Marche guidata da Fratelli d’Italia aveva deciso di opporsi all’aborto farmacologico e alle nuove linee di indirizzo ministeriali per la piena applicazione della 194 in una regione dove su 137 ginecologi ospedalieri, 100 sono obiettori di coscienza. Il capogruppo al consiglio regionale di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli, per giustificare le limitazioni all’uso della pillola abortiva, aveva citato l’imminente pericolo di una «sostituzione etnica», sostenendo che in loro assenza aumenterebbero i bambini con genitori “stranieri” e diminuirebbero invece quelli italiani. A inizio febbraio, la regione Abruzzo – governata da Marco Marsilio di Fratelli d’Italia – ha inviato una circolare alle Aziende sanitarie locali «affinché l’interruzione farmacologica di gravidanza con utilizzo di mifepristone e prostaglandine sia effettuata preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari». Al Consiglio regionale della RegioneLiguria, Fratelli D’Italia si era astenuto dall’ordine del giorno presentato dal PD sull’accessibilità all’IVG nelle strutture sanitarie del territorio. La quarta commissione della RegionePiemonte aveva, invece, approvato una delibera per istituire il “Fondo Vita Nascente”: 460 mila euro per organizzazioni e associazioni pro-vita per il biennio 2022-2023. A fine settembre, su iniziativa di Fratelli d’Italia e con il sostegno del presidente Alberto Cirio di Forza Italia, aveva diramato una circolare che non solo mette in discussione le nuove modalità di accesso alla pillola abortiva RU486 nei consultori (la vieta), ma finanzia e rafforza l’ingresso delle associazioni antiabortiste negli ospedali pubblici. Prevede infatti l’attivazione di sportelli informativi pro-vita all’interno degli ospedali che praticano IVG. Ultima, ma non ultima: il senatore di Forza Italia Gasparri, alla prima seduta a Palazzo Madama, ha presentato un Ddl per modificare l’Art. 1 del Codice civile in materia di “riconoscimento della capacità giuridica del concepito”. Nonostante i continui attacchi e i continui ostacoli, noi di This Unique non smetteremo di lottare e di fare una corretta informazione. Di combattere e fare opposizione perché i diritti di ogni singola donna vengano rispettati. Affinché ogni donna, se ne avrà bisogno, possa accedere all’aborto senza alcun impedimento. Perché ognuno di noi possa vivere la propria vita con il pieno rispetto dei propri diritti. LORENZO CIOL
Saperne di piùCRAFTHERAPY: il potere rilassante dell'artigianato
Conosci la dopamina? Si tratta della “sostanza chimica del piacere”. Il suo rilascio potrebbe essere provocato dall’odore del tuo cibo preferito, dall’attività sessuale, da un intenso workout… o da una sessione di crafting. Diversi studi hanno infatti dimostrato che “fare a mano” può essere terapeutico: proprio come accade durante la meditazione, ritagliarsi un momento per lavorare la ceramica, riparare un oggetto caro o realizzare un capo in crochet, permette di distrarsi dai problemi quotidiani e liberarsi dallo stress, favorendo una maggiore chiarezza mentale e concentrazione. Le ricerche sull'impatto del crafting sulla salute mentale si sono focalizzate soprattutto sul knitting. Ma c’è una buona notizia: non importa la tecnica! Si possono infatti ottenere gli stessi effetti da qualsiasi attività, che sia fare un gilet ai ferri, una giacca con il quilting o intrecciare una borsa in macramè. Abbiamo selezionato 3 diversi progetti per tutti coloro che sono curiosi di sperimentare in prima persona i benefici della craft-therapy (ovviamente tutti beginner-friendly!). • GRANNY SQUARE Li abbiamo visti su cardigan, borse e top: i Granny Square sono stati tra le più grandi tendenze del 2022. Queste mattonelle - generalmente realizzate all’uncinetto - possono essere considerate l’antonomasia della craft-therapy. Costituiscono infatti singolarmente un progetto a sé, ma sono un modulo che ripetuto e assemblato può dar vita a capi, coperte o accessori. Dover ripetere gli stessi movimenti più volte, vi aiuterà sicuramente a liberare la mente. Proprio con dei Granny Square, abbiamo realizzato questa fascia: guarda il video e prepara gli uncinetti! https://www.instagram.com/reel/CZHwYuNB9IR/?igshid=YmMyMTA2M2Y= https://www.youtube.com/watch?v=14s2g62cuB8 • DIVERTITI CON LA CERAMICA Se da bambin* eri un* grande fan del DAS, questa è la tecnica che fa per te! Guarda il nostro video in collaborazione con This, Unique e crea il tuo vaso di ceramica. Avrete bisogno semplicemente di un panetto di argilla… e delle vostre mani! https://www.instagram.com/reel/Cl0u-V_D47z/?utm_source=ig_web_copy_link • REALIZZA DEI PASTELLI IN CERA Se senti il bisogno di riconnetterti con la natura e diventare più consapevole e responsabile, segui Maibie nella creazione di pastelli naturali. Siamo sicure che nelle vostre cucine ci sono tutti i pigmenti vegetali di cui potreste avere bisogno: cacao, curcuma o frutti di bosco! https://www.instagram.com/tv/CIDd8okITwG/?igshid=YmMyMTA2M2Y=
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