Periodica Magazine: lo spazio per il dialogo aperto
MENTE E CORPO (in conversazione con Sblam Italia)
Mente e corpo sono inseparabili: non esiste l'una senza l'altro. Quando il benessere della mente si crea e si rafforza allora riverbera nel corpo. Quando il corpo sta bene la mente può migliorare liberamente. Questo avviene perché la mente e il corpo sono coinquilini, è quindi importante imparare a prendersi cura di tutto il pacchetto. Ascoltati: che cosa dice la tua testa? Che cosa dice la tua pancia? Cominciamo a pensare a questo. La testa è il tuo ragionamento razionale, il pensiero cognitivo, mentre la pancia è il tuo istinto, la voce del tuo corpo, la bussola emotiva. Se la pancia suona l'allarme rosso qualcosa non va. Cominciando ad ascoltarti e ad avere consapevolezza dei segnali puoi imparare aessere gentile con te e con il tuo corpo, tappa fondamentale nel percorso verso ilbenessere mentale. Mostra gratitudine e apprezzamento per il tuo corpo, non per il suo aspetto, ma per tutti processi che sostiene ogni giorno e che ti mantengono in vita e in salute (i polmoni che trasformano l’ossigeno in anidride carbonica, il cuore che pompa il sangue nelle vene, gli occhi che ti consentono di vedere, le gambe che ti permettono di muoverti...). Cerca di riconnetterti con i segnali del tuo corpo: questo può voler dire che a voltepreferirai riposarti e recuperare le energie piuttosto che andare in palestra, ma può anche voler dire che altre volte troverai il tempo di uscire per andare a correre perché sai che è ciò di cui il tuo corpo ha bisogno in quel momento. Chiediti (e cerca di rispondere) che cosa ami del tuo corpo. Cerca di non concentrarti solo sugli aspetti estetici e prendi in considerazione anche gli aspetti funzionali e pratici del tuo corpo. Pensa a tutto ciò che il tuo corpo ti permette di fare ogni giorno. Potrebbe anche solo essere camminare, respirare o digerire il cibo che mangi! Queste cose possono sembrare di importanza relativa, ma sono fondamentali per mantenerti in vita, felice e in salute. Chiediti (e cerca di rispondere) quali siano le cose del tuo corpo per cui sei grat*. Il tuo corpo fa molto per te: ogni giorno ti permette di muoverti attraverso la vita e sperimentare tutto ciò che ha da offrire, non importa quanto tu sia in forma, o che cosa pensi del tuo aspetto. Rispettare il tuo corpo significa trattarlo con dignità e con l’intenzione di soddisfare i suoi bisogni. Apprezzare il tuo corpo è il primo passo di un percorso che ti porta a sviluppare una connessione più profonda con te stess*. Certo, non è sempre facile: la società in cui viviamo tende a premiare l’aspetto fisico con canoni molto rigidi e privilegia i corpi che si conformano a un modello ideale. Questi messaggi vengono pesantemente rinforzati da televisione, social media, riviste, settore della moda, pubblicità alimentari e in generale dalla cultura pop. Ricordati, però, che il rispetto per il tuo corpo viene da dentro e non riguardal’aspetto fisico. È un atteggiamento incondizionatamente positivo nei confronti della tua umanità e di te stesso o te stessa in quanto persona. La dignità e il rispetto sono diritti umani e non dipendono dalla taglia del tuo corpo, ma prevedono che tu abbia cura di esso. Avere rispetto per il proprio corpo significa anche accettare la propria genetica. E imparare ad apprezzarsi. Parti da un presupposto: non tutto è modificabile. Ci sono alcune parti di te che sono lavorabili e altre che devi imparare ad accettare, sei un essere umano quindi avere dei limiti è parte stessa della tua esistenza. Il confronto con il limite e l’accettazione dello stesso sono inevitabili passaggi verso il vero amor di te. E quando parliamo di accettazione non descriviamo un processo disottomissione o di rassegnazione. L’accettazione non porta alla passività di fronte ai sentimenti spiacevoli e dolorosi, ma prende atto che esistano e ti consente di viverli senza soccombere, per diventare più forte. Lavora sulla tua immagine corporea interna. L'immagine corporea risponde sostanzialmente alla domanda: "Come ti vedi quando ti guardi allo specchio o quando ti immagini nella tua mente?". In senso più ampio, include anche le sensazioni che hai riguardo agli aspetti del tuo corpo che dipendono principalmente dalla genetica e non sono sotto il tuo controllo e include anche il come percepisci e controlli il tuo corpo quando ti muovi o ti trovi in situazioni sociali. Tieni presente che l'immagine corporea non è limitata soltanto all’immagine fisica del tuo corpo ma include anche le tue opinioni sul tuo aspetto (compresi i tuoi ricordi, le cose che dai per scontate e le generalizzazioni, ad esempio il modo in cui ti vedi quando guardi delle tue foto). Le persone con un'immagine corporea negativa hanno una maggiore probabilità di sviluppare un disturbo alimentare e hanno maggiori probabilità di soffrire di depressione, isolamento, bassa autostima e di sviluppare ossessioni per la perdita di peso. Un’immagine corporea negativa può manifestarsi in questi modi:● Avere una percezione distorta delle tue forme: percepisci alcune parti del tuo corpo diversamente da come sono realmente.● Sentirti a disagio nel tuo corpo.● Credere che solo le altre persone siano attraenti e che la taglia o la forma del tuo corpo siano praticamente fallimento personale. Vergognarti, provare ansia e imbarazzo per il tuo corpo. Un’immagine corporea positiva invece è: ● Avere una percezione chiara e reale della tua figura, che ti permetta di vederele varie parti del tuo corpo per come sono realmente.● Sentirti a tuo agio e sicur* di te nel tuo corpo.● Sentirti fier* e accettare il tuo corpo per come è pur non ritenendolo perfetto.● Apprezzare la tua forma fisica e credere che l'aspetto fisico dica poco sul carattere e sul valore di una persona. Capita a tutt* di avere “giorni no”, in cui ci sentiamo a disagio nei nostri corpi, ma la chiave per sviluppare un'immagine corporea positiva è esplorarti, conoscerti, accettarti e valorizzarti. E puoi imparare a fare tutto questo!
Saperne di piùGender fluids
Identità non binarie/trans* e prodotti per mestruazioni Trigger Warning: disforia, mestruazioni Immaginiamo di essere al supermercato, e di stare girando per i reparti. Ad un tratto entriamo nella corsia dei prodotti per mestruazioni. Immediatamente veniamo travoltз da uno tsunami di sfumature di rosa, violetti, colori pastello, font farfallosi, frasi motivazionali dal retrogusto artificiale, delicati petali di rosa, che si innalzano imponenti fino sopra la nostra testa, tutti allineati in un enorme esercito in miniatura che odora di fiore sintetico. È una cosa a cui siamo abituatз, non ci facciamo neanche più caso, ma perché in questa corsia sembra esplosa una bomba di zucchero filato alla caramella? Il rosa è un colore bellissimo, come lo sono i fiori e le farfalle, non è chiaramente questo il problema. Però perché quando si parla di prodotti per mestruazioni allora tutto diventa esclusivamente rosa e fiorelloso? Perché è difficile trovare un qualsiasi altro tipo di rappresentazione, grafica e cromatica, in questo tipo di prodotti? L’equazione mestruazioni = “cosa da donne (cis)”, è tanto immediata e consolidata nella mentalità dominante tradizionale quanto sbagliata, o meglio, escludente: non tutte le persone che mestruano sono donne, così come non tutte le donne mestruano. E, se da un lato la narrativa del “rosa = donna” ha già esasperato le donne cisgender per prime, si rivela decisamente più dannosa e problematica per le persone con mestruazioni che non sono donne. Ma chi sono lз esclusз di questa rappresentazione stereotipizzante? Esiste una vastità di identità di genere che non si identifica, o non si identifica esclusivamente, nel binarismo di genere uomo/donna, o nel genere assegnato alla nascita: persone non binarie, genderqueer, gender nonconforming, genderfluid, agender, e ragazzi e uomini transgender (per semplificazione nell’articolo saranno riportate come identità non binarie/trans*). Persone che mestruano, ma che restano invisibili nelle rappresentazioni dei prodotti per mestruazioni. Infatti, proprio a causa di questa marcata femminilizzazione dei prodotti per mestruazioni, le persone non binarie/trans* possono provare disforia nel momento in cui devono interfacciarsi con un intero sistema-prodotto che non è pensato per loro, ma di cui non possono fare a meno (avere o non avere le mestruazioni in molti casi non è una scelta). Se tutta la società non fa altro che ripetere che l’esperienza di mestruare è solo delle donne, è difficile vedersi, e diventa doloroso e faticoso essere continuamente schiacciatз e appiattitз in un genere a cui non si appartiene, e dalla cui rappresentazione stereotipica ci si vuole allontanare. La disforia di genere infatti (gender dysphoria), è una sensazione di malessere, disagio, alienazione, che una persona non binaria/trans* può provare quando percepisce un disallineamento fra la propria identità di genere e le caratteristiche sessuali assegnate alla nascita. Può essere triggerata utilizzando i pronomi sbagliati (misgendering) o costringendo una persona a rientrare in una categoria binaria (M o F) in cui non si identifica. Come nel caso dei prodotti mestruali. Ma che cosa significa nel pratico? Ho intervistato confidenzialmente alcune persone non binarie/trans* che provano, o hanno provato in passato, disforia in connessione alle mestruazioni, con l’obiettivo condiviso di mettere in luce nel quotidiano cosa comporta convivere con un disagio, causato da una cultura binaria, che viene costantemente invisibilizzato. Lз intervistatз si sono anche resз disponibili nell’offrire spunti utili per immaginare un possibile sistema-prodotto di articoli per mestruazioni meno triggerante e più inclusivo, partendo dalle soluzioni individuali per cui optano nel loro piccolo per marginare, almeno in parte, la disforia (nb: la disforia non viene tuttavia innescata dagli stessi trigger per tutte le persone trans*/non binarie, si è cercato di evidenziare i trigger più condivisi. Non provare disforia non rende una persona “meno” non binaria/trans*, e assumere che una persona provi disforia solo perché non binaria/trans* è sbagliato, ogni esperienza è tanto singolare quanto valida. Ultima precisazione, non tutte le persone trans*/non binarie necessariamente mestruano). Uno dei principali punti è “l’outing al supermercato”: per tornare all’inizio dell’articolo, per molte persone non binarie/trans* acquistare prodotti per mestruazioni è stressante e disforico. Significa recarsi al supermercato, affrontare una corsia di prodotti tutti rosa specificatamente dedicati alle donne, in cui troppo spesso ci sono solo donne, poi arrivare alla cassa e subire misgendering perché gli assorbenti “tradiscono” la propria identità di genere, costringendo all’outing. Per questo alcune persone non binarie/trans* preferiscono, se possono, delegare l’acquisto ad amicз o parenti, acquistare prodotti per le mestruazioni in un quartiere lontano da casa (anche per proteggersi da possibili discriminazioni transfobiche), acquistare i prodotti online, e farseli recapitare a casa, o adottare soluzioni non usa e getta, come la coppetta mestruale, che oltre ad essere più gender neutral (ne esistono trasparenti, o di vari colori, non ha odore, né una forma iconica), risolve il problema di dover reperire ogni mese assorbenti o tamponi. Inoltre, va svuotata meno spesso rispetto ai comuni assorbenti, evitando sia i frequenti cambi in luoghi pubblici, sia di doversi muovere con assorbenti o tamponi in tasca. Un altro punto è “l’universale femminile”: basta navigare nel sito di qualsiasi grande azienda di prodotti per mestruazioni, o guardare qualsiasi pubblicità di assorbenti o tamponi, per accorgersi che sono prodotti “adatti a tutte le donne”, con cui “ogni donna può sentirsi libera di essere sé stessa” e “meravigliosamente unica”. Anche le aziende che stanno provando a svecchiare la loro comunicazione, dando un’immagine più inclusiva e diversificata delle persone con mestruazioni (rappresentando perciò persone disabili, grasse, non bianche, con peli, non giovani e addirittura, in rarissimi casi, trans*), quando si devono rivolgere al loro pubblico consumatore, si rivolgono alle donne e utilizzano i pronomi femminili. E se questo avviene sul piano della comunicazione verbale, è ancora più radicato ed evidente nella comunicazione non verbale: un altro punto è “il rosa imperante”. La scelta di palette-colore nei packaging è nella maggior parte dei casi sui toni del rosa/lilla, i segni grafici sono morbidi e delicati (fiori, gocce, stelline luccicanti, linee curve), i font scelti sono sempre dei corsivi arrotondati: non ci sono spigoli o elementi appuntiti, dinamici, duri. In prima analisi, ingenuamente, si può pensare che una comunicazione così “morbida” possa essere una scelta progettuale consapevole dovuta allo scopo del prodotto, destinato a stare a contatto con parti delicate del corpo. Ma è sufficiente cercare prodotti degli stessi brand destinati ad un pubblico “maschile” (ad esempio assorbenti/salva slip “maschili”) per poter constatare che la comunicazione di immagine del prodotto cambia radicalmente: i colori si fanno cupi (nero, grigio e blu scuro poco saturato), le linee diventano appuntite e nette, i font dritti, imponenti, austeri, non c’è spazio per farfalline e fiorellini. La scritta “men”, per togliere ogni dubbio, è sempre la più grande, al centro del prodotto. Anche in questo caso, per non dover entrare in contatto con questo tipo di comunicazione estremamente binaria, le persone non binarie/trans* con mestruazioni preferiscono adottare soluzioni long lasting (coppetta mestruale, slip assorbenti lavabili), o rivolgersi a brand online più nuovi e attenti ad una rappresentazione inclusiva. In ogni caso, adottare soluzioni a livello personale per scendere a compromessi e convivere il meno a disagio possibile con le mestruazioni non elimina completamente la disforia: la radice del problema è da ricercarsi nella società trans-escludente che invisibilizza tutto ciò che non rientra nei margini di un’ottica cisnormata, e che non offre la giusta rappresentazione e i giusti strumenti di affermazione a tuttз nello stesso modo. Costringere il singolo a giostrarsi fra pochi prodotti involontariamente inclusivi, non è tutelante da un punto di vista sociale, e non troppo brillante da un punto di vista commerciale, perché resta inesplorata una nicchia voraginosa di mercato, che accontenterebbe tuttз, donne cis comprese. Perciò, cosa potrebbe essere fatto? Nel microcosmo, possiamo informarci, ascoltare l’esperienza di chi appartiene alla community non binaria/trans*, educarci al rispetto e ad un linguaggio più inclusivo, co-partecipando alla loro battaglia, soprattutto davanti ad atteggiamenti e affermazioni trans-escludenti, anche se involontarie o inconsapevoli. Correggiamo nei nostri contesti sociali di riferimento le persone che quando parlano di mestruazioni utilizzano l’universale femminile. Se abbiamo amicз/partner non binary/trans* che provano disforia, validiamo e rispettiamo il loro dolore, informandoci senza essere inopportunз su quale sia il modo migliore per essere realmente di supporto in questi momenti (anche farci da parte, se questo è ciò che ci viene richiesto). Se possiamo, acquistiamo da aziende di prodotti mestruali che hanno adottato politiche inclusive, preferendole a quelle che ancora non lo fanno. Nel macrocosmo, d’altra parte, le grandi aziende produttrici di assorbenti dovrebbero rendere i propri prodotti e la propria comunicazione genderfree: superare il binomio rosa/blu scegliendo colori e termini non genderizzanti. L’intero sistema-prodotto dovrebbe essere riprogettato, tenendo a mente che gli assorbenti non sono solo per le donne. Non è un enorme sacrificio parlare di “persone con mestruazioni” anziché di “donne”, non esclude e non offende nessunǝ. Non viene sottratto spazio o rappresentazione alle consumatrici, ma aggiunta e finalmente concessa visibilità al pubblico non binario/trans*. In fondo, tutto sommato, sarebbe così male se un giorno il reparto di prodotti per mestruazioni nei supermercati fosse un’esplosione variopinta di colori? Attivistз non binary/trans* che hanno trattato il tema: https://www.instagram.com/elia.lien/ Video-esperienza utili per approfondire: Dealing with Dysphoria, The Monthly Cycle (For all Genders): https://www.youtube.com/watch?v=deSVNdR_q-I&t=207s Period advice for trans guys: https://www.youtube.com/watch?v=4dcondd69vY
Saperne di piùQuesta sono io e qui comando io
C’è una società diretta esclusivamente da una regina, che va avanti da oltre 100 milioni di anni e si estende su tutto il pianeta. No, come potete immaginare non ha nulla a che vedere con l’Inghilterra, anche se l’inno dei Sex Pistols le si addice comunque. Si tratta della società, osiamo dire matriarcale, delle api. Il capo supremo è appunto la regina, membro dominante e - letteralmente - madre di tutte le api presenti nell'alveare. È l'unica femmina che viene fecondata e che è quindi in grado di deporre uova e di conseguenza preservare la colonia. L'ape regina è anche responsabile della regolazione della temperatura e dell'umidità all'interno dell'alveare e della difesa dalle minacce esterne. All'interno della colonia vige una gerarchia ben definita e le api operaie (anch’esse tutte femmine) lavorano insieme per svolgere le diverse attività necessarie. Forse per ironia della sorte, in una società così longeva i fuchi, ovvero i maschi, non hanno affatto ruolo dominante: sono più piccoli e non hanno il pungiglione, non possono dunque difendere l'alveare. Il loro compito è principalmente quello di fecondare la regina, a volte di curare i piccoli e ‘pulire’ le celle in cui vengono deposte le uova. Il resto del tempo lo passano letteralmente a gironzolare perché, a differenza delle femmine operaie, non sono per genetica in grado di bottinare nettare e polline. Il matriarcato, in generale Tornando a parlare più in generale, il matriarcato - come facile intuire - è una forma di società in cui le donne svolgono un ruolo dominante nella famiglia, nella comunità e nella politica. Detengono loro il potere decisionale finale su questioni importanti che riguardano la famiglia o la comunità. Il matriarcato è da sempre al centro di studi e di dibattiti e le posizioni su di esso sono ancora molto contrastanti. Alcuni vi riconoscono un modello di società più equo e armonioso rispetto ad altri e soprattutto al patriarcato, mentre altri sostengono che sia meno efficiente e meno adatto a promuovere lo sviluppo economico e sociale. Altri invece sostengono che, alla stregua delle api, il matriarcato tra gli esseri umani si sia sviluppato ben prima del patriarcato: c’è infatti un dibattito sulla possibilità che il matriarcato fosse presente già nel neolitico. Tuttavia, le prove a sostegno di questa tesi sono ancora poche e controverse. Società matriarcali e dove trovarle Società matriarcali sono state osservate ovunque, ma sono più comunemente associate con le società indigene e tribali in Africa, Asia e America Latina. Tuttavia, alcuni studiosi sostengono che il matriarcato sia stato presente anche in alcune società antiche dell'Europa. Seppur non esista un vero elenco ufficiale, ecco alcune delle più note e interessanti realtà matriarcali del mondo: Umoja, Kenya: in questa società la presenza di uomini è totalmente vietata. A Umoja vivono al sicuro tutte le donne di Samburu che hanno subito stupri, matrimoni forzati, abusi domestici e mutilazioni genitali. I Khasi, India: quella dei Khasi è considerata la più grande cultura matrilineare del mondo. La loro popolazione è di oltre 1 milione di persone ed è guidata da donne. Qui i bambini prendono il cognome della madre e la nascita di una bambina è sempre motivo di grandi celebrazioni, mentre la nascita di un maschio è semplicemente accettata. Popolo Mosuo, Cina: come per le api, qui il capo di tutto è la matriarca che si occupa della maggior parte delle questioni tra cui il denaro, il lavoro, i rapporti tra le persone. Una curiosità: qui marito e moglie vivono in case separate e si vedono solo di notte. I Navajo, USA: in passato erano tradizionalmente un popolo matriarcale. Il capofamiglia era sempre la donna ‘la prima persona a svegliarsi e l'ultima ad addormentarsi ogni giorno’. Lignaggio, beni e proprietà erano generalmente passati attraverso il lato materno della famiglia. Oggi la loro società è ormai quasi totalmente priva di gerarchia. Seppur il matriarcato sia stato spesso descritto come un sistema basato sulla cooperazione e il mutuo sostegno, in cui le donne lavorano insieme per il benessere comune della famiglia e della comunità, alcuni critici riconoscono nelle società matriarcali disuguaglianze di genere, nonostante l'assunzione di ruoli di leadership da parte delle donne. Per altri studiosi il matriarcato resta solo una forma di resistenza al patriarcato e alle relative pratiche oppressive, piuttosto che come una forma alternativa di organizzazione sociale. Bonus track: il Re Leone è una bufala Oltre alle api, il regno animale è pieno di società matriarcali: elefanti, bombi, orche, lemuri e formiche sono solo alcuni esempi. Forse dicendo questo vi rovineremo un po’ l'infanzia, ma dovete saperlo: il leone non è il re della giungla. Sono le leonesse, infatti, ad essere incaricate della sopravvivenza dell’intero branco (maschi compresi). Sono loro a cacciare e inseguire le prede oltre che a garantire lo sviluppo della prole e ad avere ‘potere decisionale’ su ciò che concerne il branco. EMILIA BIFANO
Saperne di piùIl diritto all’aborto esiste realmente in Italia?
“L'altra sera c'era un vecchio ad un programma serale Inveiva contro casi come il nostro, indi per cui Avrei stretto la mia mano sulla sua giugulare Per dirgli: "È facile ingrassare facendo la morale alla morale altrui” È emblematico Ernia nel ricordare a tutti come il diritto delle donne all’accesso all’interruzione di gravidanza (IVG), cioè di abortire in modo sicuro e legale, sia ancora continuamente attaccato nel dibattito pubblico e come alle donne venga fatta pesare questa scelta, come se fosse una colpa.Una colpa che, però, non esiste.Sono soprattutto gli uomini, infatti, a pensare di poter prendere le decisioni per le donne, riguardo ai loro diritti, alla loro vita e alle loro scelte. Che anche la salute di una donna sia una loro decisione. “Vedi, io stavo fuori già dall'arrivo Aveva un che di punitivo, tipo un messo in castigo Ma nelle sale d'attesa ho capito Temono che l'uomo possa fare pressione di qualche tipo” Purtroppo, non sono solo questi a fare questo tipo di pressioni, nonostante Ernia sottolinei in maniera esemplare come si comporti la figura maschile: in maniera autoritaria, egoista, patriarcale.Sono altrettante, però, le donne che commentano, condannano e insultano altre donne per l’applicazione di quello che è un loro diritto e, conseguentemente, una loro scelta. Un diritto che è da difendere più che mai. Anche se per Eugenia Roccella, la Ministra per la Famiglia, la Natalità e per le pari opportunità l’aborto non è un diritto.Anzi, è il “lato oscuro del materno”, a detta sua.Una dichiarazione preoccupante da parte di una ministra del governo italiano, anche se, senza troppe sorprese, è ciò che ci si aspettava da questo nuovo governo.Un governo votato alla negazione dei diritti e dell’inclusività, alla negazione di una corretta informazione scientifica - come dimenticarsi delle affermazioni del sottosegretario al Ministero della Salute Gemmato nei riguardi dei vaccini – e una visione distorta dell’Italia, fatta di bigottismo, nazionalismo e, per non far mancare nulla, di fascismo.“Dio, patria e famiglia”, come avrebbero detto i balilla una volta. E quelli che ci sono ancora adesso, dentro e fuori i palazzi di governo.Una trinità che non comprende le diversità culturali e l’immigrazione, ma, anzi, che ricolma i propri gesti di razzismo, molte volte esplicito.Una realtà che è avversa alla comunità LGBTQIA+ e al diritto delle donne all’aborto, soprattutto se consideriamo che lo Stato italiano è uno stato laico.Non cattolico.Quante, infatti, sono le pressioni anche da parte della Chiesa sull’Italia in termini di diritti umani e di aborto, andando a negarli come diritti in quanto tali, in direzione completamente opposta agli altri Stati europei. Non è sbagliato, però, affermare che l’aborto non sia un diritto. Perché nel nostro Stato non lo è.La 194, infatti, non si basa sull’affermazione positiva del diritto all’aborto, ma regolamenta i casi in cui l’aborto non viene considerato un reato.La legge si intitola “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e all’Art. 1 dice che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Questa, infatti, nasce per limitare il problema degli aborti clandestini, a livello sanitario, e tutela esclusivamente il diritto alla salute fisica e psichica della donna, ma non lascia spazio all’autodeterminazione personale della donna. Sin dalla sua approvazione, la legge è stata fortemente e continuamente attaccata, sia cercando di sfruttarne alcune sue ambiguità, sia giocando sulla sua applicazione, che di fatto rimane ancora molto limitata, nonostante il 12 agosto 2020 sia stata diffusa la circolare sull’aggiornamento delle Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza fino a nove settimane compiute di età gestazionale (quindi non più sette) presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori oppure day hospital.Fin da subito i movimenti femministi segnalarono che nel testo della 194 fossero e sono ancora presenti criticità importanti, che minano lo stesso diritto alla salute, prima fra tutti quella dell’obiezione di coscienza (che non si limita al solo al personale medico, ma comprende anche quello amministrativo), utilizzata come deliberata azione di boicottaggio e che, purtroppo, non rimane l’unica.Al momento in Italia la maggior parte degli aborti volontari viene eseguita entro la decima settimana di gravidanza, anche se una piccola percentuale di donne chiede l’IVG quando il limite è ormai superato, magari dopo aver ricevuto una diagnosi tardiva di grave patologia o malformazione fetale, costringendo a un’unica alternativa, ossia quella di recarsi all’estero per accedere all’aborto terapeutico.Infatti, anche se raccomandato dalle principali società scientifiche internazionali, in Italia nessuno esegue l’aborto “terapeutico” oltre la ventiduesima settimana, per non rischiare di dover rianimare un feto gravemente malato che dovesse nascere vivo.Una legge che nega il diritto alla salute e che obbliga ad andare all’estero anche una sola donna non è una legge giusta.E non garantisce veramente un diritto. C’è bisogno di una legge nuova, che possa finalmente intrecciare due diritti fondamentali, quello alla salute e quello all’autodeterminazione.A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, la legge ha mostrato, infatti, non solo i moltissimi problemi legati alla sua mancata applicazione - per cui l’Italia è stata più volte richiamata dalle istituzioni europee - ma anche i limiti che dipendono direttamente da quello che contiene.E a proposito di applicazione, Fratelli d’Italia, partito capitanato da Giorgia Meloni, propone «la piena applicazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, a partire dalla prevenzione – quindi di non arrivarci mai all’aborto per loro – e l’istituzione di un fondo per aiutare le donne sole e in difficoltà economica a portare a termine la gravidanza». Sempre la Meloni continua: «Non mi risulta sia accaduto da nessuna parte che una donna che voleva interrompere la gravidanza non abbia potuto farlo. Il diritto all’aborto in Italia è sempre stato garantito».Ed è qui che ti sbagli Giorgia.Riferendosi a quei contestatori che dicono che in Italia c’è un problema di accessibilità all’interruzione volontaria di gravidanza a causa dell’alto numero di obiettori di coscienza, sempre la Meloni ha detto: «Però c’è anche la coscienza delle persone, non possiamo costringere le persone a fare cose che in coscienza non si sentono di fare. Bisogna garantire la libertà. Io credo che l’equilibrio che si è creato sia un equilibrio che attualmente tiene».Come può, allora, una donna essere libera di scegliere se nella propria città e nella propria regione non resta neppure un medico non obiettore? Come può esserle garantito un suo diritto? Che razza di equilibrio è questo?Allora perché non dimostra la stessa preoccupazione nel garantire la libertà di poter accedere a un diritto sacrosanto? Questa, però, è una cosa che i loro partiti e le associazioni pro-vita, alle quali strizzano gli occhi, non vogliono garantire. E a tal proposito Emma Bonino, in risposta alle dichiarazioni di Giorgia Meloni, dice: “Nessuno obbliga un medico a fare il ginecologo se è obiettore di coscienza e nessuno può obbligare una donna ad andare in una regione diversa dalla sua per abortire. Le istituzioni devono garantire questo diritto conquistato, punto. Se la legittima libertà di coscienza dei medici mette a rischio la libertà e la salute delle donne, semplicemente si trasforma in violazione di un diritto». Infatti, com’è possibile garantire l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza se la situazione è questa? Dall’analisi dei dati ottenuti da Regioni, aziende ospedaliere e ASL, ne è risultata una prima mappa che ha mostrato chiaramente che le cifre ottenute e che sono sottostimate: vi sono infatti molti specialisti che pure non essendo espressamente obiettori, di fatto non praticano l’IVG. L’inchiesta ha individuato 31 strutture (24 ospedali e 7 consultori) con il 100% di obiettori di coscienza, a cui se ne aggiungono quasi 50 con una percentuale superiore al 90% e più di 80 con un tasso di obiezione superiore all’80%. Il problema è che la Relazione ministeriale non fa emergere il dettaglio territoriale, che permette di capire veramente dove manca il servizio che possa garantire il diritto all’IVG. La 194 stabilisce, però, dei limiti molto chiari all’obiezione di coscienza: dice innanzitutto che lo status di obiettore riguarda esclusivamente la pratica, ma niente che sia tecnicamente precedente o successivo alla pratica stessa, come ad esempio la consegna del documento che attesti lo stato di gravidanza e la volontà della donna di interromperla, documento che è necessario per l’aborto. Stabilisce che l’attestazione necessaria per accedere all’IVG possa essere rilasciata da un medico del consultorio, della struttura sociosanitaria o dal medico di fiducia e dice che gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute in ogni caso ad assicurar» che l’IVG si possa svolgere.Stabilisce quindi che l’obiezione debba riguardare il singolo medico e non l’intera struttura.Come in Lombardia, una delle regioni dove si spende meno per la medicina territoriale e dove i consultori privati accreditati di ispirazione cattolica hanno già dal 2000 la possibilità di fare “obiezione di coscienza di struttura”.Una situazione illegale e completamente ingiusta.Per questo, l’obiezione di coscienza entra in conflitto con il diritto alla tutela della salute della donna quando non c’è equilibrio tra il numero di obiettori e di non obiettori, perché ci sono delle responsabilità nell’erogazione di un servizio che deve essere garantito per legge. Per questo, come dice Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, è necessario un albo pubblico dei medici obiettori, perché le donne che vogliono interrompere una gravidanza devono sapere quale sia l’orientamento del loro medico. E soprattutto sapere che possono accedere facilmente all’interruzione, favorendo sempre più quella di tipo farmacologico, senza dover intervenire chirurgicamente e senza obbligo di ricovero. De-ospedalizzare l’aborto significa, da una parte, riorganizzare i servizi ma, d’altra parte, una maggiore possibilità di autogestione da parte delle donne. Anche qui, però, i problemi non sembrano finire, nonostante le nuove linee guida del 2020 a favore dell’interruzione farmacologica e della de-ospedalizzazione di quest’ultima, costituita dall’assunzione al giorno uno di mifepristone (la famosa RU486) e del misoprostolo (prostaglandine), che si assume il terzo giorno per via buccale o sublinguale (la pasticca va sciolta lentamente tra le pareti della bocca e non inghiottita intera) o vaginale e che provoca l’espulsione. Infatti, i partiti di destra e le organizzazioni integraliste pro-vita hanno fatto un fronte comune: in alcune regioni hanno apertamente boicottato il diritto delle donne di poter scegliere per la propria salute. Nel 2019, in Umbria, Donatella Tesei, esponente della Lega, aveva firmato un “Manifesto valoriale” promosso da sette associazioni antiabortiste per sostenere «la famiglia naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna» e «la vita, dal concepimento fino alla morte naturale». Una volta eletta, e coerentemente con quanto sottoscritto, Tesei aveva abrogato una legge regionale approvata dalla precedente amministrazione di centrosinistra che prevedeva l’assunzione della RU486 in day hospital, costringendo le donne al ricovero per l’accesso all’IVG. A fine gennaio, la maggioranza di centrodestra delle Marche guidata da Fratelli d’Italia aveva deciso di opporsi all’aborto farmacologico e alle nuove linee di indirizzo ministeriali per la piena applicazione della 194 in una regione dove su 137 ginecologi ospedalieri, 100 sono obiettori di coscienza. Il capogruppo al consiglio regionale di Fratelli d’Italia Carlo Ciccioli, per giustificare le limitazioni all’uso della pillola abortiva, aveva citato l’imminente pericolo di una «sostituzione etnica», sostenendo che in loro assenza aumenterebbero i bambini con genitori “stranieri” e diminuirebbero invece quelli italiani. A inizio febbraio, la regione Abruzzo – governata da Marco Marsilio di Fratelli d’Italia – ha inviato una circolare alle Aziende sanitarie locali «affinché l’interruzione farmacologica di gravidanza con utilizzo di mifepristone e prostaglandine sia effettuata preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari». Al Consiglio regionale della RegioneLiguria, Fratelli D’Italia si era astenuto dall’ordine del giorno presentato dal PD sull’accessibilità all’IVG nelle strutture sanitarie del territorio. La quarta commissione della RegionePiemonte aveva, invece, approvato una delibera per istituire il “Fondo Vita Nascente”: 460 mila euro per organizzazioni e associazioni pro-vita per il biennio 2022-2023. A fine settembre, su iniziativa di Fratelli d’Italia e con il sostegno del presidente Alberto Cirio di Forza Italia, aveva diramato una circolare che non solo mette in discussione le nuove modalità di accesso alla pillola abortiva RU486 nei consultori (la vieta), ma finanzia e rafforza l’ingresso delle associazioni antiabortiste negli ospedali pubblici. Prevede infatti l’attivazione di sportelli informativi pro-vita all’interno degli ospedali che praticano IVG. Ultima, ma non ultima: il senatore di Forza Italia Gasparri, alla prima seduta a Palazzo Madama, ha presentato un Ddl per modificare l’Art. 1 del Codice civile in materia di “riconoscimento della capacità giuridica del concepito”. Nonostante i continui attacchi e i continui ostacoli, noi di This Unique non smetteremo di lottare e di fare una corretta informazione. Di combattere e fare opposizione perché i diritti di ogni singola donna vengano rispettati. Affinché ogni donna, se ne avrà bisogno, possa accedere all’aborto senza alcun impedimento. Perché ognuno di noi possa vivere la propria vita con il pieno rispetto dei propri diritti. LORENZO CIOL
Saperne di piùCRAFTHERAPY: il potere rilassante dell'artigianato
Conosci la dopamina? Si tratta della “sostanza chimica del piacere”. Il suo rilascio potrebbe essere provocato dall’odore del tuo cibo preferito, dall’attività sessuale, da un intenso workout… o da una sessione di crafting. Diversi studi hanno infatti dimostrato che “fare a mano” può essere terapeutico: proprio come accade durante la meditazione, ritagliarsi un momento per lavorare la ceramica, riparare un oggetto caro o realizzare un capo in crochet, permette di distrarsi dai problemi quotidiani e liberarsi dallo stress, favorendo una maggiore chiarezza mentale e concentrazione. Le ricerche sull'impatto del crafting sulla salute mentale si sono focalizzate soprattutto sul knitting. Ma c’è una buona notizia: non importa la tecnica! Si possono infatti ottenere gli stessi effetti da qualsiasi attività, che sia fare un gilet ai ferri, una giacca con il quilting o intrecciare una borsa in macramè. Abbiamo selezionato 3 diversi progetti per tutti coloro che sono curiosi di sperimentare in prima persona i benefici della craft-therapy (ovviamente tutti beginner-friendly!). • GRANNY SQUARE Li abbiamo visti su cardigan, borse e top: i Granny Square sono stati tra le più grandi tendenze del 2022. Queste mattonelle - generalmente realizzate all’uncinetto - possono essere considerate l’antonomasia della craft-therapy. Costituiscono infatti singolarmente un progetto a sé, ma sono un modulo che ripetuto e assemblato può dar vita a capi, coperte o accessori. Dover ripetere gli stessi movimenti più volte, vi aiuterà sicuramente a liberare la mente. Proprio con dei Granny Square, abbiamo realizzato questa fascia: guarda il video e prepara gli uncinetti! https://www.instagram.com/reel/CZHwYuNB9IR/?igshid=YmMyMTA2M2Y= https://www.youtube.com/watch?v=14s2g62cuB8 • DIVERTITI CON LA CERAMICA Se da bambin* eri un* grande fan del DAS, questa è la tecnica che fa per te! Guarda il nostro video in collaborazione con This, Unique e crea il tuo vaso di ceramica. Avrete bisogno semplicemente di un panetto di argilla… e delle vostre mani! https://www.instagram.com/reel/Cl0u-V_D47z/?utm_source=ig_web_copy_link • REALIZZA DEI PASTELLI IN CERA Se senti il bisogno di riconnetterti con la natura e diventare più consapevole e responsabile, segui Maibie nella creazione di pastelli naturali. Siamo sicure che nelle vostre cucine ci sono tutti i pigmenti vegetali di cui potreste avere bisogno: cacao, curcuma o frutti di bosco! https://www.instagram.com/tv/CIDd8okITwG/?igshid=YmMyMTA2M2Y=
Saperne di piùVIOLENZA GINECOLOGICA
Mi ci è voluto qualche anno e una consapevolezza più profonda, regalatami dall’informazione sempre più preziosa e attenta divulgata dalle attiviste che si prodigano in questo ambito per una nuova educazione contro la violenza e per l’eliminazione dei tabù di genere, per rendermi conto che la violenza ginecologica è un fenomeno dalle molte sfaccettature. Esistono quelle più cruente e riconoscibili, ma anche quelle più silenziose, che si insinuano nell’animo in maniera silente ma costante, che esprimono un disagio facendoci costantemente interrogare sulla validità del nostro sentimento. Facendoci rimanere continuamente sul filo del rasoio, sospettosamente in bilico. Quelle violenze definibili dalla società “non violenze” che ci fanno domandare: ma è successo davvero o no? Come se quello che abbiamo sentito o provato fosse qualcosa di esagerato. Come se stessimo sbagliando a sentirci così. Il punto è che non stiamo sbagliando. Ed è il momento di rovesciare la situazione. Soffro di vulvodinia da molti anni e prima di aver ricevuto una diagnosi adeguata sono entrata e uscita da diversi studi ginecologici senza mai ricevere un riscontro medico attendibile e soprattutto credibile. Il dolore e il disagio erano etichette sempre nuove e sempre diverse, che mi trovavo appiccicate addosso ogni volta che uscivo da quelle porte. Il primo ricordo che ho di questo tipo di dolore, risale all’incirca ai miei 15 anni, in concomitanza con i miei primi rapporti preliminari. Di lì a poco mi sarei sottoposta alla prima visita ginecologica. Ricordo benissimo, purtroppo, quel giorno: entrai nella sala insieme a mia madre e vidi questa donna di circa mezza età, che mi disse in modo poco attento alla mia giovane età e senza modi gradevoli, di sdraiarmi sul lettino e nel frattempo mi fece qualche domanda. Pochi secondi dopo iniziò a visitarmi e iniziai a provare fitte e bruciore e lei, come il manuale del gaslighting insegna, disse che il mio dolore derivava semplicemente dal fatto che fossi ancora vergine. Nonostante il mio tentativo di fermarla e di spiegare che fosse qualcosa di troppo doloroso e acuto per essere ricondotto a quello che immaginavo all’epoca essere il "dolore da rottura di imene” – del quale mi ero fatta un'idea in base ai miei stessi rapporti fisici, e grazie ai racconti di conoscenti e amiche –, venni completamente ignorata. C’è da dire anche una cosa importante: sono sempre stata, fino a qualche anno fa, una ragazza incapace di far sentire la mia voce e di combattere per i miei diritti, motivo per cui capirete meglio come, da figure professionali e mediche che dovrebbero avere in mano la nostra salute, ascoltarci e tutelarci, sia stato per me e immagino sia più facile anche per molt* altr*, sentirsi soverchiati, poiché vulnerabili. Ma torniamo a quella che fu la mia prima visita. Come avete letto, le mie parole e il mio dolore non furono degni di tanta considerazione ma, come se non bastasse, il tutto si concluse con l’inserimento all’interno del canale vaginale di un ovulo che iniziò a bruciare a più non posso, il cui effetto indesiderato non mi permise di camminare o di scendere dalla macchina per circa un’ora e mezza. Ebbene sì, rimasi seduta sul sedile della macchina di mia madre senza scendere o entrare in casa per tutto quel tempo. In risposta al dolore provato fatto immediatamente presente in studio e alla richiesta di toglierlo poiché insopportabile, ricevetti in risposta un candido “su su, dopo un po’ passa” dalla ginecologa. Inutile dire che da quel momento in poi non misi più piede in uno studio ginecologico per molto tempo, per la paura di riprovare un dolore simile al quale non potevo oppormi. Il secondo episodio di violenza ginecologica è avvenuto qualche anno dopo. Avevo all’incirca 19 anni e, dopo continui episodi di dolore che erano ovviamente dissociati dalla mia prima “diagnosi”, avevo deciso di andare in un altro studio ginecologico per ottenere delle risposte e capire se i miei sospetti fossero effettivamente fondati. Questa volta la ginecologa sembrava abbastanza rispettosa e gentile: parlammo molto, io espressi i miei dubbi riguardo quella che era la mia condizione e lei mi ascoltò comprensiva e mi illustrò quello che sapeva della mia patologia (cioè poco o nulla), cercando di farmi capire un po’ meglio come affrontarla in futuro, chiarendo che fosse necessario rivolgersi a uno specialista qualificato. Dopo il colloquio di circa mezz’ora arrivò il momento della visita e, non avendone io fatta fino a quel momento una con attrezzi interni, non sapevo né a che cosa sarei andata incontro e nemmeno che cosa avrei potuto provare. D’un tratto, senza spiegazioni né attenzione al mio dolore precedentemente illustrato durante il colloquio conoscitivo, la ginecologa infilò lo speculum. Nonostante continuassi a dirle ad alta voce che provavo un dolore atroce e che non riuscivo più a resistere, fino a contorcermi sul lettino, lei proseguì con l’ispezione finché non ebbe finito. Questa esperienza mi è servita per capire che la violenza ginecologica non è solo essere vittime di un comportamento inadeguato, irrispettoso o crudele: si verifica anche nel momento in cui si superano i limiti del paziente per cercare di fare il “proprio lavoro”, senza porre troppa attenzione ai suoi bisogni in nome di un fine considerato giusto, cioè quello di ottenere risposte sulla condizione medica a dispetto del dolore derivante dalle procedure stesse. La terza e ultima esperienza di “violenza” ginecologica è capitata non molto tempo fa, proprio in concomitanza con la diagnosi effettiva di quello che è il mio dolore cronico. In questo caso, il rispetto nei miei confronti non è mancato nell’ambito fisico, bensì in quello psicologico che ha peggiorato, come un loop infinito, la condizione di quello fisico. Nonostante avessi espressamente richiesto la presenza del mio fidanzato all’interno della stanza in cui si doveva tenere la visita, è stato allontanato senza alcun motivo effettivo ignorando il mio volere, perché, secondo il parere della ginecologa, poteva essere un elemento di disturbo. A smontare questa tesi ci sono due nozioni che vanno chiarite: punto primo, il mio ragazzo è uno studente di medicina al 6° anno ed è stato lui ad aiutarmi a capire meglio la mia malattia e a comprendere cosa stavo affrontando. La sua presenza quindi, oltre ad essere confortante per me, poteva essere un punto a favore per spiegare ciò che io, tecnicamente, non sapevo descrivere, e un tramite prezioso per raccontare come la vulvodinia impattasse la mia quotidianità, da lui vista e osservata da tempo. Punto secondo, di lì a poco, nella stanza in cui si sarebbe tenuta la visita, a mia totale insaputa, ci sarebbero state altre 4 specializzande in ginecologia presenti per tutto il tempo: non solamente durante il colloquio, ma anche durante l’esame stesso, letteralmente piegate su di me. Oltre al fatto di non essere stata minimamente avvisata della partecipazione di altre persone a me estranee in principio, non mi è stato nemmeno chiesto se, data una condizione clinica così particolare, che personalmente trasporta l’agitazione e il disagio emotivo a uno stato fisico che aumenta il dolore, preferissi restare da sola con la dottoressa. Sono stata quindi osservata da 5 persone come un caso clinico da studiare, diventando del materiale didattico da utilizzare per una dimostrazione. Il tutto senza conforto del mio ragazzo per quanto riguarda il dolore che sapevo avrei provato durante lo swab test (un test che consiste nel toccare con un cotton fioc inumidito la vulva in punti specifici e che nelle persone affette da vulvodinia risulta doloroso) che si è aggravato poi a causa della condizione disagevole nella quale mi trovavo perché ero molto tesa. Come se non bastasse, anche la stessa visita è risultata ai miei occhi parzialmente vana perché, a causa dell'imbarazzo provato, non mi sono esposta chiaramente, bypassando alcune cose molto personali che non sentivo di condividere con le specializzande. Quando si dice tanto dolore per nulla. Infine, le mie esperienze si possono in qualche modo ordinare in fase decrescente di riconoscibilità della violenza. L’evidenza di essere stata vittima di un episodio del genere si è fatta sempre più difficile da individuare nel tempo, poiché da un episodio lampante sono passata a quella serie di domande e dubbi di cui parlavo all’inizio. “Si può definire tale?”, “magari ha solo fatto il suo lavoro” e così via. Quello che però ho capito grazie a questi avvenimenti è che se, in qualche modo siamo portati a domandarci se qualcosa di sbagliato sia avvenuto, forse, è perché è così. Non dico che debba essere necessariamente definita violenza ginecologica qualsiasi esperienza negativa, ma che la cosa importante sia interrogarsi senza paura e dare voce ai nostri dubbi, senza metterli a tacere a priori perché non conformi a quello che fino ad ora ci ha insegnato la società. Siamo noi a dover stabilire i limiti personali del nostro corpo e della nostra mente e, se questi non vengono rispettati, farlo presente senza paura come atto di rispetto verso noi stessi. MARTA BORASO
Saperne di piùLA MIA AMENORREA
Sono passati già 4 anni, e credo che non potrei mai più raccontare una parte della mia storia se non ci aggiungessi, ora come ora, le riflessioni fatte durante questo tempo trascorso. Tempo che mi è servito per capire e per imparare da, probabilmente, la lezione più dura che abbia mai ricevuto in vita mia.Non parlo spesso di quando ero ammalata di anoressia e per quanto, di conseguenza, non ho avuto le mestruazioni. Ed è qui che voi direte: ma come non ne parli? e i libri? i tuoi speech? Quando scrivo, entro in una zona protetta, mi rifugio dietro a semplici pagine con la convinzione che queste possano coprirmi, difendermi, nascondermi, da quel mostro chiamato giudizio o, peggio ancora, dalla più totale indifferenza. La stessa cosa vale nel momento in cui decido di fare uno speech, ritrovandomi ad accettare l’incarico solo se svolto in situazioni confortevoli che possano farmi sentire “protetta” dalle stesse parole che decido di usare e, a dirla tutta, dalle persone. In modo che, quello che decido di raccontare, possa essere ascoltato solo da chi ha veramente voglia di sedermi accanto, lasciandomi raccontare. Persi le mestruazioni dopo pochi mesi di malattia. Non ero assolutamente consapevole di soffrire di anoressia nervosa, e per quanto avessi sempre desiderato avere le mestruazioni, per sentirmi più donna nel senso più etimologico del termine, quell’assenza improvvisa di vita non mi turbò affatto. L’anoressia mi aveva completamente infettato la mente, perciò conclusi il tutto con un semplice “eh, vabbè.. niente più dolore e rotture, tanto i figli non li voglio”. Accade qualcosa di strano, quando sei anoressica. Il tuo corpo “deve” adattarsi alla tua rigidità mentale, non è altro che una cosa da sistemare, il punto numero 1 di una lista senza fine appesa al frigorifero, un imprevisto visibile che ti impedisce di essere quella che vorresti: mentalmente leggera. Come se il peso del nostro corpo, in quel momento, potesse definire quella pesantezza dell’anima che si tenta in tutti i modi di alleviare. Come se non fosse altro che una ricerca distorta e disperata di una libertà e un’ indipendenza che sembra andare ben oltre quelle semplici linee che definiscono la forma del nostro corpo. Fu per questo che fui quasi felice di non avere più alcun legame con quella Valentina “pesante” di cui volevo disfarmi da tempo, celebrando la fine biologica di qualcosa che avevo definito male, che avevo sempre visto come un impedimento e non come un segno della salute del mio corpo e, di conseguenza, della mia mente. Volevo sentirmi diversa dalle altre donne, da tutte le altre persone, dimostrando a me stessa che la mia forza di volontà avrebbe potuto fermare ogni flusso naturale della vita. Volevo sentirmi potente. E mi ci sentii. E così, il mio universo si sdoppiò. La realtà mi diceva: “se non hai più le mestruazioni significa che c’è qualcosa che non va. Chiama il dottore” ma la mia mente gridava: “Sta andando tutto come deve andare”. Fu il primo segnale che il mio corpo cercò disperatamente di inviarmi, fu il primo cartello ad indicarmi che, purtroppo, mi ero persa. Se le mestruazioni, nell’immaginario comune, denotano anche un senso di forte appartenenza al gruppo delle donne (cosa che non condivido), io non ne volevo assolutamente fare parte. Non mi ero mai sentita accettata da loro e desideravo, inconsciamente, scostarmi dalle stesse ma soprattutto da quell’idea stereotipata del femminile che, ancora oggi, tende a perseguitarci. Come se l’assenza del ciclo, potesse aiutarmi a farmi sentire così, libera dal sessismo degli uomini ma anche da quello delle donne. Come se, l’assenza del ciclo, potesse proteggermi dalla sessualizzazione e oggettificazione continua che subivo (e subisco) continuamente dagli uomini. Come se, l’assenza del ciclo e il raggiungimento di un corpo di bambina potesse rendermi indifferente a quello sguardo famelico maschile che riusciva a distruggere la mia anima e la mia persona. E, allo stesso tempo, potesse rendermi libera dallo sguardo invidioso e sprezzante delle altre donne. Godevo di un vuoto colmo di rabbia che mi ero minuziosamente creata per riuscire a sopravvivere a qualcosa di reale ma più grande di me, a qualcosa sul quale non potevo avere controllo, qualcosa che mi stava letteralmente divorando dentro. Qualcosa di cui, in realtà, non avevo colpa. “Io non sono più niente, quindi appartengo al vuoto, a quello che non c’è e che non esiste e, di conseguenza, in questo vuoto, devo crearmi una tana nella quale sopravvivere”. Scelsi inconsciamente la via della morte, dopo essere stata rifiutata ripetutamente dalla vita. Ricordo molto bene il giorno in cui mi tornarono le mestruazioni. Era estate, la stagione che odio di più in assoluto. Mi svegliai nella Residenza nella quale ero stata ricoverata molti mesi prima, totalmente ignara che, poco dopo, qualcosa di inaspettato avrebbe nuovamente cambiato il corso degli eventi. Il mio corpo stava di nuovo parlando, dopo tre lunghi anni di silenzio. Quella percentuale di malattia ancora presente nel mio corpo andò completamente fuori controllo ed io ebbi una delle più grandi crisi isteriche della mia vita. Non ero ancora del tutto guarita e accettare che il mio corpo si stesse riprendendo (e quindi tutto quel bagaglio psicologico che ho descritto prima) fu una pessima notizia per il mio disturbo alimentare. Ricordo la nutrizionista sorpresa e sorridente, incapace di nascondere le bellezza di quel momento che io vivevo con feroce rabbia. Fu anche stavolta, il ciclo, il primo segnale che il mio corpo decise di inviarmi per comunicarmi la sua volontà di rinascere, la sua volontà di fidarsi nuovamente di me, di essere pronto a riportarmi tutto quello che avevo tentato di nascondere. Fu il primo mattone visibile che la realtà decise di mettere tra me e la malattia. Mattone che fu di vitale importanza nella costruzione di quel grande muro che ancora oggi mi divide da ciò che è stato. Dalle mie paure e dai miei tormenti. Ritornare alla vita significa affrontare tutto quello che si è tentato in tutti i modi di soffocare, riappropriarsi di quel riflesso donato alle persone sbagliate. Riprendere il pieno possesso della propria vera identità, prendersi cura della propria salute, rinunciare a quell’irraggiungibile perfezione mentale e fisica che questo disturbo ti obbliga ad ottenere. Non potrei negare che quest’esperienza mi abbia cambiata nel profondo, e forse non smetterò mai di analizzarla comprendendo sempre più a fondo le diverse sfaccettature e dietrologie psicologiche che ruotano attorno a questo genere di malattie. Ma una cosa la so. E’ riuscita a svegliarmi, a rendermi molto più connessa alla realtà, alle altre persone che hanno passato situazioni simili alle mie, ai problemi che questa cultura causa alle persone più sensibili e, infine, sorpresa… alle donne. Grazie a questo ho imparato a sentirmi donna, ma donna davvero. Indipendentemente dalle mie forme, dal mio peso, dalle mie mestruazioni. Donna nel coraggio di lottare per la sopravvivenza, donna nella voglia di raccontarlo e sensibilizzarlo, donna nell’affrontare la realtà, donna nel pianto e nello sconforto, donna nella resilienza, donna nell’aiutare e aiutarsi, donna nella sorellanza e nell’empatia, donna nella ribellione e nella ricerca della verità. Donna nell’anima e non solo nel corpo. Donna dentro e nel profondo. Donna e basta. N.B. Questo articolo è relativo ala mia esperienza. Se stai vivendo un disturbo alimentare e sei in cura, non è detto che le mestruazioni tornino sempre autonomamente. Questo non significa che il tuo corpo non si fida di te, ma è tutto molto soggettivo e relativo ai dettagli del disturbo alimentare stesso (da quanto tempo ne soffri, come, eccetera). In alcuni casi, sotto scelta dei dottori supervisori, il ciclo viene stimolato non appena il fisico e la mente sono pronti per tornare alla vita. Non ci sono regole, ovviamente. Quindi nessun caso è “sbagliato”. - Be patient, take care, keep go on and never give up. :) VALENTINA DALLARI
Saperne di piùIl tempo delle donne
Quante cose si possono fare in 100 anni per le donne? Quante cose si possono fare in 100 anni? Moltissime. Eppure sembriamo non accorgerci di ciò che accade - ogni attimo - intorno a noi e di quanto peso abbia il tempo sulle nostre vite, soprattutto su quelle delle donne. Perché mentre il mondo fuori corre spasmodicamente, compiendo più azioni possibili secondo per secondo, per le donne il tempo segue un paradigma diverso e forse, leggendo questo, avrete più chiaro il perché. In 1 secondo un’ape sbatte le ali 230 volte In 1 minuto 6000 fulmini colpiscono in media la terra In 5 minuti vengono tagliati 10.200 alberi dalla foresta pluviale In 20 minuti 8.400 nuovi utenti si iscrivono a Facebook In 1 ora 108.000 stelle esplodono In 1 giorno 120.000 persone fanno sesso In 1 settimana 3 donne, in media, vengono uccise In 10 giorni 960 donne subiscono violenza In 30 giorni la Luna si allinea nuovamente con il Sole e la Terra In 90 giorni si fanno in media 450 match su Tinder In 100 giorni nel mondo si consumano circa 1.497.600.000 lattine di Coca Cola In 9 mesi la vita umana si forma nel grembo materno In 365 giorni vengono prodotti in media 1.279.502.956.800 kg di immondizia In 22 mesi un’elefantessa porta a termine la sua gravidanza In 2 anni si riversano 199.307.520.000 tonnellate d’acqua nelle Cascate del Niagara In 35 anni una donna affronta circa 420 cicli mestruali In 40 anni di fertilità una donna consuma 11.500 assorbenti In 48 anni le donne hanno ottenuto una legge che depenalizza l’aborto In 50 anni le donne hanno ottenuto l’approvazione della legge che vieta il licenziamento fino al primo anno del bambino In 72 anni e 110 giorni una donna ha tenuto in piedi uno dei regni più longevi della storia della monarchia In 85 anni le donne hanno ottenuto il diritto al voto In 92 anni le donne hanno ottenuto l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore In 132 anni (forse) il divario globale tra i sessi sarà colmato. EMILIA BIFANO
Saperne di piùArtiste e basta
L’arte al di là del genere. Non c’è bisogno di numeri o particolare dimostrazioni per dire che la storia dell’arte – l’arte nel senso più lato del termine – conta in prevalenza artisti maschi. È un dato di fatto. Basta pensare a qualunque nostro testo di scuola, dalla storia dell’arte alla letteratura (ma il campo potrebbe allargarsi) per renderci conto che la maggior parte dei nomi che saltano all’occhio, se non tutti, sono nomi di uomini. Bianchi. Non si tratta della solita retorica lamentevole del maschio-bianco-etero-cis che ha monopolizzato un settore della nostra società, e naturalmente – al di là dei gusti personali – i nomi che sono scritti con caratteri cubitali in quei libri è legittimo che stiano lì, ma, in fin dei conti, il nostro punto di vista è effettivamente distorto da una cultura patriarcale bianca (del maschio-bianco-etero-cis eccetera). Ci siamo cascat* di nuovo. Scusate. Naturalmente, il fatto che siano più i maschi consacrati nell’olimpo della nostra storia artistica non significa che le donne non sapessero farla; ma allora perché non ci sono state grandi artiste donne? È la domanda che si era posta, in tempi non sospetti, la storica dell’arte Linda Nochlin nel suo saggio forse più famoso, Why have there been no great women artists?, pubblicato sulla rivista “ARTnews” nel 1971. Nochlin scrive in tempi, gli anni Settanta, in cui la teoria femminista muoveva i suoi primi passi (dopo i primordi del primo Novecento), e decostruisce in maniera interessante il concetto stesso di “genio artistico”, troppo basato su strutture sociali e istituzionali severamente chiuse entro schemi precisi, che hanno contribuito alla costruzione di pregiudizi sociali misogini difficili da superare (le donne non possono fare arte, in poche parole). Non solo: fino all’inizio del Novecento l’istruzione artistica è stata riservata esclusivamente a studenti maschi, creando così un gender-gap notevole nella formazione individuale e nel successo artistico. La donna insomma, e lo sappiamo bene, è stata educata per altro: per essere una madre, una gentildonna, l’angelo del focolare. Non certo per permettersi tali velleità. Nochlin, in poche parole, cerca di andare al di là del concetto di opera d’arte come produzione tutta individuale figlia del genio – idea piuttosto romantica e datata, in effetti – e la interpreta piuttosto come profondamente determinata dalle strutture sociali e dalle istituzioni (le accademie, maschili, il canone, maschile). In una condizione simile, il ruolo della donna-artista era destinato a scomparire in quella stessa società maschilista e patriarcale che per secoli, e in parte ancora oggi, tutto divora e tutto omologa, stabilendo il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto. Dagli anni Settanta, sì, le cose sono cambiate: lo ammette Linda Nochlin stessa, che nel 2001, in occasione del trentennale del saggio, ne ha pubblicato una versione aggiornata dove riflette dei cambiamenti e della strada percorsa da allora, della maggiore inclusività dell’arte e dell’emancipazione dell’opera dal genere dell’artista. Il problema generale, comunque, è di percezione sociale: siamo abituati a immaginare l’artista – il pittore, lo scrittore, il musicista – come a un uomo, e ogni volta che ci interfacciamo con un’artista donna lo facciamo stupiti, concentrandoci sul fatto che sia una donna, e non sull’opera d’arte in sé. Diventa celebre l’artista in quanto tale, meno il suo lavoro (il caso di Frida Kahlo è piuttosto emblematico). Nella letteratura succedeva – ma la percezione è che capiti ancora – una cosa simile. La scrittrice ha sempre avuto bisogno, agli occhi del pubblico, di una giustificazione della scrittura. Una storia personale particolarmente travagliata, una violenza subita: il lavoro veniva ricondotto, anche dai critici, a pura testimonianza. Il testo lo si pubblica, sì, ma per un motivo specifico. Quando Sibilla Aleramo scrisse Una donna, pubblicato nel 1906, la critica letteraria lo accettò e riconobbe in quanto testimonianza autobiografica e, poi, come riflessione (proto)femminista. L’autobiografia c’è, è vero, e ha un grosso peso nella genesi dell’opera, così come ci sono le riflessioni di stampo femminista, ma innanzitutto quel libro è un romanzo, un’opera d’arte! La verità, allora, è che abbiamo sempre faticato, e in un certo senso fatichiamo ancora, ad accettare che una donna possa essere un’artista, che il suo lavoro valga al di là del genere; e non è più lodevole in quanto donna, perché ci siamo anche stufati di accettare la retorica (tutta maschile) del bel lavoro compiuto da una donna. Come a dire, incredibile!, non solo è un bel lavoro, ma l’ha anche fatto una donna! E il tutto condito con le solite frasi di circostanza, appellativi ed epiteti infantilizzanti quali “la reginetta del romanzo” o simili, perché per quanto pronunciati in buona fede continuano a sminuire il lavoro della persona, che nulla ha a che vedere con il genere. Accettiamo, una volta per tutte, la possibilità di essere artiste, al di là di ogni altra implicazione, solo artiste. Artiste e basta. ENRICO PONZIO
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