Radical chic senza radical

Che la rivoluzione che ci sforziamo di portare avanti accolga dentro di sé numerose esigenze - le lotte di genere, l’ambiente, le ingiustizie sociali, il razzismo - è un fatto riconosciuto: diversə attivistə o influencer (spesso le due categorie si accavallano) si impegnano in ambiti differenti e distanti in nome, anche, dell’intersezionalità. Tutto ciò, pensiamo, è positivo: non possiamo relegare ogni singola lotta a un misero individualismo, senza alcuna possibilità di dialogo o incontro. Si parla di tanto, è vero, e perciò capita talvolta che gli argomenti vengano appena sorvolati, sfiorati e poi lasciati da parte per passare al prossimo, impellente come qualunque altro. Ci si batte, sì, con impegno, ma non sempre con la necessaria profondità o preparazione, non sempre con le armi adatte. È ad ogni modo un problema facilmente risolvibile: compito dellə attivistə o influencer non è scavare nel dettaglio dei problemi, ma sollevarli. Che se ne parli è già di per sé un traguardo - soprattutto se pensiamo a certe minoranze, dimenticate oltre che discriminate - ed è un traguardo ancora maggiore il fatto che la gente ascolti. Forse a causa della velocità dei mezzi di informazione o forse per una maggiore sensibilità delle nuove generazioni, l’espansione mediatica di certi dibattiti è notevole rispetto a pochi anni fa, quando tali discorsi erano relegati ai più intimi circoli. La gente ascolta, dunque, legge, parla. E inesorabilmente, come sempre quando si è sulla bocca di tuttə, giungono le critiche. Uno dei cavalli di battaglia di coloro che, infatiditə da queste lotte, vi si oppongono fermamente, è l’accusa di buonismo. Termine vago, in effetti, e piuttosto vuoto, che però può essere sintetizzato con un concetto più specifico, quello di radical chic. Chi è attento ai problemi degli ultimi, chi si batte per l’uguaglianza di genere o si schiera dalla parte dei migranti è, sempre e comunque, un radical chic. Nel dibattito pubblico italiano, tale espressione viene utilizzata - pare - con una frequenza sempre maggiore, e quasi sempre in senso dispregiativo. Il termine è composto da due parole, una inglese e una francese, che indicano rispettivamente una tendenza radicale (appunto) e di sinistra, e un senso di raffinatezza e di moda - chic. Spulciando l’Oxford Dictionary leggiamo che si tratta, in poche parole, dell’ostentazione, molto di moda, di idee radicali e di sinistra. Non solo. Oltre al suo valore estetico, il termine chic sembra implicare un senso di agiatezza economica. Insomma, di ricchezza. Radical chic sarebbe quindi chi, ricco e forse annoiato, si diletta in battaglie sociali dall’alto della sua posizione di privilegiato. L’accusa, se ci pensiamo bene, è proprio quella. Il problema (forse meglio dire uno dei) della sinistra è proprio quello di relegarsi in circoli ristretti, intellettuali o pseudo intellettuali e borghesi, e da questa prospettiva giudicare, proporre, criticare. Ed ecco che in questo modo, negli anni, i suoi consensi sono non solo sprofondati, ma hanno cambiato bacino, nutrendosi di quei pochi laureati, spesso figli di laureati, che forse ancora la ascoltano. E allo stesso tempo sembra non esserci la volontà, da parte della sinistra, di dialogare con il popolo (esiste ancora questo concetto?). E così ci si allontana dalla realtà, le battaglie diventano chiacchiere, e si diventa radical chic. Ora, le lotte di cui parlavamo e nelle quali crediamo fortemente, pur essendo lotte politiche non sono sempre condivise o discusse dalla politica. Sono attivistiə e personaggi pubblici che si battono quotidianamente per far sì che questi argomenti vengano portati alla luce. Tuttavia, e questo è il punto, capita che anche queste discussioni, queste lotte di cui noi stessə facciamo parte, limitino il loro pubblico a una manciata di persone. O meglio: a una categoria sociale specifica, che ancora una volta è composta da giovane laureatə che hanno tutti gli strumenti - neanche sempre - per comprendere il focus della lotta. Il discorso spesso rimane chiuso, limitato a quellə di noi che leggono certi articoli, che seguono le riflessioni di certə attivistə, e che complicano il discorso ripiegandolo su se stesso, ogni giorno di più, senza accorgersi che al di fuori c’è un mondo che non l’ha capito, né vuole seguirlo. L’impressione è che a volte commettiamo il vecchio peccato della sinistra, quello di spaccarsi in microgruppi interni, litigiosi o anche soltanto eccessivamente retorici, che perdono il punto di vista, l’obiettivo. La lotta che portiamo avanti - le battaglie di genere, sociali, antirazziste eccetera - è giusta, senza dubbio. Ma è un’operazione inutile continuare a ripetercelo a noi stessə come a farci i complimenti da solə, è inutile crogiolarci nella consapevolezza di avere ragione puntando il dito contro chiunque non la pensi come noi, tacciandolə come poverə ignorantə. Combattiamo contro questo nuovo pregiudizio che ci pesa sulle spalle, riprendiamoci tutte quelle persone che una laurea non ce l’hanno, che non conoscono l’articolo, o l’attisìvista o l’influencer: convinciamo loro che abbiamo ragione! Che ciò per cui ci battiamo è giusto, che è utile per tuttə, ma facciamolo con umiltà, con ascolto, con il dialogo. Non releghiamoci nei circoli e nei salotti, reali o virtuali che siano. Perché altrimenti, alla fine, diventeremo davvero radical chic. Sì, ma senza radical.




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