MALE GAZE (lo sguardo maschile al mondo)
Ogni volta in cui provo a spiegare a un uomo i numerosi significati che troviamo nell’essere donna in una società di stampo patriarcale, sento sempre sbuffare, vedo tanti occhi al cielo, sento diverse risatine e vengo immediatamente accusata di essere “così esagerata”. Il tema di cui vorrei parlare oggi è quello che cerco di spiegare agli uomini che mi circondano, sentendo di avere il compito di donargli un punto di vista che non possono conoscere e con il quale non hanno mai avuto a che fare nonostante, questa società di stampo patriarcale, in qualche modo, vada indirettamente a colpire anche loro stessi. Ho letto tantissime cose riguardo al “male gaze” ovvero allo “sguardo maschile”, di come abbia influito moltissimo nella definizione popolare del “ruolo” ( e dell’aspetto ideale) della donna nella nostra società e di come abbia indirettamente influito anche sull’uomo stesso, andando a stimolare in esso l’imitazione continua di un modello tossico fino alla formazione, ovviamente, di una cultura nociva vera e propria. Per “sguardo maschile”, quindi, non s’intende soltanto uno sguardo sessualizzante, ma s’intende anche la genesi di questo modello culturale che affonda le proprie radici nella narrazione, nell’unico punto di vista maschile (non neutro) attraverso il quale il mondo è sempre stato abituato a vedere. Lo troviamo nel cinema, da dove ho scoperto nasce proprio questo nome “male gaze”, nella televisione e anche, ovviamente, nella vita quotidiana. Una delle cose che mi viene più difficile è spiegare a un uomo che cosa significa questo sguardo per noi donne e di come sia stato difficile accorgersi, crescendo, di come questa subdola manipolazione abbia effettivamente creato inconsciamente una convinzione radicata in noi donne (e con effetti sulla cultura) per la quale il nostro valore fosse solo giudicabile tramite quello sguardo (quindi un punto di vista) maschile e tramite le sensazioni ed emozioni scatenate in questi ultimi con l’inconscia convinzione, fin dalla nascita, che il nostro ruolo fosse solamente legato al puro e semplice scopo di appagare, sostenere, accomodare e di conseguenza farsi accettare, farsi definire ed eventualmente farsi scegliere da questo “uomo protagonista”. Come se dovessimo anche essere “degne” di essere scelte. Svegliarsi è come ricevere una mattonata in faccia, una doccia fredda tramite la quale prendere atto della quantità di luoghi/situazioni/sistemi e comportamenti tossici di cui siamo sempre state circondate, e di come essi vengano socialmente giustificati e considerati “normali” e, di conseguenza, messi in atto meccanicamente dalla società con lo scopo di andare a rimarcare questo “male gaze” che noi donne, purtroppo, abbiamo saldamente scolpito dentro di noi. (Non è una colpa, crescere in un ambiente così ci ha portate ad avere questo sguardo/pinto di vista dentro di noi). Chiaramente, questo sguardo, questa narrazione maschile, ha dato un significato al corpo della donna posizionandola non solo come soggetto dipendente dall’uomo ma, di conseguenza, anche come oggetto sessuale con l’unico scopo di soddisfare le pulsioni del maschio eterosessuale. Un corpo, in pratica, di proprietà dell’altro, facente parte di una donna senza alcun sentimento, desiderio o controllo. Da qui, potremmo collegarci tranquillamente anche al significato vero e proprio del problema del “Cat Calling”, di come l’uomo si senta in diritto (spinto da quello che viene schifosamente giustificato come istinto animale) di osservare e commentare il corpo della donna e di come lei, di conseguenza, non possa ribellarsi e di cui, secondo loro, dovrebbe sentirsi compiaciuta per il valore sessuale e quindi sociale dell’attenzione che lui ci sta REGALANDO. In fin dei conti, secondo questo sguardo maschile, il valore di una donna è direttamente proporzionale alla sua desiderabilità, alla sua bellezza e al desiderio sessuale che essa è in grado di smuovere nell’uomo (tramite il proprio corpo). Essere guardate e di bell’aspetto è infatti qualcosa che ci viene inculcato fin dalla tenera età e da cui, nel mio parere, ne deriva anche una parte di causa della famosa “competizione femminile” come se, inconsciamente, facessimo a gara tra di noi per ricevere le attenzioni (capaci di farci sentire importanti e valorose) del narratore della nostra storia lasciandogli il potere e il controllo di incasellarci/indicarci un ruolo (chiaramente sbagliato) che, in realtà, per colpa di questa società di stampo patriarcale, la donna fatica a trovare da sola. Se ci pensiamo, infatti, nella nostra società la donna considerata “valorosa” e “degna di attenzioni” viene sempre dipinta come una persona passiva, accomodante, dipendente dall’uomo, amorevole, bisognosa d’aiuto e, perchè no, anche futura madre (spoiler, anche le religioni hanno messo un bel carico). Inutile dire che questo, infatti, influisca letteralmente sul modo in cui noi donne percepiamo noi stesse ( e le altre) sia fisicamente ma anche nella comprensione della nostra funzione nella società. Questa continua oggettificazione della donna porta inevitabilmente ad annullare la persona, ad annullare la sua identità e il suo reale ruolo nel mondo e, di conseguenza, smuove nel soggetto colpito un’insicurezza riguardo alle sue capacità professionali, un’insicurezza e senso di estraneità con il proprio corpo e una vergogna, un senso di colpa riguardo alla propria presenza fisica. Io stessa, avendo sempre lavorato in ambienti maschili, sono stata spesso accusata di lavorare solo grazie alla mia bellezza o, allo stesso tempo, sono stata sminuita professionalmente tramite allusioni al mio corpo o, di recente, rimproverata per non aver usato il mio corpo per ottenere più rilevanza lavorativa. Non a caso, con il senno di poi, credo che in qualche modo il mio disturbo alimentare sia stato anche un modo di inconscia (è una malattia) ribellione riguardo allo sguardo sessualizzante dell’uomo e, purtroppo, lo sguardo invidioso delle donne che ho incontrato nella mia vita. Quell’invidia nata, come dicevamo precedentemente, da una massiccia quantità di sguardi maschili che ho sempre ricevuto nel corso della mia vita e che sono sempre stati decifrati erroneamente, dalle altre donne, come metro sociale, come se io fossi appunto più “valorosa” di loro. In un modo o nell’altro, da entrambe le parti, il mio ruolo veniva sempre ridotto unicamente alla mia presenza fisica, senza che io fossi mai davvero, realmente, ascoltata / vista come una persona. Questo continuo rifiuto a livello umano che ho sempre subito (non voglio fare la vittima, ma questa è la realtà) da parte di entrambi i sessi e del mio rifiuto di essere definita donna secondo la definizione maschilista e non quella reale, credo abbia sicuramente influito molto nell’aspetto psicologico e profondo del mio disturbo alimentare e quindi, di conseguenza, al mio rifiuto nell’ avere un corpo che fosse considerato desiderabile sessualmente/eccitante dagli uomini, che fosse considerato oggetto di invidia dalle donne e, infine, che fosse considerato ingombrante dalla sottoscritta, e che andasse a minare la mia credibilità lavorativa. Questa introduzione lunghissima che ho scritto l’ho fatta perchè chiunque leggesse questo articolo potesse in qualche modo calarsi lentamente in un punto di vista femminile, per arrivare quindi a empatizzare con un argomento che purtroppo oggi viene spesso deformato, banalizzato e, purtroppo, non considerato veritiero da una certa fetta di popolazione maschile (non tutta) e, ahimè, femminile. Credo che nel 2023 sia doveroso informarsi, sia in qualità di donne che anche in qualità di uomini, abbracciando l’idea che un nuovo tipo di cultura possa renderci persone elevate e migliori, cittadini di un mondo che rispetta i diritti umani delle donne e che si presta a considerarci tutti uguali, senza essere vittime di discriminazioni, divari di genere e stereotipi di genere. Sperando di essere sempre di più, a far rumore, a scardinare, a unire le forze, per lottare contro una società e, di conseguenza, una cultura che ha sempre fatto di tutto per non ascoltarci.
VALENTINA DALLARI