Artiste e basta

L’arte al di là del genere.

Non c’è bisogno di numeri o particolare dimostrazioni per dire che la storia dell’arte – l’arte nel senso più lato del termine – conta in prevalenza artisti maschi. È un dato di fatto. Basta pensare a qualunque nostro testo di scuola, dalla storia dell’arte alla letteratura (ma il campo potrebbe allargarsi) per renderci conto che la maggior parte dei nomi che saltano all’occhio, se non tutti, sono nomi di uomini. Bianchi. Non si tratta della solita retorica lamentevole del maschio-bianco-etero-cis che ha monopolizzato un settore della nostra società, e naturalmente – al di là dei gusti personali – i nomi che sono scritti con caratteri cubitali in quei libri è legittimo che stiano lì, ma, in fin dei conti, il nostro punto di vista è effettivamente distorto da una cultura patriarcale bianca (del maschio-bianco-etero-cis eccetera). Ci siamo cascat* di nuovo. Scusate.

Naturalmente, il fatto che siano più i maschi consacrati nell’olimpo della nostra storia artistica non significa che le donne non sapessero farla; ma allora perché non ci sono state grandi artiste donne? È la domanda che si era posta, in tempi non sospetti, la storica dell’arte Linda Nochlin nel suo saggio forse più famoso, Why have there been no great women artists?, pubblicato sulla rivista “ARTnews” nel 1971. Nochlin scrive in tempi, gli anni Settanta, in cui la teoria femminista muoveva i suoi primi passi (dopo i primordi del primo Novecento), e decostruisce in maniera interessante il concetto stesso di “genio artistico”, troppo basato su strutture sociali e istituzionali severamente chiuse entro schemi precisi, che hanno contribuito alla costruzione di pregiudizi sociali misogini difficili da superare (le donne non possono fare arte, in poche parole). Non solo: fino all’inizio del Novecento l’istruzione artistica è stata riservata esclusivamente a studenti maschi, creando così un gender-gap notevole nella formazione individuale e nel successo artistico. La donna insomma, e lo sappiamo bene, è stata educata per altro: per essere una madre, una gentildonna, l’angelo del focolare. Non certo per permettersi tali velleità. Nochlin, in poche parole, cerca di andare al di là del concetto di opera d’arte come produzione tutta individuale figlia del genio – idea piuttosto romantica e datata, in effetti – e la interpreta piuttosto come profondamente determinata dalle strutture sociali e dalle istituzioni (le accademie, maschili, il canone, maschile). In una condizione simile, il ruolo della donna-artista era destinato a scomparire in quella stessa società maschilista e patriarcale che per secoli, e in parte ancora oggi, tutto divora e tutto omologa, stabilendo il giusto e lo sbagliato, il bello e il brutto.

Dagli anni Settanta, sì, le cose sono cambiate: lo ammette Linda Nochlin stessa, che nel 2001, in occasione del trentennale del saggio, ne ha pubblicato una versione aggiornata dove riflette dei cambiamenti e della strada percorsa da allora, della maggiore inclusività dell’arte e dell’emancipazione dell’opera dal genere dell’artista.

Il problema generale, comunque, è di percezione sociale: siamo abituati a immaginare l’artista – il pittore, lo scrittore, il musicista – come a un uomo, e ogni volta che ci interfacciamo con un’artista donna lo facciamo stupiti, concentrandoci sul fatto che sia una donna, e non sull’opera d’arte in sé. Diventa celebre l’artista in quanto tale, meno il suo lavoro (il caso di Frida Kahlo è piuttosto emblematico). Nella letteratura succedeva – ma la percezione è che capiti ancora – una cosa simile. La scrittrice ha sempre avuto bisogno, agli occhi del pubblico, di una giustificazione della scrittura. Una storia personale particolarmente travagliata, una violenza subita: il lavoro veniva ricondotto, anche dai critici, a pura testimonianza. Il testo lo si pubblica, sì, ma per un motivo specifico. Quando Sibilla Aleramo scrisse Una donna, pubblicato nel 1906, la critica letteraria lo accettò e riconobbe in quanto testimonianza autobiografica e, poi, come riflessione (proto)femminista. L’autobiografia c’è, è vero, e ha un grosso peso nella genesi dell’opera, così come ci sono le riflessioni di stampo femminista, ma innanzitutto quel libro è un romanzo, un’opera d’arte! La verità, allora, è che abbiamo sempre faticato, e in un certo senso fatichiamo ancora, ad accettare che una donna possa essere un’artista, che il suo lavoro valga al di là del genere; e non è più lodevole in quanto donna, perché ci siamo anche stufati di accettare la retorica (tutta maschile) del bel lavoro compiuto da una donna. Come a dire, incredibile!, non solo è un bel lavoro, ma l’ha anche fatto una donna! E il tutto condito con le solite frasi di circostanza, appellativi ed epiteti infantilizzanti quali “la reginetta del romanzo” o simili, perché per quanto pronunciati in buona fede continuano a sminuire il lavoro della persona, che nulla ha a che vedere con il genere. Accettiamo, una volta per tutte, la possibilità di essere artiste, al di là di ogni altra implicazione, solo artiste. Artiste e basta.

 

ENRICO PONZIO




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