INCLUSIVITÀ E PRONOMI
Singular they, pronomi di genere e altre incomprensioni
«Je est un autre», «Io è un altro», esordiva il giovane Rimbaud nella sua celebre Lettera del veggente, confondendo fin da subito il lettore con una stonata deformazione grammaticale. Recentemente, Demi Lovato, cantautrice e attrice statunitense, dichiarando la propria identità non-binaria, ha chiesto che non ci si riferisca più alla sua persona con i pronomi (femminili e singolari) she/her, ma con la terza persona plurale they/them. Insomma, una stonatura, all’orecchio, simile a quella di Rimbaud. Se però il poeta vedeva nella mancata concordanza una fuga dal soggettivismo e dalla propria identità, Demi Lovato trova in questa operazione un mezzo per esaltarla. Per mettere in chiaro le cose, verrebbe da dire in poche parole.È bene procedere con ordine. Traducendo letteralmente dall’inglese è facile, per noi italiani, fare confusione. Se il corrispondente italiano loro è corretto da un punto di vista grammaticale, infatti, l’uso che ne fa Demi Lovato è un altro, quello che in inglese è indicato come singular they, il they singolare, e ha la funzione di pronome singolare neutro. Qualche grido di protesta si alza dal mondo di internet: esiste già it! È vero, è sacrosanto, ma viene utilizzato in riferimento alle cose o agli animali! Perché mai, ci chiediamo, qualcunə che non si identifica né nel maschile né nel femminile dovrebbe svilire sé stessə con il pronome it? La forma del singular they, allora, consente alla lingua inglese di ampliare il proprio spettro linguistico andando a includere coloro che non possono (e non vogliono) identificarsi nella polarizzazione canonica she/her – he/him. Ma non si tratta, tuttavia, di una forma nuova. Il blog Terminologia, curato dalla linguista Licia Corbolante, dimostra infatti la sua attestazione già seicento anni fa, per quanto il suo uso fosse destinato soltanto nel caso di soggetto indefinito (anyone, nobody...) o quando non si conosca il genere (per esempio il generico friend). Ora, alla luce delle rivendicazioni di genere, si sta cominciando a estendere tale forma, sfruttando il suo potenziale inclusivo implicito a favore di un’inclusività linguistica. E si tratta di un’estensione piuttosto rapida e capillare, se si considera che Instagram (per il momento nel Regno Unito e negli USA) ha recentemente annunciato l'introduzione dei pronomi di genere nella biografia del profilo.
L’italiano, naturalmente, si comporta in maniera diversa. Per quanto riguarda i plurali e i soggetti indefiniti (qualcuno,nessuno...) grammaticalmente ci si avvale del cosiddetto maschile sovraesteso, che include in sé generi diversi. In più, nella nostra lingua sostantivi, aggettivi e verbi hanno desinenze che indicano il genere (amic-o / amic-a...), distinguendo in maniera più categorica rispetto all'inglese. Per questo motivo, non esiste la possibilità di un pronome che vada a includere un neutro, proprio perché è un genere non previsto dalla nostra grammatica: they/them, pertanto, è intraducibile. Per cui, no, Demi Lovato non pretende che ci riferisca alla sua persona come loro, bensì in una forma che, per ora, non esiste nella nostra lingua. Eppure, ne esiste la necessità. Perché identità non-binarie, per forza di cose, esistono anche in Italia, e forse sarebbe il momento di trovare una soluzione pronominale che soddisfi le loro esigenze. L’introduzione di un pronome neutro in quelle lingue che non lo prevedono, fa parte di un più ampio meccanismo di evoluzione sociolinguistica che non fa altro che riflettere le necessità, le pretese e le battaglie sociali che al giorno d'oggi governano la scena pubblica. Tutto ciò non deve essere percepito come un'aggressione nei confronti della nostra lingua, o una strana forma di terrorismo sintattico-grammaticale, ma come uno dei tanti simboli di una lotta legittima, che ha bisogno di farsi sentire su più fronti. La lingua è un fattore sociale, e in quanto tale risente della fluidità sociale: l’uso della forma “tutt*” / “tuttə”, per esempio, richiama a una problematica, ahimé extralinguistica, di esclusività e discriminazione di genere. Fare uso di tali forme, pertanto, è in primo luogo una presa di posizione: non necessaria da un punto di vista grammaticale, ma sociale sì. Significa accorgersi che tra il pubblico a cui si sta facendo riferimento con quel “tutt*” (o “tuttə”) esistono realtà e identità diversissime, tutte da porre sullo stesso piano. Non si tratta, allora, di una rivoluzione grammaticale o linguistica in senso stretto; la lingua in questo caso è piuttosto un mezzo per un fine: l'inclusività di genere.
Sui pronomi personali, il dibattito è oggi aperto più che mai, e capita che paladini della lingua o della società, da entrambi i fronti, si espongano e si indignino senza avere ben presente i complicati meccanismi linguistici. Questo, forse, importa poco. Ciò che è importante, crediamo, è la portata che le battaglie sociali e di genere (in tutte le loro sfaccettature) abbiano sulla scena pubblica; anche se tra varie incomprensioni, traduzioni errate e strafalcioni, l’inclusività è un problema di cui si parla. Dopo anni di silenzio, di soprusi e di ingiustizie, stiamo vivendo un momento di lotta in qualche modo rivoluzionario, che obbliga anche i più restii a riflettere sulla diversificazione (bellissima) della società, obbliga a rendersi conto che alcuni individui sono più discriminati di altri, o addirittura nemmeno tenuti in considerazione. Ora sentiamo la loro voce. Ora ne parliamo. Finalmente.
ENRICO PONZIO