QUANDO IL MODELLO MASCHILE DOMINA, ANCHE SULLA SALUTE!

La medicina, teorizzata per secoli da uomini e per uomini, tende ancora oggi a equiparare la donna all’uomo. Si parla di medicina neutrale o medicina indifferente, ma quando si tratta di sintomi, diagnosi ed efficacia dei trattamenti le differenze ci sono eccome!
Il dosaggio dei farmaci, così come lo sviluppo e l’utilizzo di dispostivi medici (fatte salve alcune particolari esigenze), vengono in genere studiati su un modello di uomo giovane, di circa 70kg.

 

La sottorappresentazione del genere femminile nel sistema medico ha radici profonde. La quasi totalità dei programmi scolastici di medicina continua a sostenere che i corpi maschili e femminili sono generalmente gli stessi ad eccezione degli organi sessuali, una convinzione nota come “bikini-medicine”. Negli studi in vitro frequentemente non si tiene conto se le cellule contengano i cromosomi XX o XY. Quando si passa in vivo, su modelli animali, viene preferito l’utilizzo di animali di sesso maschile per ridurre al minimo le differenze causate dalle fluttuazioni ormonali. Nei trial clinici le donne vengono spesso escluse dalle fasi I e II, necessarie a determinare dosaggio, effetti collaterali e sicurezza di un farmaco ed entrano nella sperimentazione direttamente nella fase III, quella in cui si stabilisce l’efficacia del farmaco su una grossa fetta di popolazione.
La donna viene quindi considerata come una variazione del modello maschile, ma le differenze morfologiche e fisiologiche determinano una considerevole differenza nella risposta dell’organismo, così come nel modo in cui il farmaco viene assorbito, distribuito e metabolizzato.

 

A causa del numero ridotto di rappresentanti del genere femminile nei trial clinici, ma anche della mancanza di analisi statistiche che tengano conto delle differenze di genere, le donne sono maggiormente esposte a reazioni avverse ai farmaci dovute a sovradosaggio, ad una riduzione di efficacia e ad effetti indesiderati maggiori o più gravi rispetto agli uomini.
Nonostante questa consapevolezza sia maturata e gli organismi regolatori nazionali ed internazionali abbiano creato appositi programmi per monitorare la salute delle donne e la loro partecipazione ai trial clinici, e nonostante il fatto che si sta iniziando a parlare di farmacologia di genere, i protocolli di sperimentazione non sono cambiati e la maggior parte degli studi non prevede una differenza tra maschi e femmine al momento dell’arruolamento e dell’analisi dei dati.

 

L’inferiorità numerica della partecipazione femminile agli studi sperimentali è imputabile a numerose e diverse ragioni. Ragioni economiche in primis: per stratificare i dati in base al sesso è necessario arruolare uomini e donne, raddoppiando la partecipazione alla ricerca con conseguente aumento di tempi e costi della sperimentazione. Ragioni biologiche: le donne sono considerate soggetti “difficili” per la sperimentazione clinica, a causa delle fluttuazioni ormonali sia cicliche che non (ciclo mestruale, gravidanza, allattamento e menopausa). Questa variabilità crea la necessità di avere un gran numero di partecipanti alla sperimentazione per poter valutare effetti significativi, e non è detto poi che questo accada. Inoltre, molto spesso in caso di partecipazione ad un trial clinico da parte di una donna fertile, per evitare che il farmaco sotto esame possa potenzialmente avere effetti negativi sul feto la casa farmaceutica impone l’utilizzo di contraccettivi ormonali.
Mancanza di tempo, dovuta principalmente alla difficoltà di ritagliare del tempo tra lavoro e impegno domestico-familiare, e scarsa attenzione dei reclutatorə alle necessità pratiche e psicologiche femminili.
Il comitato bioetico italiano afferma che la mancanza di studi specifici sulle donne, soprattutto nelle prime fasi della ricerca, non consente di misurare la reale efficacia dei farmaci sull’organismo femminile oltre a limitare l’identificazione di farmaci appositamente studiati per le donne.
Un’analisi stratificata per sesso può fornire indicazioni utili su quale sia la scelta terapeutica migliore per ciascun individuo e dare informazioni che consentano di approfondire lo studio delle malattie che colpiscono sia uomini che donne, permettendo di capire meglio se possono esserci differenze nell’incidenza o/e nel decorso ascrivibili al sesso.

 

Un aspetto che potrebbe aiutare ad invertire questa tendenza e spingere verso l’utilizzo diffuso della farmacologia di genere potrebbe essere la presenza di un maggior numero di donne impegnate nella ricerca e nella pratica clinica. La loro presenza, nelle equipe che progettano e gestiscono gli studi e all’interno dei comitati regolatori contribuirebbe ad aumentare l’attenzione nei confronti della necessità di garantire un’uguale rappresentazione femminile e maschile all’interno delle sperimentazioni.

La ridotta presenza femminile nel mondo della ricerca, medica ma non solo – pensiamo ad ambiti come ingegneria, matematica, informatica – in cui la scienza viene fatta da uomini, che vivono e percepiscono il mondo a loro immagine, in cui le donne sono solo una variazione sul tema, ha contribuito a creare e ad alimentare una società basata su un modello patriarcale ricco di stereotipi e atteggiamenti machisti, che è giunto il momento di superare.
Beatrice Uguagliati



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