Reality show bizzarri e quote arcobaleno

Tra gli orrori quotidiani che si sentono a proposito della Russia era uscito, circa un mese fa, uno scandalo che per qualche ora ha spostato l'attenzione della nostra – legittima – indignazione a proposito della guerra verso qualcosa di diverso. Il colpevole di tale momentaneo cambio d'obiettivo è stato un reality show dal titolo quantomai inequivocabile: I'm not gay. Si tratta di un gioco in cui, mimetizzato tra una massa di virilissimi giovani maschi eterosessuali, si nasconde un gay. E va scovato. Il pezzo, a questo punto, potrebbe finire: l'assurdità della sfida è tale che non varrebbe nemmeno la pena di parlarne (e infatti non sono stati molti i giornali a farlo), tuttavia crediamo che da qui possano derivare alcune riflessioni.

Lo scandalo, se c'è stato, ha avuto un'eco ben lieve, se non tra una buona fetta della comunità LGBTQ+. Ciò è dovuto in parte al fatto che il conflitto ucraino è tornato presto a imporsi sulla scena mediatica, e in parte perché in Europa conosciamo bene le apertissime posizioni omofobe della Russia, tanto da non stupirci neanche più. E forse non colpisce neanche che il reality sia stato ideato e condotto da un parlamentare russo, Vitaly Milonov, già noto per i suoi aspri estremismi nel campo. Non ci stupiamo, perché gli orrori che può commettere la Russia sono così ampi che un gioco innocente – non lo è, noi lo sappiamo bene – passa di gran lunga in secondo piano; ma soprattutto ci consoliamo dall'alto della nostra superiorità culturale perché qua da noi non succede. Non può.

È vero. In parte. È indubbio che la nostra sensibilità è ben cambiata negli ultimi anni, e che la nostra apertura verso tutto ciò che non è cis/etero sta poco a poco crescendo, ma è allo stesso tempo vero che fino a qualche anno fa esistevano nella nostra televisione programmi (quasi) altrettanto orribili. Fino a pochi anni fa la cultura ultra-machista, maschilista e sessista entrava quotidianamente nei nostri salotti in prima serata, o all'ora di cena, tramite quella infinita serie di produzioni che esponevano come bambole corpi di ragazze semi nude e senza nome, lasciandole mute a sorridere allo schermo mentre il presentatore di turno, maschio, aspettava il momento giusto per farle l'ennesima battuta a sfondo sessuale, con tanto di risate di pubblico e famiglie. Lentamente, tuttavia, grazie alla nuova sensibilità acquisita, abbiamo cercato di lasciarci alle spalle certi modelli, ma sostituendoli con che cosa? A ben osservare il palinsesto odierno, specialmente di certi canali, pare che il problema sia stato soltanto arginato. Gli astuti produttori, per evitare di cascare malamente in qualche inevitabile critica, hanno cominciato a piazzare strategicamente qualche specchietto per le allodole qua e là, quanto basta per avere il fondoschiena al riparo in caso di attacchi. Così il vecchio La pupa e il secchione, reality show in cui una ragazza molto bella e necessariamente stupida cercava le attenzioni del maschio bruttino ma naturalmente intelligente, è stato tramutato ora in La pupa e il secchione e viceversa, come se in quell'avverbio ci fosse la soluzione a tutti i problemi impliciti di discriminazione di genere che aveva il programma. Allo stesso modo, di recente si cominciano a vedere uomini valletti di fianco alle solite ragazze: così adesso sono entrambi i generi a sorridere alla telecamera e a mostrare con qualche ammiccamento il loro bel fisico. Non che ora alla ragazza venga riconosciuta qualche qualità, ma per lo meno c'è un uomo al suo fianco a salvare tutti da una spaventosa accusa di sessismo. Che poi le battutine continui a riceverle lei, poco importa. È come se si fosse improvvisamente sentita la necessità, in televisione, di una quota azzurra, il bisogno di uomini in ruoli in cui generalmente venivano piazzate e discriminate le donne. E lo stesso, se non peggio, vale per la comunità omosessuale. In quel caso sembra che le quote gay – quote arcobaleno, forse? - siano inevitabili per sempre più programmi, perché così si dimostra al mondo l'inclusività nella scelta dei protagonisti. Ma devono essere omosessuali più che palesi, stereotipati al massimo grado, perché il pubblico a casa si deve accorgere che quella persone è gay, e chissà, magari nel privato del suo salotto, ridere dell'eccentricità di quel personaggio. Devono essere vestiti in modo kitsch, devono parlare come la più scadente delle imitazioni di un omosessuale, e sovente – ma forse questa è puramente una nostra impressione – devono essere uomini. Le lesbiche non hanno tutto questo spazio, o comunque non sono così palesate. Chissà, evidentemente non fanno piglio, non stupiscono. Beate loro.

Non è chiaro se tutto ciò sia un goffo tentativo di inclusività o soltanto un contentino per far star zitt* chiunque in questi anni abbia protestato contro il sessismo – e non solo – presente sulla nostra televisione. Quello che è certo, però, è che da noi il reality I'm not gay non potrebbe mai e poi mai (e poi mai) esistere; e di questo possiamo consolarci. Perché in fondo siamo dei bravi maschi bianchi etero. E viceversa. 

 

ENRICO PONZIO




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