Parliamo di vulvodinia

Il trattamento dalla vulvodinia è un problema sanitario, sociale ed economico irrisolto: un percorso tra disagi, falsi miti e soluzioni effettive

Sono ancora fin troppe le donne, sia giovanissime che in età fertile, ma anche dopo la menopausa, che soffrono di vulvodinia e che spesso non lo sanno.

Nonostante circa il 15% dell’intera popolazione femminile ne sia affetta, come descritto in svariati articoli e studi, la vulvodinia rimane ancora oggi una patologia poco conosciuta dalla classe medica e dalla società.

Sono infatti innumerevoli le pazienti che, non sapendo cosa fare, si sono rivolte speranzose alle proprie ginecologhe e ai propri ginecologi per ricevere, invece, risposte come “Signorina, il suo dolore non esiste, è solo nella sua testa”, “Signora, la sua è solo una cistite, aspetti che le prescrivo un ciclo di antibiotici, ovuli e lavande” oppure qualche mirabolante rimedio senza alcun razionale clinico, insistendo con le pazienti sul fatto che fossero i medici ad avere ragione.

Sono fin troppi i dottori che, rendendosi conto di non sapere, non danno la risposta che dovrebbero dare, che è soltanto una: “Io non so cosa fare per poterla aiutare, è meglio che si affidi a un* professionista più preparato di me in questa materia, io nel mentre cercherò di colmare questa mia mancanza di conoscenza.”.

Purtroppo, questa ammissione è poco diffusa.

Capitano fin troppo spesso, invece, episodi di invalidazione del dolore e dei sintomi, di diagnosi e di piani terapeutici completamente errati, di mancanza di capacità nel riconoscere e curare correttamente questa problematica ginecologica.

 

Fortunatamente, grazie all’impegno di molte attiviste e di molt* professionist*, la vulvodinia sta iniziando ad avere finalmente uno spazio concreto nelle discussioni, sia a livello parlamentare, sia a livello medico ma anche nella popolazione stessa.

Non è possibile, difatti, che una paziente che soffre di questa patologia ne sappia più di molti medici che dovrebbero, invece, essere in grado di aiutare questa persona e di guidarla attraverso il processo di cura e di guarigione.

Secondo uno studio europeo condotto del 2019, tra il 45% e il 60% dei ginecologi non sa fare una diagnosi di vulvodinia; il 20% la conosce, ma non saprebbe trattarla: questa percentuale, nella maggior parte, si concentra nel Nord Italia. Tutto ciò causa un ritardo diagnostico di anni: alcune pazienti che attendono qualche anno, altre che hanno atteso anche tra i 12 e i 15 anni prima di ricevere una diagnosi.

 

Le cause della mancanza di conoscenza sono molteplici: in primis la società patriarcale e maschilista per la quale un dolore come questo in passato è stato riconosciuto – e lo è ancora, purtroppo da più medici –  come mentale, dunque non biologico e fisico. Non è un caso che le parole isteria e simili derivino da histerëcus, che significa utero, imputando in generale la causa delle patologie mentali alle donne. Ma ancora oggi nelle Scuole di Medicina e Chirurgia italiane, spesso patologie come la vulvodinia vengono soltanto accennate, ma non affrontata nel dettaglio come sarebbe corretto fare.

 

Tutto questo alimenta una circolazione inesatta delle informazioni, dando spazio sia nel mondo dell’internet sia tra diversi professionisti – che di professionale hanno ben poco, verrebbe da dire – a bufale che riguardano sia le cause della vulvodinia sia i rimedi.

Vediamo insieme, quindi, alcuni di questi falsi miti e quali siano, invece, le terapie corrette che vengono proposte da parte di professionisti seri e realmente preparati.

 

Diffidate da qualsiasi professionista che vi dica che per guarire dalla vulvodinia serve avere più rapporti sessuali – in posizioni diverse e senza essere tese –;  che il dolore deriva dalla paura di avere rapporti o che sia causato da una mancanza di desiderio nei confronti del proprio partner; diffidate da chi indica la causa del dolore nello stress,  da chi consiglia di provare la malva, vari tipi di integratori e prodotti omeopatici oppure addirittura di usare i cristalli – sì, stiamo parlando davvero di cristalloterapia – o da chi nega il vostro dolore.

Spoiler: non è normale provare dolore.

Diffidate inoltre da chi consiglia di rimanere incinta, perché la gravidanza risolve tutto: non è così.

O magari di concedersi all’alcol per inibire il dolore.

 

Queste sono solo alcune delle risposte che numerose pazienti si sono sentite e si sentono tuttora riferire.

La vulvodinia non si cura così!

 

Innanzitutto, bisogna diagnosticarla correttamente e questo si fa attraverso il cotton swab test e l’anamnesi eseguita insieme alla paziente, ascoltando tutto quello che la paziente sente di condividere e di raccontare, indagando soprattutto la tipologia di dolore che prova, di come si sente durante i rapporti sessuali e al di fuori di questi, e se noti anche dei disturbi a livello intestinale.

Sono molte le domande da fare per un’anamnesi accurata e appropriata: un vero professionista non si limiterà a quelle citate qui sopra, ma ne farà di ulteriori per completare la propria diagnosi differenziale di vulvodinia.

È poi necessario effettuare una valutazione del tono del pavimento pelvico per comprendere lo stato di quest’ultimo: ipertono del pavimento pelvico e vulvodinia, infatti, vanno a braccetto. A queste diagnosi devono seguire sia un piano terapeutico che la riabilitazione del pavimento pelvico, la quale non può essere omessa in presenza di ipertono.

 

La cura della vulvodinia non si basa solo su questi passaggi effettuati da un* ginecolog*, ma si deve adottare un approccio multidisciplinare che comprenda anche altr* professionist* della salute, come fisioterapist*, endocrinologh* urologh*, nutrizionist*, psicoterapeut*/psichiatr* e laureat* in Scienze Motorie e Sportive: sono davvero molte le componenti da considerare e sulle quali si può lavorare per un migliore stile di vita.

 

Essendo varie e diverse le cause, la terapia deve essere non solo personalizzata, ma anche adattata alla sintomatologia della paziente. 

Per stabilire un rapporto terapeutico sano fra medico-paziente, è fondamentale:

  • Credere alla paziente e ascoltarla;
  • evitare di farla sentire responsabile del proprio dolore e di quello che sta affrontando;
  • evitare di sovrastimare i benefici secondari;
  • evitare di renderla passiva e dipendente, perché il migliore approccio è che la paziente sia la protagonista attiva del proprio processo di cura;
  • chiedere come il dolore persiste anziché chiederne il perché;
  • definire chiaramente obiettivi realistici verso i quali accompagnare la paziente e adattare lo stile del trattamento a quest’ultima.

 

Ed eccoci, finalmente, al cuore di questo articolo: i vari trattamenti della vulvodinia, che sono molto differenti fra loro e attraverso i quali si cerca di ottimizzare il controllo del dolore – nella consapevolezza che una sua totale scomparsa potrebbe non essere possibile – e migliorare lo stato di benessere psicofisico e, così, la qualità di vita.

Tra le terapie farmacologiche, quelle più efficaci a livello sistemico sono gli antidepressivi ciclici, gli anticonvulsivanti e gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) off-label che, a dosaggi inferiori, interrompono i circuiti del dolore cronico e la sensibilità abnorme dei nervi causante l’allodinia, quella sensazione dolorosa che viene percepita senza esserci realmente un danno.  Qualora il medico ritenesse opportuno prescrivere tali farmaci informerà la paziente dei possibili effetti indesiderati e concorderà con lei le modalità di assunzione. 

A livello locale si possono applicare anestetici topici in crema, come la lidocaina, direttamente in sede vestibolare per alleviare transitoriamente il dolore, soprattutto prima dei rapporti sessuali.

Ci sono, inoltre, anche formulazioni in combinazione con antidepressivi/anticonvulsivanti per migliorarne e potenziarne l’efficacia a livello topico.

 

È possibile utilizzare anche creme inibenti l’attività mastocitaria al fine di evitare un’iperattività dei mastociti. Queste sono a base di aliamidi, come l’adelmidrol, o di sodio cromoglicato e polidatina, elementi che impediscono la degranulazione dei mastociti. L’associazione di questi principi attivi può essere un ottimo coadiuvante nel controllo della risposta infiammatoria propria dell’innesco, del mantenimento e della riattivazione delle alterazioni neuropatiche proprie della vulvodinia.

 

Alla terapia farmacologica viene associata la fisioterapia: ogni programma di terapia, dalla farmacologica alla manuale, fino a quella psicologica, è personalizzato in base ai risultati della valutazione iniziale della paziente.

Il fisioterapista ha dei compiti fondamentali nel processo di cura: infatti, oltre alla valutazione e alla riabilitazione manuale della muscolatura specifica del pavimento pelvico e del bacino, deve effettuare una valutazione posturale e della respirazione della paziente, perché il diaframma lavora in associazione con la muscolatura del pavimento pelvico. A questa valutazione devono seguire la correzione degli atteggiamenti posturali non corretti e l’insegnamento di una good practice a cui la paziente deve attenersi, come esercizi di stretching e di detensione della muscolatura coinvolta nell’ipertono.

Eventuali tensioni muscolari della zona del bacino, poi, vanno a influenzare la contrattura della muscolatura del pavimento pelvico e, dunque, sarà da agire anche su queste.

Le terapie manuali effettuate con la fisioterapia e quelle fisiche, cioè attraverso l’utilizzo di macchine, se eseguite con regolarità, danno sollievo nell’80% dei casi. 

Una terapia fisica è quella del biofeedback elettromiografico che permette di imparare un metodo di auto-rilassamento per controllare le contrazioni dei muscoli e, di conseguenza, il dolore.

La finalità della terapia è consentire alla paziente d’imparare a controllare la muscolatura pelvica, riducendo progressivamente l’ipertono che la caratterizza.

Si può ricorrere, tra i trattamenti fisici, anche alla TENS (la Stimolazione Elettrica Nervosa Transcutanea), tecnica che consiste nell’applicare sulla parte interessata alcuni elettrodi che emettono impulsi elettrici a bassa frequenza in grado di inibire le afferenze nervose coinvolte nella trasmissione del dolore. 

 

Ai presidi medici e farmacologici va affiancato, poi, uno stile di vita e comportamentale volto a ridurre al minimo gli stimoli irritativi, magari utilizzando determinato abbigliamento intimo e non oppure l’utilizzo di prodotti adeguati alla cura dell’igiene intima.

Un supporto psicoterapeutico può essere utile, in particolare quando in anamnesi si evidenziano elementi riferibili a traumi psicologici o di abusi fisici e/o sessuali.

 

Nel momento in cui, però, questo tipo di soluzioni non dovessero essere sufficienti, è possibile ricorrere a dei trattamenti più invasivi, come le infiltrazioni nelle sottomucose vestibolari di cortisonico e anestetico locale, che, attraverso la rapida interruzione del sintomo, l’azione antiinfiammatoria e l’effetto inibitorio esercitato sulle fibre nervose, ne fanno un’efficace metodica.

Un altro tipo di infiltrazione è quella muscolare della tossina botulinica, che agisce a livello della giunzione neuromuscolare inibendo il rilascio dell’acetilcolina e, quindi, provocando una spasmo-lisi muscolare.

Anche la chirurgia, solitamente utilizzata come ultima soluzione, può essere uno strumento terapeutico per affrontare questa patologia.

C’è, quindi, una serie di trattamenti differenti di cui usufruire e molti altri sono ancora in fase di studio all’interno di diversi trial clinici.

 

Una domanda, però, sorge di fronte a tutto questo: chi è a pagare per tutte queste cure? Le pazienti, di tasca propria.

Si stima che una donna, infatti, possa spendere fino a 50 mila euro nell’arco dell’intero percorso di diagnosi e di cura della vulvodinia.

Le mancanze del Servizio Sanitario Nazionale hanno permesso a diversi specialisti privati, sedicenti “guru” propinatori di rimedi totalmente inefficaci, di chiedere cifre astronomiche per una prima visita o anche per una semplice valutazione del pavimento pelvico. Il prezzo, anche se viene fatta una media, rimane comunque oneroso: tra i 150 e i 250 euro per le visite ginecologiche, ogni mese almeno 300 euro di fisioterapia, tra i 50 e i 100 euro di integratori realmente efficaci e circa 50 euro di farmaci non detraibili. Senza tenere conto del costo della psicoterapia.

E chi non può permettersi una spesa del genere? Purtroppo, la risposta la sappiamo.

Oltre alla scarsa formazione di personale medico specializzato, la vulvodinia non è riconosciuta neanche dallo Stato: lo dimostra il fatto che la malattia non compare nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), cioè non è una malattia per la quale sono previste prestazioni o servizi forniti dal Servizio Sanitario Nazionale, ma sono tutte a pagamento.

 

La vulvodinia è e rimane, purtroppo, ancora doppiamente invisibile: al medico, che non la conosce e riconosce, e allo Stato.

Le uniche a vederla sono le pazienti lasciate a soffrirne la presenza nelle proprie vite.

Ed è ora che questo mantello di invisibilità venga tolto.

 

LORENZO CIOL




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