Tutta colpa della lingua?

In uno dei più conosciuti dizionari della lingua italiana, alla voce “donna” si può leggere: 

 

“femmina adulta dell’uomo / donna di casa, che ama la vita domestica, che sa governare una casa / moglie, donna amata, la mia donna / appellativo onorifico che si premette ai nomi di signore altolocate, per es. alla moglie del presidente della repubblica / signora, padrona / Nostra Donna, la Madonna / donna di servizio domestica … / donna cannone: donna grassissima, numero d’attrazione nelle fiere / figura del gioco delle carte: donna di picche”.

 

Non vi stupirà, dunque, se in questo articolo parleremo di discriminazione di genere e linguistica

 

Del resto la differenza con la voce “uomo” è evidente: 

 

“un grand’uomo / un uomo di mondo / un uomo nuovo, una persona umile che si è fatta da sé / un uomo d’affari, manager /un uomo di legge, giurista, avvocato / l’uomo del giorno, chi in un dato momento o periodo si impone all’attenzione per l’attività che svolge, per i suoi meriti / un uomo di lettere …”

 

La diamo spesso per scontata, ma la discriminazione linguistica tra uomo e donna può avere un impatto significativo sulla percezione e il trattamento dei generi nella società e può anche contribuire a mantenere e perpetuare disuguaglianze sociali ed economiche. 

 

PAROLE, SOLTANTO PAROLE?

 

Seppure negli ultimi anni molte realtà editoriali si stiano impegnando per rovesciare il paradigma che vede il genere maschile predominante tra le pagine del dizionario, il traguardo per raggiungere l’uguaglianza tra i generi è ancora lontano.

 

Questo perché storicamente il genere maschile era convenzionalmente considerato "genere neutro". Nei secoli, questa idea si diffuse anche in altre lingue europee, dove il genere maschile divenne il genere predominante in molti ambiti, tra cui quello della scrittura dei dizionari: nei dizionari italiani pubblicati fino a oggi, la maggior parte dei femminili non compaiono affatto o al massimo vengono affiancati con il riferimento al termine maschile (per esempio: “bella, femminile singolare di bello”). Tutto ciò è stato influenzato anche dal fatto che molte attività e professioni erano storicamente svolte principalmente da uomini e quindi i termini associati a queste attività erano spesso al maschile.





QUESTIONI DI GENERE

 

A rafforzare la discriminazione linguistica vi sono anche l’intenzione e l’accezione che spesso vengono attribuite da chi parla (intenzionalmente o meno) a molti termini femminili.

 

Esempio cardine è che per decenni (e spesso ancora oggi) l’utilizzo del termine “uomini” per indicare gli esseri umani in generale invece del termine inclusivo “persone”.

 

Eccone molti altri che fanno parte del nostro linguaggio quotidiano: 

 

  • "Uomo d'affari"/"donna di casa", implicano che un certo genere sia più adatto a certi ruoli o professioni rispetto all'altro.

 

  • "Ragazzi" o "membri" per descrivere un gruppo di persone, che esclude implicitamente le donne.

 

  • I pronomi maschili come "lui" o "il suo" per riferirsi a una persona di cui non si conosce il genere, che implica che l'interlocutore sia maschio per default.

 

  • Nomi e aggettivi che implicano che un certo comportamento o tratto di personalità sia esclusivamente maschile o femminile. Ad esempio, "maschiaccio" o "effemminato" sono termini che suggeriscono che certi comportamenti o interessi siano adatti solo a uno dei due generi.

 

  • Espressioni che escludono categoricamente il femminile come “solo per veri uomini”.

 

  • Termini riferiti agli attributi sessuali esclusivamente maschili per definire una caratteristica caratteriale con accezione di forza e/o coraggio “tu si che hai le palle”.

 

  • L'uso di espressioni che suggeriscono che la sessualità delle donne sia un aspetto primario della loro identità, mentre quella degli uomini no come "donna facile".

 

  • Termini che minimizzano o negano l'esistenza di problemi o disuguaglianze che riguardano le donne come "femminismo estremo".

 

  • Termini denigratori o offensivi per riferirsi a donne, come "puttana" o "troia", che implicano che le donne siano inferiori o oggetti sessuali.

 

  • L'uso del maschile per riferirsi a un gruppo misto, ad esempio "gli studenti" invece di "gli studenti e le studentesse".



Come se questo non bastasse esistono anche:

 

  • Linguaggio corporale: in determinate circostanze alle donne viene imposto un utilizzo del linguaggio più sottomesso rispetto agli uomini, ad esempio evitando di guardare negli occhi.

 

  • Linguaggio ambiguo: alle donne è stato insegnato di usare un linguaggio più morbido o ambiguo, ad esempio quando si tratta di comunicare un'opinione o di dare indicazioni.

 

  • Giudizio di valore: le donne viene fatto notare il modo in cui parlando. Ad esempio se usano un tono troppo alto o troppo basso, se sono troppo assertive o troppo timide.

 

  • Interruzione e monopolio della conversazione: gli uomini hanno spesso maggiori opportunità di interrompere le donne o di monopolizzare la conversazione senza che vengano ripresi per questo atteggiamento (al contrario delle donne).

 

  • Uso dei titoli: le donne spesso vengono identificate dal loro status matrimoniale, ad esempio "signora" invece di "signorina", mentre gli uomini vengono identificati solo dal loro nome (come il tristemente comune: “la fidanzata di Damiano dei Maneskin” per indicare Giorgia Soleri)

 

  • La differenza di tono e linguaggio: ad esempio, si possono usare parole come "forte" e "assertivo" per descrivere un uomo, ma "aggressivo" e "dominante" per descrivere una donna che ha le stesse caratteristiche.

 

E LE PAROLACCE? 

Noi donne vantiamo un’invidiabile sequela di epiteti volgari a noi riferiti, ma per raccontarveli lascio la parola alla straordinaria Paola Cortellesi che recita un monologo ispirato a un testo di Stefano Bartezzaghi sugli usi sessisti della lingua italiana

 

VIDEO: https://www.youtube.com/watch?v=4WjhLSkXqTk



di EMILIA BIFANO




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